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Eni nel mondo ha una pessima reputazione
Se l’operato di Eni pare intoccabile e indiscutibile per chiunque in Italia, all’estero le pratiche spesso dubbie arrecano alla multinazionale e al Paese un danno reputazionale non da poco
Tanto tuonò che piovve. La tanto discussa, ma forse mai veramente in dubbio, conferma di Claudio Descalzi alla carica di amministratore delegato di Eni da parte del governo si è concretizzata a metà aprile. In pieno lockdown, la notizia del terzo mandato triennale consecutivo per Descalzi ha per un paio di giorni rotto la monotonia delle notizie a senso unico sull’emergenza Covid-19.
Alla fine il Movimento 5 Stelle, unica forza politica dell’intero arco parlamentare che aveva negli ultimi anni sollevato dubbi sull’operato di Descalzi, ha capitolato, accettando la sua conferma in cambio della nomina dell’avvocato Luisa Calvosa alla Presidenza della società al posto dell’uscente Emma Marcegaglia. I grillini si prefiggevano l’obiettivo di produrre un cambiamento nella tipologia di nomine nelle principali aziende partecipate, ma hanno finito per spaccarsi, con il battitore libero Alessandro Di Battista che con un manipolo di dissidenti ha prima pubblicamente chiesto la testa di Descalzi, poi denunciato il fallimento dei 5 Stelle nel negoziato all’interno del governo. Un teatrino che ha miseramente messo in luce l’incapacità cronica della politica italiana di porsi seriamente la domanda di quale altra leadership avrebbe bisogno la multinazionale italiana più nota al mondo. Sì, perché di problemi, soprattutto di natura giudiziaria, Descalzi ne ha più di uno, motivo della tardiva guerra aperta dichiarata da Di Battista.
La routine di Eni nel Palazzaccio
Al Palazzo di Giustizia di Milano ormai non si contano più i faldoni su Eni e sulla sua ex-controllata Saipem, coinvolte in vicende di presunta corruzione in paesi africani. Dall’inizio del decennio, infatti, sono già due i processi istruiti presso il Tribunale del capoluogo lombardo, quelli per presunte mazzette pagate in Algeria e Nigeria, mentre è in fase avanzata un’altra indagine sempre per corruzione nella Repubblica del Congo.
Il caso più eclatante e conosciuto riguarda la controversa acquisizione del blocco petrolifero offshore nigeriano OPL 245, per cui nel 2011 Eni e Shell hanno pagato 1,3 miliardi di dollari. Tra gli imputati, oltre a Descalzi, anche il suo predecessore Paolo Scaroni, altri top manager di Eni e Shell, vari intermediari – tra cui spicca Luigi Bisignani, l’ex delfino di Giulio Andreotti – e l’ex ministro nigeriano del Petrolio, Dan Etete.
Le indagini dell’ufficio del pubblico ministero milanese Fabio De Pasquale sono state innescate da una denuncia presentata nell’autunno del 2013 da Re:Common e della organizzazioni britanniche Global Witness e The Corner House.
Tecnicamente la mazzetta contestata alle due società ammonterebbe a un miliardo e 100 milioni di dollari. In teoria questa immensa quantità di danaro sarebbe dovuta andare al governo nigeriano, che però ha fatto solo da “tramite” per il pagamento alla Malabu, società del già citato Etete. Nel 1998, il ministro del Petrolio ai tempi del dittatore Sani Abacha, successivamente condannato per riciclaggio di denaro sporco, si era infatti auto-assegnato il giacimento OPL 245. Per la licenza miliardaria aveva pagato una cifra ridicola, solo 20 milioni di dollari.
Nel settembre 2014, su richiesta della procura di Milano, una corte inglese aveva riconosciuto che 523 milioni di dollari del pagamento effettuato da Shell ed Eni erano andati «presunti “sodali dell’ex Presidente nigeriano Goodluck Jonathan» tramite società del “Signor Corruzione” Aliyu Abubakar. La stessa corte aveva quindi sequestrato 84 milioni di dollari rimasti sul conto della Malabu alla JP Morgan di Londra. Altri 112 milioni di dollari versati all’intermediario nigeriano Emeka Obi sono stati successivamente bloccati su diversi conti in Svizzera. Insomma, la popolazione nigeriana non ha beneficiato nemmeno di un centesimo delle centinaia di milioni pagati per la licenza.
Mentre la multinazionale italiana si è sempre difesa affermando di aver trattato e siglato il contratto con il governo nigeriano, di fatto negando ogni “legame” con l’ex ministro del Petrolio, nell’aprile del 2017 la Shell ha ammesso di essere stata a conoscenza di come il pagamento per la transazione fosse destinato a Dan Etete.
Nel settembre del 2018, i due intermediari Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, sono stati condannati entrambi a quattro anni di reclusione dopo il rito abbreviato.
Dubbi permangono anche sull’operato di Eni nella Repubblica del Congo, tanto che è ancora in corso un’indagine dei PM milanesi, avviata sempre sulla base di un esposto di Re:Common e partner. L’indagine ha portato alla luce prove di corruzione ai danni di Eni nel contesto della vendita di quote di giacimenti operati da Eni a società locali connesse a persone “esposte politicamente” e parte dell’entourage della famiglia del dittatore Sassou Nguesso che controlla il paese da decenni. Qui Claudio Descalzi ha fatto la sua carriera dentro Eni e trovato anche moglie. E proprio dall’indagine su Congo sarebbe emerso un grave conflitto di interessi per l’ad di Eni dopo che è stato scoperto che il Cane a sei zampe era in affari per 300 milioni di dollari con alcune società che, attraverso una lussemburghese, facevano capo alla moglie Maria Magdalena Ingoba. Descalzi ha affermato che le transazioni non sono mai state oggetto di sue valutazioni o decisioni, ma ha di fatto confermato il legame.
