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L’era dei sequel

La prospettiva apocalittica di un cinema di soli sequel: dall’effetto nostalgia agli algoritmi di previsione

08/04/2022

Scream e Matrix: due esempi di sequel (auto)consapevoli, più o meno

«Tutti morti tranne noi! Perché noi dobbiamo restare qui per girare il seguito! Ammettilo, baby, al giorno d’oggi ci vuole un seguito!». È il 1996 quando Stuart “Stu” Macher, iconico personaggio di Scream, porta alla luce una tendenza che, di lì a qualche anno, avrebbe iniziato a monopolizzare le grandi produzioni hollywoodiane. Un quarto di secolo dopo, per una strana “coincidenza” – forse era nell’aria due importantissimi sequel, usciti a breve distanza nei primi giorni del 2022, sono ripartiti da questa tendenza ormai imperante per rendere un bilancio dello stato attuale delle cose, ma con esiti e motivazioni diametralmente opposti. Uno di questi è il primo Scream senza Wes Craven: quinto capitolo di una saga nata come omaggio al cinema slasher, facendo riferimento a classici del genere come Halloween (1978) di John Carpenter e giocando con i loro stereotipi attraverso una rottura costante e parodistica della quarta parete. Il successo del franchise portò alla realizzazione di tre sequel: il primo, del 1997, seguiva le stesse premesse del suo predecessore, applicate questa volta a un secondo capitolo; il secondo, che risale al 2000, si rifaceva invece alle “regole” di una trilogia; il terzo, infine, uscì nel 2011, prendendo ispirazione dai remake molto in voga nella prima metà degli anni Duemiladieci. Oggi però, con molta probabilità, il nostro Stu direbbe che, più di un sequel, sarebbe necessario un “requel”. Il termine, coniato dalla contrazione di reboot e sequel, indica un film che prosegue la trama dei suoi predecessori per creare, però, un prodotto “completamente” nuovo: la trilogia sequel di Star Wars (2015-2019), Jurassic World (2015-2022), Blade Runner 2049 (2017) e Ghostbusters: Legacy (2021) sono alcuni dei titoli accomunati da tale caratteristica, anche se non sempre dichiaratamente. Ma è proprio in un’ottica critica, che Scream 5 è stato realizzato. La pellicola segue sì la ricetta di un requel: l’introduzione di personaggi nuovi affiancati da quelli storici, a cui sono legati per qualche ragione; la morte di una figura chiave nella storia della saga; il “ritorno” ai topoi dell’originale. Ma grazie alla riproposizione di quel linguaggio metafilmico che ha sempre caratterizzato la saga, questo quinto capitolo riesce nell’intento di portare avanti una satira delle scelte creative che il cinema hollywoodiano ha intrapreso negli ultimi anni. 

Solo una settimana prima di Scream 5 era uscito Matrix Resurrections, quarto capitolo della saga omonima nel quale lo spunto critico alla pratica di sequel e reboot muove, però, da premesse completamente diverse. In questo revival di Matrix, Keanu Reeves è diventato il programmatore di un videogioco omonimo, basato sui deboli ricordi della sua esperienza come Neo. Questo perché scoprirà grazie a una nuova reminescenza da pillola rossa l’intelligenza artificiale apparentemente sconfitta nella saga originale ha ricreato una nuova versione della simulazione, riportando in vita Neo e Trinity e giustificando in fase di script la sostituzione dei volti soggetti a recasting, da Morpheus all’Agente Smith. È implicita la tirannia delle macchine come specchio dell’industria cinematografica, ma se da un lato Scream nasce proprio come satira (auto)critica al requel, Matrix ne diventa piuttosto schiavo, perdendosi in una narrazione arzigogolata che vorrebbe moltiplicare la mise en abyme già presente nel film del 1999: un gioco di specchi tra più piani narrativi complementari. Se nella trilogia originale ci spostavamo “semplicemente” fra il mondo reale e quello delle macchine, qui abbiamo ben quattro piani narrativi: il modal, che è dentro il videogioco, a sua volta all’interno della simulazione, che si trova nel mondo reale. Ad aggravare la confusione, distratti tentativi di riattualizzazione nei temi caldi dell’oggi (femminismo, identità di genere, salute mentale). Nonché una serie di sbrigative invettive metacinematografiche, che vorrebbero portare una critica velata all’industria dell’intrattenimento e smascherare alcuni retroscena tra Lana Wachoski e la Warner Bros, citata esplicitamente nel film: il progetto sarebbe andato avanti con o senza di lei, ci suggerisce una battuta confermata da un report di Associated Press. Nell’uso dei linguaggi autoreferenziali quindi, la differenza fra le due pellicole è sostanziale. Dato che in Scream questa narrazione è sempre stata un aspetto portante nell’economia della saga, la svolta autocritica dell’ultimo capitolo è perfettamente logica e addirittura fondante. Matrix Resurrections, dal canto suo, non può contare invece su tali precedenti: il discorso metacritico è creato ex novo, non già come fine dell’opera, a priori, ma inserito a posteriori come scusante, furbesca e velleitaria, della sua realizzazione. Eppure, persino Scream ci porta a diffidare, visto che a meno di un mese dall’uscita è stato prontamente annunciato un sesto film che proprio il precedente aveva categoricamente escluso: «Tutta la saga è andata a rotoli dopo il quinto capitolo». Mentre Matrix, di fronte a un’industria che si sta dotando dei più fantascientifici algoritmi e mezzi di controllo, ci insegna che la sua, forse, non è già più una distopia.

