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Ep. 4 – Cecilia (Flashback)
di Giulia Della Cioppa
«Apri le altre persiane» dico a Gioele «così la casa prende aria». Lui non risponde e si muove da un angolo all’altro del piano, seguendo le mie indicazioni. Le stanze riprendono vita nel momento esatto in cui la luce le riempie, come fossero fiori non ancora morti che bevono dopo giorni di siccità. Ho sempre osservato entrare gli scivoli di luce in queste stanze, sfociavano negli specchi e tornavano indietro, all’infinito. Mio padre mi faceva aprire gli infissi pure da piccola e voleva che diventassi cieca per qualche secondo, come allenamento allo stupore. Immagino sia stato utile se non che, ora, non voglio vivere in nessun altro posto che non sia di fronte al mare. Dunque vengo qui ogni volta che posso e da quando sto con Ludovico lo faccio con lui, anche se non trova bello il gioco della luce quanto lo trovo bello io.
«Come fa a non mozzarti il fiato?» gli ho chiesto la prima volta, dopo essermi accorta del suo sorriso ambiguo, dietro al quale proteggeva l’idea che mi meravigliassi per cose stupide. «È bello». «Solo bello?» Poi mi aveva baciata, prendendomi dai capelli, facendomi rabbrividire e io mi ero dimenticata dei moti della luce, ma me ne ero servita per guardarlo, bello tanto da farmi morire sul tappeto persiano grigio e azzurro di mia nonna, caldo e peloso.
«Quando arrivano gli altri?» mi chiede Gioele, mentre infila i chiavistelli nei ganci, per fissare le persiane.
«Mi hanno scritto che stavano per partire» dico io.
«Posso fare qualcosa?» mi chiede con fare incerto e poi incrocia le gambe, per trovare una posizione confortevole in una casa che non è la sua.
«Direi che non c’è molto da fare. È in ordine, no?» lo guardo e non faccio in tempo ad aspettare una risposta che «Sì, sì è tutto perfetto!» ribatte subito, senza tentennare.
«Magari mettiamo due candele sul terrazzo, che dici?»
Fa uno scatto verso di me e si accende, cerca le candele con gli occhi e le mani. Si muove nel perimetro di terracotta senza sosta, smarrito. Sento i suoi passi e le ciabatte pesanti che vanno a ritmo spedito, sembrano avere la funzione di un metronomo che spezza il tempo ritualizzandolo, senza variazioni. Sembra che lui si muova quasi più per muoversi che per le candele; non sa dove metterle. Basterebbe alzare il mento per calmarsi, per un attimo, seguire i moti della corrente guardando davanti a sé, oltre la ringhiera, anche oltre il Circeo. Mia nonna li chiamava vertigini di vento: spazzano via tutto quello che non si vuole tenere. Poi quasi lo scontro nella diagonale in cui mi ha anticipata e lo seguo, per stargli accanto, gli appoggio un palmo sulla testa; ha i capelli cortissimi: un centimetro? mezzo centimetro?
«Va tutto bene?»
Si volta e mi guarda con gli occhi neri come qualcosa che fa paura e grandi, grandissimi, ma meno grandi del suo turbamento. «Certo, sì. Perché lo dici?»
«Mi assicuravo stessi bene» dico piano.
«Sto bene. Sono felice» ribatte lui inquieto.
«Ok» rispondo e metto un cuscino tra una candela e un’altra e aggiungo «Vedrai, ti piaceranno gli altri». E lui mi sorride sforzandosi e non mostrandomi i denti, ma solo le labbra doppie, rosse, che gli invidio.
«Non ti ho fatto conoscere Ludo?»
«Mh, no».
«Ero sicura c’avessi parlato».
«No, mai. Tu me ne hai parlato, ma io non ci ho mai parlato».
Gioele è mio amico. È mio amico? Siamo già amici? Non so se siamo amici, ma mi sento affine a lui e in parte vorrei proteggerlo. Non so perché mi capita di avere questo desiderio. Mi sono chiesta se dipenda dalla statura, poi mi sono detta: Come può dipendere dalla statura? Però le dimensioni non sono importanti nella vita? L’allusione non era voluta e mi disorienta. Se fosse stato più grosso, possente e giunonico, forse non avrei voluto proteggerlo, ma ora voglio farlo, un po’.
