Emergenza abitativa a Como: la solidarietà può vincere la stigmatizzazione?

Condizione attuale e necessità di un processo di integrazione futuro

Contesto pandemico e reti di supporto

Como città conta circa ottantaquattro mila abitanti. Di questi è difficile dire con precisione quante siano le persone senza dimora: si tratta certamente di qualche centinaio, in forte crescita nell’ultimo anno. A Como così come in tutta Italia infatti è complesso stimare quale sia la portata dell’emergenza abitativa a causa di censimenti ormai datati (l’ultimo operato a livello nazionale risale al 2015) e di una generale fatica a tracciare chi spesso, più nolente che volente, rimane nell’ombra. Nell’ultimo anno, in concomitanza con il contesto pandemico, il fenomeno della homelessness comasca ha dovuto affrontare crescenti complicazioni derivate non solo dalle problematiche condizioni di gestione dei servizi a questo rivolti, ma anche dalla crescente e preoccupante stigmatizzazione. Parte della cittadinanza comasca infatti non ha ben reagito alla notizia, risalente a giugno 2020, di sei persone senza dimora risultate positive al Covid-19: se per qualcuno tale evento è diventato occasione di riflessione sulle falle dell’attuale sistema assistenziale, per altri questo si è tramutato solo in una fonte di inquietudine e volontà di allontanamento di una realtà considerata sgradita. Questo desiderio di respingere e reprimere ciò di cui non si accetta l’esistenza e di cui non si vuole riconoscere la responsabilità è emerso chiaramente anche attraverso l’azione dell’assessora alle politiche sociali Angela Corengia – tra le file del centrodestra – la quale a settembre 2020 ha reputato prioritario procedere con la “sanificazione” dei portici di San Francesco privando di coperte ed effetti personali le persone senza dimora lì presenti. Purtroppo non si tratta di un caso isolato, ma di un atteggiamento diffuso e ricorrente.

Eppure, come afferma Roberto Bernasconi – direttore della Caritas diocesana – la soluzione non è affatto allontanare dalla vista coloro che ogni giorno subiscono le dirette conseguenze dell’emergenza abitativa presente a Como, bensì al contrario avere il coraggio di aprire gli occhi, comprendere che il problema non è dei pochi ma della collettività e affrontarlo. Fortunatamente, molto numerose sono le realtà locali e i singoli cittadini che scelgono ogni giorno di percorrere questa strada. Durante l’emergenza sanitaria, la rete locale Vicini di strada composta da 18 enti impegnati per le persone senza dimora si è adoperata affinché fosse possibile accogliere in nuovi dormitori coloro che sarebbero rimasti irrimediabilmente esclusi dall’offerta comunale. Le neonate strutture, nella parrocchia di S. Rocco e in un’ex caserma dei Carabinieri, mettono a disposizione altri sessanta posti letto, per uomini e donne, italiani e stranieri; si stima che, durante il piano di Emergenza Freddo 2021 (novembre 2020 – aprile 2021) siano state accolte complessivamente centosessanta persone, il cui accesso all’offerta assistenziale è stato regolato dal servizio di Porta aperta, un progetto della Caritas diocesana attivo da più di vent’anni. A questo sostanziale contributo sono state poi affiancate altre iniziative quali l’attività delle Unità di Strada, volte a fornire un supporto alle persone senza dimora sul territorio, e un sostegno ai bisogni primari, in primis quello alimentare. Dunque è evidente che, nonostante le azioni del Comune di Como che ha predisposto in accordo con Caritas l’apertura di due dormitori e ha collaborato con alcune di queste realtà, senza la rete solida di Vicini di strada e di altri singoli enti del terzo settore non sarebbe stato possibile arginare l’emergenza.