Nei prossimi mesi capiremo l’esito del processo Nigeria a Milano e se ci sarà un rinvio a giudizio per il Cane a sei zampe ed i suoi manager anche sull’affaire Congo e con quali accuse. Le implicazioni di entrambi i procedimenti potrebbero avere ripercussioni rilevanti anche in altre giurisdizioni, a partire dagli Usa dove Eni è quotata e rischia sanzioni miliardarie. Le autorità Usa hanno per il momento chiuso le loro indagini sul caso Opl245, ma potrebbero decidere di agire in ogni caso dopo le decisioni a Milano in un verso o nell’altro.
La bacchettata americana
Un primo segnale da Washington in realtà c’è già stato proprio tre giorni prima che il governo italiano confermasse Descalzi alla guida di Eni. Il 20 aprile la Security and Exchange Commission americana (SEC), l’autorità di vigilanza di Wall Street, ha divulgato la notizia che Eni ha accettato di patteggiare con ammissione di colpa le accuse di aver violato le disposizioni in materia di controllo contabile interno previste dalla legge sulle pratiche di corruzione all’estero (FCPA), in relazione a uno schema di pagamento improprio in Algeria da parte di Saipem, controllata al tempo dei fatti per il 43% da Eni. Secondo la SEC, «Eni è recidiva, essendo stata precedentemente accusata dalla SEC nel 2010 per aver violato le stesse disposizioni dell’FCPA in materia con un piano di corruzione in Nigeria da parte della sua allora controllata Snamprogetti Netherlands, B.V.».
In quel caso la SEC e il dipartimento di giustizia sanzionarono pesantemente Eni con una multa di 365 milioni di dollari e una condanna sospesa per due anni – in seguito Eni ha patteggiato anche in Nigeria e nel 2016 Snamprogetti è stata condannata in giudicato in Italia. Proprio nel lasso temporale del Deferred Prosecution Agreement americano Eni avrebbe commesso il nuovo reato di corruzione internazionale pagando la maxi-tangente per l’Opl245. Sarebbe, insomma, una doppia recidiva per Washington qualora le accuse della Procura di Milano fossero confermate. È doveroso aggiungere che, lo scorso gennaio, Eni, Saipem e i loro manager sono stati assolti in appello a Milano per il caso di corruzione internazionale in Algeria, per il quale la SEC invece ha ritenuto di procedere a prescindere
Lo Stato sono io!
Quanto svelato negli ultimi dieci anni riguardo all’operato della più importante multinazionale italiana, partecipata ancora oggi con il 30% dallo Stato italiano, ha fornito uno spaccato controverso ed inquietante. Autorevoli analisti hanno definito il Cane a sei zampe come un vero e proprio “Stato parallelo” italiano che agisce nel mondo. Un ganglo centrale che collega istituzioni, settori dello Stato, gruppi di interessi e attori spesso attivi nell’ombra, capace di “plasmare” la politica estera ed energetica, la sicurezza, l’informazione e avere pesanti ricadute sulla politica del nostro Paese.
Prendiamo il solo caso dell’Opl245: servizi segreti di ben 4 paesi sono stati coinvolti attivamente nel negoziato, inclusa l’intelligence italiana, con cui si “relazionava” l’ex manager Eni Vincenzo Armanna, poi diventato il principale accusatore di Descalzi e dei suoi collaboratori per motivi ancora poco chiari. Armanna, nel suo drammatico esame lo scorso luglio in tribunale, ha candidamente rivelato come l’attuale numero due di Eni, Claudio Granata, lo abbia incontrato per convincerlo tramite varie offerte a ritrattare la sua accusa a Descalzi. Incontro misteriosamente documentato in un video rinvenuto dagli investigatori meneghini. L’avvocato Piero Amara, che ha spesso agito per Eni nell’ultimo decennio, e sta scontando tre anni e otto mesi di detenzione per cumulo di condanne passate in giudicato relative all’inquinamento di diversi procedimenti amministrativi a vantaggio di varie imprese, inclusa Eni, sarebbe stato un attore chiave nell’operazione Siracusa, sempre svelata dalla Procura di Milano. Tramite pratiche corruttive, un pubblico ministero siciliano avrebbe aperto un’indagine strumentale su un finto complotto ai danni di Descalzi, al fine di affossare le indagini sul caso Nigeria. Lo stesso Amara ha rivelato ai PM di Milano che Granata avrebbe monitorato con intercettazioni ambientali e pedinamenti gli stessi PM di Milano, vari giornalisti, e si sarebbe informato sui giudici che avrebbero potuto presiedere l’attuale processo Nigeria. Tutte accuse da verificare in tribunale se l’indagine sul finto complotto per depistare andrà a giudizio. Si aggiunga che Amara è sotto indagine a Roma per le presunte interferenze nelle nomine al CSM, nell’ambito delle quali, come riportano alcuni articoli di stampa, Eni avrebbe avuto interesse ad influire su Luca Lotti, allora al governo, per depotenziare l’azione del PM Paolo Ielo della Procura di Roma. Soliti depistaggi in stile italico, si direbbe, e forse in stile italico tutto finirà in un polverone senza responsabili.
Ma l’immagine di Eni, e del suo capo Descalzi, è indiscutibilmente macchiata e ci vorrà tempo per ricreare la fiducia negli italiani in quello che dovrebbe essere il loro campione nel mondo.
Articolo di Luca Manes e Antonio Tricarico di Re:Common