L’ho invitato qui con i miei amici del liceo per l’ultima festa, prima della maturità. Ora, un po’, me ne pento. Ho l’impressione di maneggiare una bambola di creta, ancora non completamente asciutta e sono terrorizzata all’idea di romperla. E poi non so come reagiranno gli altri quando troveranno un estraneo a una festa di intimi, anche se si aspettano di trovarlo.
Arrivano per le sei; riconosco il motore dell’auto di Ludovico, come ho imparato a riconoscere quello di mio padre. Dal balcone vedo i miei amici in fila, carichi di cartoni da cui spuntano tappi colorati. Flaminia è più indietro degli altri e si guarda i piedi, come avesse perso qualcosa o come se uno scarafaggio le stesse dando la caccia, più che il contrario. Ludovico le dice qualcosa che assomiglia a un rimprovero; riesco a coglierne il tono brusco e lei fa uno scatto per raggiungere gli altri.
«Avete bisogno d’aiuto?» grido dal balcone e Ludovico ribatte solo lanciandomi un bacio. Manfredi porta meno cose di tutti, è l’uomo che arriva ad aiutare solo dopo essersi assicurato che non c’è più niente da fare e ha le braccia libere da alzare al cielo per gridare Io mi ricordo, quattro ragazzi con la chitarra.
Franco non ha ancora parlato, però ha sorriso, ha sorriso anche alle incitazioni di Manfredi il che suggerirebbe che ci sono buone possibilità di scampare ai loro duelli all’ultimo sangue. Quando lo vedo, Franco, gli do un bacio sul collo e lui mi strofina il palmo sulla schiena un po’ di volte. «Ciao Cicita» mi dice. Tutti si guardano intorno, guardano in alto. A parte Ludovico nessuno di loro c’era mai stato e la luce intanto si è fatta più rossa e taglia la stanza qui, qui e qui e le tende ondivaghe si agitano e travolgono i tagli anche lì, lì e lì.
«Hai capito… Cecilia!» Manfredi incurva le labbra e agita la mano come a dire e chi se l’aspettava.
«Era la casa di mia nonna» gli dico come a giustificarmi.
«Hai capito… la nonna» continua lui.
In cucina mettiamo in ordine le bottiglie di distillati sul davanzale, le bevande gassate accanto alle prime. Mi assicuro abbiano capito che nella prima stanza a destra, al piano superiore, non ci si può entrare e che abbiano afferrato che non si vomita sui tappeti. Mi fanno sì sì solo per farmi stare zitta, in realtà a nessuno importa del vomito, né della stanza. C’è tanto spazio, tanto alcol. Loro parlano dell’esame e mi tirano dentro alla discussione. Se ci penso mi viene ansia da prestazione per il prima e poi per il dopo, così cerco la mano di Ludovico e la trovo dietro di me. La stringo come faccio con le spugne che spremo per toglierci tutto il sapone e poi sentirle più leggere, mi piace avvertire i pesi delle cose che cambiano.
Qui spremo per l’amore, le dita e i suoi palmi, con la prepotenza di chi vuole tutto per sé. Io lo voglio tutto per me. Sento la sua bocca avvicinarsi al mio orecchio «Perché è qui?»
«Chi?» mi volto per guardarlo e lui mi indica un punto di fuga con gli occhi, sollevando il mento, di getto.
«Gioele?»
Annuisce, disinteressato.
«Te l’avevo detto che sarebbe venuto» dico e poi gli lascio la mano.
«È frocio?» mi chiede a voce bassa.
Gli altri ci interrompono «Venite con noi?» e sento la richiesta solo in sottofondo, tanto da sentirmi legittimata a non rispondere, ma Flaminia lo sa, sa sempre cosa fare. Li guardo uscire e dirigersi fuori, non so bene dove.