Questi interventi, tuttavia, sono riusciti solo in parte a supplire alle mancanze, contingenti quanto strutturali, del sistema comunale volto al sostegno della popolazione senza dimora. Ampliando lo sguardo oltre il solo contesto pandemico, il discorso si fa più impegnativo e complesso: emerge infatti chiaramente la necessità di costruire sistemi alternativi che possano abbracciare il problema alla radice e ribaltare le prospettive. Questo è quanto si è provato a realizzare quando, a luglio 2019, la maggioranza delle parti politiche di Como ha approvato una mozione relativa alla costruzione di un dormitorio notturno permanente. Ad opporsi in prima linea la Lega, con a capo l’ormai ex-vicesindaca Alessandra Locatelli, insieme ad un considerevole numero di cittadini che si è mostrato apertamente intollerante alla sola idea di avere accanto alla propria dimora un posto che diventi casa per chi una sua dimora non la ha. Quando intervistata, la vicesindaca ha dichiarato di aver ostacolato il progetto perché favorevole ad interventi più mirati, ad hoc per la persona, affinché questa possa riabilitarsi e reintegrarsi, riuscendo ad uscire dal circuito assistenziale perché nuovamente indipendente; per concretizzare quest’idea, ha citato progetti di reinserimento lavorativo e di housing first. Pensieri in parte condivisibili che tuttavia, per risultare ragionevoli ed efficaci, comportano un impegno reale e massivo, un cambio di rotta decisivo. Fino ad ora questo non si è verificato: la situazione attuale vede gli storici portici di San Francesco sgomberi dai residenti della strada, che sono però confluiti in strutture di accoglienza solo temporanee. Un fatto rimane: del dormitorio permanente, di certo utile per tamponare l’attuale situazione nonché dovuto alla cittadinanza comasca in quanto approvato in consiglio comunale, non vi è traccia. 

Casa, salute e lavoro: teoricamente diritti per tutti, di fatto privilegi per pochi

Fino ad ora si è fatto riferimento al diritto all’abitare e alla sua gestione nella realtà comasca ma va ricordato che un’altra questione problematica, anch’essa ancora aperta e in cerca di soluzione, riguarda l’accesso delle persone senza dimora ad altri tipi di diritti. In Italia, infatti, le persone senza dimora non sono titolari di diritti specifici bensì dei medesimi diritti previsti per gli altri cittadini, tuttavia esistono una serie di barriere che ne ostacolano o impediscono l’accesso, in particolare nell’ambito sanitario.

A Como l’ambulatorio Casa Santa Luisa gestito e sostenuto dall’Associazione ASCI don Guanella onlus offre un servizio di prevenzione, diagnosi e cura alle persone senza dimora che non possono accedere al Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Prerequisito per poter accedere al SSN è infatti l’iscrizione anagrafica in un Comune, fattore nient’affatto scontato come emerge da un’indagine Istat (2015) secondo cui, nonostante tutti i cittadini abbiano il diritto di residenza,  solo i due terzi  delle persone senza dimora dichiara di essere iscritto all’anagrafe. Nel corso del 2019 sono state 360 le persone inviate presso l’ambulatorio, che ha elargito 439 visite mediche e si è fatto carico di 260 richieste di farmaci, distribuiti poi gratuitamente agli indigenti. In mancanza di tale servizio, queste persone avrebbero come unico punto di riferimento sul territorio i Pronto Soccorso Ospedalieri. Per le persone senza dimora la possibilità di esercitare il proprio diritto alla salute è dunque fortemente compromessa dalla mancanza di un’abitazione. Chi vive in strada è infatti esposto a un alto rischio di contrarre malattie sia fisiche sia psichiche, poiché difficilmente intrattiene un rapporto stabile con un medico di base, non ha la possibilità di trascorrere una convalescenza che permetta un recupero adeguato e vive una realtà di forte emarginazione. La possibilità di ammalarsi è quindi maggiore e le risorse necessarie per curarsi sono limitate. Diritto all’abitazione e diritto alla salute non possono dunque essere concepiti separatamente e infatti le Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia del 2015 sottolineano la necessità di integrare i servizi sociali e sanitari. Tuttavia, ancora oggi persistono incomprensioni tra i servizi nello stabilire chi deve intervenire nel momento in cui una persona senza dimora necessita di cure mediche; spesso gli enti del Terzo Settore si trovano a dover far fronte a bisogni di cui lo Stato non si fa carico e, non avendo le risorse economiche necessarie, ricorrono a finanziamenti temporanei e al volontariato.