 

La fine dell’uno vale uno

La facilità con cui si può fruire di film e serie tv è cresciuta in maniera vertiginosa nel corso degli ultimi trent’anni: partendo dall’home video e arrivando ai servizi di streaming, il mercato dell’intrattenimento domestico ha allargato sempre di più il suo pubblico, il quale non ha mai consumato tanto materiale quanto durante questi ultimi due anni di pandemia. Questa crescita repentina, molto banalmente, ha aumentato gioco forza il numero di film e serie tv che era necessario produrre ogni anno. E ha trasformato definitivamente quella fra major, da una guerra anche per i mezzi di produzione, a una corsa alle acquisizioni solo per le proprietà intellettuali. Riunire quanti più franchise – cioè opportunità di revival – possibili, è diventata la nuova corsa alla sopravvivenza. Quindici anni fa, Disney inglobava Pixar puntando ai suoi studios e ai suoi reparti avanguardistici nel campo della nascente animazione digitale. Oggi invece, se impiantare nuovi dipartimenti è cosa da poco, l’acquisizione record di tutto il pacchetto Fox da parte di Disney (71 miliardi di dollari) punta piuttosto al “malloppo”: per i franchise mai interrotti (I Simpson) si prenderà il timone dei sequel; quelli in naftalina (Futurama e Avatar) si preparano ai revival; gli universi parcellizzati (X-Men) verranno riuniti sotto il cappello del MCU già dal prossimo film (Doctor Strange in the Multiverse of Madness). Tuttavia, a fianco delle necessità produttive, contribuiscono a questo incessante “revival dei revival” le nuove modalità di fruizione, che hanno visto piattaforme di streaming nascere a decine negli ultimi due anni, da Disney+ a HBO Max. Un sistema irrimediabilmente consumistico, basato sul meccanismo ansiogeno (per lo spettatore come per il gestore) di ricambio e aggiornamento dei “cataloghi”: non è più lo specifico progetto che viene venduto e comprato, in un rapporto di investimento uno a uno in cui il singolo box office deve solo rientrare del budget; ma piuttosto un abbonamento mensile che promette un ricambio continuo e copioso tra titoli vecchi e titoli nuovi. 

Una seconda rivoluzione è stata apportata, anche in questo settore, dall’evoluzione delle intelligenze artificiali: negli ultimi dieci anni sempre più ruoli precedentemente delegati agli esseri umani sono diventati prerogativa esclusiva delle macchine, le quali, ormai capaci di apprendere, svolgono compiti sempre più complicati e creativi. Questa opportunità non è passata inosservata alle grandi case dell’intrattenimento e ormai numerosi algoritmi di machine learning sono spesso usati per prevedere andamenti di gusto, sia individuali che collettivi. Esempi lampanti sono gli algoritmi di Netflix o Spotify, che si configurano ormai come protagonisti indiscussi del panorama artistico internazionale e, a modo loro, lo influenzano con le loro “scelte”. Il tipo di intelligenza artificiale usata da questi algoritmi può essere definita come Supervised Machine Learning. Uno degli usi più comuni che se ne fa è per quegli algoritmi che, osservando come un utente o più utenti preferiscono, ad esempio, i titoli più guardati su una piattaforma come Netflix, scelgono di propria sponte cosa suggerire al singolo spettatore.  Cognizione questa che rimane però a senso unico, dal momento che nessuna delle piattaforme – Netflix per prima, le altre a cascata – rende pubbliche le statistiche sulle sue visualizzazioni, con conseguente poca trasparenza persino sui titoli distribuiti anche in sala. Eclatante il caso recente di È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, il film italiano “più visto” dell’anno senza che si siano potuti quantificare i biglietti staccati, visto che Netflix è riuscita a diffidare persino un gigante distributivo come Lucky Red dal rendere pubblico il box office, con grande disappunto dei singoli esercenti. Il processo di machine learning non è quindi privo di errori né soggetto a verifica di terzi, ma con la congrua quantità di dati e di tempo necessario a processarli, si crea una profilazione sempre più precisa e soddisfacente o presunta tale. Arrivati a questo punto, pensare eventualmente di usare l’algoritmo per suggerire al produttore quali, tra gli sceneggiati a lui proposti, valga la pena di sviluppare, diventa quasi buonsenso. Ma una volta compiuto questo passo, determinante nell’era dei sequel e nella crisi creativa che ne deriva, i processi di scelta delle intelligenze artificiali finiscono per inibire lo spirito d’inventiva. Se infatti un algoritmo è capace di basare le sue decisioni esclusivamente su cosa è stato già apprezzato in passato, avrà inevitabilmente dei gusti molto poco originali e cercherà di riproporre, volta per volta, un film con caratteristiche sempre più vicine a quelle dei grandi successi degli anni passati. Eliminando il fattore novità dalle variabili si finisce per ottenere solamente derivati di vecchi capolavori, i quali, paradossalmente, non sarebbero mai stati prodotti nella nostra epoca in virtù di questo funzionamento. L’immortalità di questi capolavori porta erroneamente a dimenticare che siano nati in un’epoca ben precisa: (non più) figli del nostro tempo, che pure si ostina a forzare tematiche dell’oggi in contenitori narrativi di ieri. 