«Perché me lo chiedi?»
Fa spallucce, come se aspettasse la risposta e poi aggiunge «In realtà non lo voglio sapere».
«Non capisco» dico allontanandomi da lui.
«Lo è o no? Te l’avrà detto, siete amici».
«Non lo so, non me l’ha detto» ribatto e davvero non lo so «è importante?»
«Mera curiosità» risponde sfilando una sigaretta dal pacchetto. In cucina non c’è più nessuno.
«Può bastarti la mia risposta?» dico, e lo sto sfidando «o vuoi che glielo chieda?»
«Potresti chiederglielo» ribatte impassibile.
«Sei serio?»
Fa una pausa e un tiro di sigaretta lungo, tanto lungo che vedo la cenere bruciare molto velocemente.
«No, non sono serio» dice e poi mi tende la mano. Io la guardo, poi guardo lui sorridere, nel modo in cui sa fare per rassicurarmi, per dirmi che è un gioco, solo uno scherzo. Così faccio per prendergliela, ma poi la ritiro, per giocare anch’io, per dirgli che anch’io lo so fare. Mi tira a sé tra le braccia. «Fai la birichina?»
«Tu fai lo stronzo?»
«Mamma mia… Stavo scherzando!»
«Non è un bel mondo di scherzare».
«Dio, sei pesante!» Si stacca da me e mi spinge via, senza farmi male.
«Come è che a voi maschi, ogni volta che viene recriminato qualcosa…» sbuffa e mi interrompe.
«Sì, noi maschi…»
«Sì, voi maschi. Perché dite sempre che siamo pesanti, invece che ammettere che il più delle volte siete dei coglioni con poco tatto?».
«E voi quando smettete di fare le maestrine del cazzo? A stare dalla parte del giusto, a fare beneficenza ai froci, ai poveri, ai negri».
Scuoto la testa e allargo le curve del viso e sorrido, per umiliarlo.
«Vedi, sei un disperato».
Lui mi guarda e digrigna i denti, lo fa per prepararsi a gesti d’impeto, lo conosco, lo so, ma Gioele e Manfredi entrano in cucina insieme e si fiondano sull’alcol. Per un attimo ho l’impressione che ci abbiano sentiti e che si siano organizzati per interrompere la nostra lite. Versano da bere e mi danno un bicchiere per ciascuna mano, ne ho due
e ora tre
e quattro,
forse ne ho già bevuti cinque.
È cominciata la festa? Me la sono persa? Ero felice quand’è iniziata? Devo godermela. Vertigini di vento – vertigini di vento. Ho una canna in una mano a metà. L’ho girata io? Era di Ludo? Me l’ha data lui? Flaminia! Sarà stata di Flaminia, le voglio bene. Lei è buona, è così buona che vorrei proteggerla. Perché voglio proteggere sempre tutti? Forse solo gli indifesi. Avrò la sindrome della crocerossina. L’immagine di me in camice bianco, con la croce sul petto e la siringa in una mano, la porto al viso, no, è una canna non una siringa. Chi mi ha dato questa canna? Franco? È davanti a me, perché non mi abbraccia? Perché non sono tra le sue grandi spalle? Voglio che mi accarezzi i capelli con delicatezza, come fa lui quando accarezza l’erba, le pagine dei libri e i bicchieri e ci gira intorno a formare cerchi concentrici e a giocare con i suoni, tipo i suoni nel mare.
«Sei nel tuo mondo?» sento dire a Manfredi che ondeggia sulle gambe con un calice in mano. Io sorrido e basta perchè non riesco a dire niente. Ho la bocca impastata e la salivazione in riserva.
«Non ti si vedono più gli occhi» aggiunge Franco facendo un segno con pollice e indice che suggerisce piccoli piccoli. Così li sgrano per farmi vedere meglio e mi avvicino a loro, a Franco di più. Mi appoggio alla sua spalla e gli do un bacio, in realtà non lo tocco.
«Ecco che comincia con le romanticherie! No, eh!» sbuffa Manfredi.