Particolarmente grave è la situazione di quella parte di popolazione senza dimora extracomunitaria che non dispone di permesso di soggiorno in quanto esso è un prerequisito necessario per ottenere una copertura sanitaria e delle tutele socio-assistenziali. Da un report del 2019 emerge che a Como circa il 33,56% degli extracomunitari che si sono rivolti a Porta Aperta durante l’anno non possiede un permesso di soggiorno: si tratta di 349 persone che non possono usufruire dei dormitori presenti in città e che non possono accedere alle prestazioni sanitarie erogate dal SSN, ma hanno accesso esclusivamente ai servizi emergenziali. Agli stranieri irregolari viene consegnata una Tessera STP (Straniero Temporaneamente Presente) che ha validità su tutto il territorio nazionale. L’erogazione di prestazioni sanitarie per gli STP è di competenza delle regioni, alcune delle quali hanno creato centri appositi, mentre altre hanno organizzato il servizio all’interno delle strutture sanitarie preesistenti. Tuttavia, alcune regioni hanno delegato il compito ad organizzazioni di volontariato, le quali si trovano a dover sopperire all’assenza di opportunità pubbliche accessibili, pur avendo a disposizione sovvenzioni finanziarie ridotte.

Fortunatamente, un progetto capace di rendere effettivi i diritti all’abitazione e alla salute delle persone senza dimora esiste: è l’Housing First (HF), il cui presupposto è che la casa non dovrebbe essere un premio da ottenere grazie ad una condotta conforme alle aspettative e alle richieste sociali. L’HF è una realtà ancora poco presente in Italia ma negli ultimi anni si sono mossi dei passi in questa direzione e questo è avvenuto anche a Como, dove nel 2020 il Comune ha consegnato a una rete di associazioni del terzo settore quattro appartamenti per avviare dei percorsi di accoglienza assistita che rientrano nel progetto Strade verso casa. L’Housing First risulta inoltre particolarmente efficace rispetto ai servizi assistenziali tradizionali non solo nel raggiungimento dell’autonomia abitativa ma anche nel raggiungimento di quella economica e lavorativa. Il monitoraggio condotto da fio.PSD (2017-2019) sui progetti di Housing First esistenti in Italia mostra infatti che dopo aver preso parte al percorso  la percentuale di persone occupate è aumentata dal 27% al 44%. Questo dato indubbiamente positivo si inserisce tuttavia in un contesto ancora fortemente problematico: un’indagine Istat (2015) mostra che in Italia il problema per le persone senza dimora non risiede esclusivamente nell’accesso al lavoro, ma anche a uno stipendio adeguato. Infatti, al contrario di quanto sostenuto da una narrazione fortemente stereotipata e stigmatizzante, il 62% della popolazione senza dimora risulta occupata, ma la  remunerazione è insufficiente per la soddisfazione dei bisogni primari e quindi non consente all’individuo il sostentamento né tantomeno il pagamento di un affitto. I servizi dedicati alle persone senza dimora cercano di tamponare questo problema attraverso un accompagnamento lavorativo che prevede la compilazione del curriculum vitae e la ricerca di colloqui di lavoro ma, dovendo agire su una popolazione molto ampia e non avendo a disposizione fondi stabili, faticano a trovare una soluzione a lungo termine.

In Italia la maggior parte dei servizi per persone senza dimora è portata avanti da organizzazioni private, il cui contributo nelle attività di contrasto al fenomeno della grave emarginazione è essenziale ma non è sufficiente. Rendere i diritti costituzionali effettivi per tutti i cittadini è un dovere che lo Stato non può delegare agli enti del Terzo Settore, i quali non dispongono delle risorse necessarie per dare luogo a un sistema presente sul territorio in modo capillare. Nelle Linee di contrasto alla grave emarginazione adulta viene infatti rilevato che «le migliori pratiche messe in campo dal Terzo Settore a favore delle persone senza dimora hanno luogo in quei contesti nei quali esiste un sistema pubblico di programmazione degli interventi che, lungi dal delegare loro compiti pubblici, coinvolge e valorizza i corpi intermedi nella gestione della funzione pubblica di supporto alle persone senza dimora, considerandoli autentici partner e non meri delegati»

Articolo di Gina Maria Marano e Valeria Ortolani