«Non dargli retta» mi sussurra Franco alla bocca. Ma lui continua «Non cominciare con i piagnistei! È una festa».
«Eddai! Non rompere il cazzo, Manfre». Mi difende lui. Una coda di goccioline mi corre lungo la spina dorsale, sono sudata marcia.
Stiamo per baciarci?
«Non lo so. Pensi di sì?»
«L’ho detto?»
«Che?»
«Del bacio».
«Non posso ancora leggerti nella mente, quindi direi di sì».
«Credevo di averlo solo pensato».
Poi strofino la faccia sulla sua spalla, mi gratto il naso e gli occhi.
«Perché tu aspetti sempre?» gli chiedo.
«Cioè? Che vuoi dire?»
«Perché non fai le cose che senti?»
Mi toglie la spalla dalla testa e sfila un accendino dalla tasca posteriore dei pantaloni. Si avvicina alla finestra e guarda in alto e la cosa più sensata da fare mi sembra seguirlo.
«Posso essere solo sicuro di quello che io voglio. Ma degli altri no».
«E allora perché non chiedi?»
«Tu chiedi?»
«Stiamo parlando di te». Poi mi passa la sua sigaretta, che mi accorgo essere erba solo dopo aver fatto il primo tiro.
«Ci vuole incoscienza per buttarsi nelle cose».
«O coraggio?»
«Coraggio se l’azione è consapevole».
«Spiegami meglio».
«È coraggio se sai di fare un atto incosciente…» Mi guarda e aggiunge «che a quel punto non è più incosciente».
«Sembra contorto» gli dico.
Si volta verso di me e fa un gesto con la mano, come se gesticolare l’aiutasse a dare senso «So che cosa comporta buttarsi e per questo non lo faccio».
«Così vorrebbe dire che non hai coraggio?»
«Sono un po’ vile».
«Per me non sei vile» dico subito e gli metto una mano sul petto, come faccio quando Ludovico mi bacia, pure se me ne accorgo non me ne vado, anzi alzo lo sguardo per puntare bene il suo. I suoi occhi sono marroni, del colore delle castagne e animati da cose buone.
«Vuoi piacermi?» mi chiede, dimostrandomi che chi vuole impara in fretta a chiedere. Alzo le spalle e mi accorgo di provocarlo, in uno spazio fragile. Non si fa.
«Vuoi piacere proprio a me? O vuoi piacere e basta?» aggiunge.
Gli accarezzo una guancia e sento la sua barba urticarmi il primo strato di pelle. «Bello, sei».
Fa un cenno di disprezzo e mi dice «Umana, troppo umana».
«Dove è Ludovico?» Lo sto chiedendo o lo sto solo pensando? Potrei pensare senza le parole? Come lo penserei se non potessi dire tappeto bianco e azzurro e scarpe e lacci e gambe? Come direi chi sono? E quello che penso? Lo disegnerei? Ma faccio schifo a disegnare. E come farei con le parole che non si vedono, dunque tutte quelle che mi interessa pronunciare. Troveremmo un segno per dire paura e uno per dire rancore? Come direi a Ludovico che lo amo? Con lui, forse, avrei meno problemi che con gli altri. Il corpo risolve molte delle incomprensioni che la distanza crea. Mi basterebbe toccare le sue mani: se calde lasciarle piano, se fredde tenerle nelle mie. Saprei più di quello che sento, avrei il corpo al timone e le pulsioni a prua. E saremmo più felici? Noi saremmo più felici solo a toccarci? Salgo le scale a rilento per la stanchezza e la nostalgia. Mi mancano le gambe di mia nonna, viola nella parte bassa, quella delle caviglie sottili per le vene varicose, ma di più mi manca sedermici sopra. La stanza in cui c’è il divieto è la sua. Gli altri non possono entrare, ma io sì.
«Lia!»
Lancio un urlo sordo, mal riuscito, e un fascio di luce prende uno dei profili di Gioele.
«Che ci fai qui?»
«È l’unico posto in cui ero certo di non incontrare nessuno. Scusa».
«Fammi spazio».
Lui prende e sposta le sue cose a terra, mi fa spazio e io mi lascio cadere. Gli infissi, di fronte a noi, sono sigillati da anni di paure. Non ci passa aria, né luce. Questa stanza dorme, ma non riposa. Non sono sicura, anzi sono convinta del contrario, che mia nonna volesse questo. Avrebbe desiderato, di più, che ripulissimo questo spazio dalla morte e lei sarebbe rimasta nel rinnovo delle cose, nel farle nuove.
«Perché sei in mutande?»
«Avevo caldo» dice lui.
«Scusa se ti ho lasciato, stasera» gli dico, poi mi sfiora la spalla per assolvermi dalle colpe.
«Dovremmo andare giù. Perché non vieni?» gli appoggio un palmo sulla peluria dei muscoli delle gambe «Qui è tutto buio» incalzo.
«Tu vai, io tra un po’ scendo».
«Come vuoi».
In cucina i miei amici sembrano allegri, tanto da apparire armonici insieme. Diventare adulti vorrà dire pure deporre le armi e forse, dopotutto, noi ce la caveremo. Flaminia non c’è e ora avrei bisogno della sua calma. Poi faccio un passo verso Ludovico, mi avvicino; sta armeggiando con una banconota.
«Facciamo la pace?» gli chiedo docile.
«Ti sembra il momento?»
«Mi sembra sempre il momento».
Allora mi dà un bacio sulle labbra, senza guardarmi, che toglie più che dare, e portato a termine l’obbligo si alza e se ne va, ancora una volta. L’ho perso, stanotte, un’altra volta. Mi chiedo se mai l’ho sentito mio. Che cazzata, non voglio possederlo. Ma forse sì. Flaminia riappare con la faccia compiaciuta.
«Non è ancora finita la festa!» dice.
«E l’erba?» le chiedo irritata.
Lei fa spallucce e aggrotta la fronte come a dire mi dispiace.
Dalle finestre della cucina arriva, sottovoce, il verso delle onde. Se chiudo gli occhi sembra che qualcuno agiti un contenitore con del sale fino, facendo brevi pause. Franco mi tiene d’occhio dallo stipite della porta, mi guarda come fanno i guardoni, spiandomi senza preoccuparsi di sembrare sfacciato. Sento il suo desiderio dal taglio degli occhi affilati, che si impegna a non sbattere. Mi piacciono i suoi giochi sui limiti, pure se li scopro solo adesso.
*
Sono le cinque e qualcosa, cinque e otto, cinque e nove. Il letto di mio padre e mia madre ha un materasso che sprofonda per la rete allentata e scadente, dunque io ci cado dentro. Spingo il cuscino contro la pancia e aspetto, cullandomi nell’attesa. Per quanto ancora aspetterò? Ludovico entra non molto dopo e si spoglia, sento il suono metallico della cinghia della cintura entrare in contatto col pavimento e poi le sue mani sfiorarmi le spalle. Si spinge verso di me e scava le ginocchia nelle mie. È caldo, quasi quanto un uomo febbricitante, quanto un uomo impaurito.
«Stai bene?»
Mi stringe lo sterno fino a farmi male e mi avvolge le braccia come se imbracciasse un peso importante, poi allenta la presa, dopo qualche secondo. Sento i peli delle braccia e tutto il sudore corrergli sulla fronte. Mi accarezza il seno e la pancia, gira intorno all’ombelico con il dito.
«Stai bene?» ripeto. Gli accarezzo i capelli e ci passo dentro le dita, districandogli i nodi, facendogli dire ahi, forse punendolo.
«Devi trattarmi bene» dico con tono disperato, ma sottovoce.
Mi bacia affogandomi l’aria, come se lo facesse per la prima volta e io glielo lascio fare perché lo so che è buono e lo so che un giorno imparerà; è solo un bambino. Lo faccio dondolare nelle mie braccia e gli bacio la fronte, sento il ritmo del respiro calmarsi e gli occhi socchiudersi e mentre io veglierò su di lui, lui si addormenterà prima di me.
Articolo di Giulia Della Cioppa