 

Sequel e previsioni di vendita

Esistono tanti tipi di film, ma esistono anche tanti tipi di spettatori. Sicuramente, e non è un mistero, ognuno di questi influenzerà in maniera più o meno determinante tutte le possibili scelte di produzione. Se costruire l’hype intorno a una pellicola è operazione impegnativa e complessa – campagne online, spot televisivi estremamente costosi, eventi speciali, première – risulta meno dispendioso affidarsi a quella che, nel lessico del marketing, è chiamata pre-awareness, cioè la familiarità pregressa, da parte del cliente, con ciò che gli viene proposto. È infatti più facile convincere il pubblico a vedere il continuo di una storia che gli era già piaciuta, piuttosto che cercare di indirizzarlo verso qualcosa di nuovo e completamente sconosciuto. Questo modus cogitandi, prima che operandi, è significativo perché viene applicato non solo nel senso della continuità (storyline), ma anche nel senso di tempo passato e valore affettivo, scatenando un effetto nostalgia nel vecchio pubblico che diventa curiosità nel nuovo: «Sono andato al cinema da ragazzo con i miei amici, ci vado ora con i miei figli». Questi film cercano infatti di coinvolgere tutte le parti in cui viene tradizionalmente diviso il mercato: uomini, donne, adulti, adolescenti e bambini.  Ma spesso, dietro alla semplicistica “psicologia dello spettatore” che fa leva sulla risonanza individuale, c’è un vero e proprio sistema automatico che formula e stabilisce i calcoli adeguati a una previsione di successo. Secondo un articolo pubblicato su The Hollywood Reporter a gennaio 2020 (Warner Bros. Signs Deal for AI-Driven Film Management System), sono ormai tante le aziende che promettono di utilizzare l’intelligenza artificiale per prevedere la performance al box office di nuovi progetti. Warner Bros, ad esempio, ha firmato un accordo con la società californiana Cynelitic, che sfrutta una tecnologia capace di analizzare il potenziale valore azionario di un nuovo film a Wall Street in base al genere, agli attori, al regista, alla lunghezza e a tutto quanto si può ricavare sul mercato dei dati sui gusti degli spettatori. La società belga Scriptbook, in maniera analoga a quanto fanno l’israeliana Vault AI e la svizzera Largo, propone invece un software che, comparando oltre 30mila sceneggiature esistenti al botteghino, è in grado di capire se un nuovo script avrà successo o sarà un flop. Gli studios non vedono l’ora di capire in anticipo come investire i propri soldi: 20th Century Fox ha lavorato insieme a Google – e la fonte dei big data è Google Cloud stessa – per usare algoritmi di riconoscimento delle immagini allo scopo di analizzare gli elementi contenuti in un trailer (volti, ambienti, oggetti, scene d’azione o romantiche) e confrontarle con quelli di altri film, per trovare elementi comuni che, in teoria, dovrebbero attrarre lo stesso tipo di pubblico.

Finora le predizioni degli algoritmi ci hanno preso in pieno, se è vero che, considerando i primi venti film più remunerativi di sempre, ben 17 sono remake o sequel di altri film. Altro elemento da considerare è la quasi perfetta coincidenza tra i generi sequel-friendly – avventura in primis, seguiti da action e horror – e quelli più redditizi a parità di budget speso, classifica dominata dagli horror. L’elemento vincente di quest’ultimo genere risiede nella possibilità di guadagnare vere e proprie fortune con costi di produzione bassissimi: basti guardare a The Blair Witch Project, che ha incassato 248 milioni al botteghino a fronte di un budget di soli 60 mila dollari. Attenzione, però: il costo di produzione dei blockbuster è invece in costante e vertiginosa crescita, tant’è vero che, fra i primi dieci film più costosi di sempre, ben nove sono stati realizzati dopo il 2010, di cui 8 della sola Disney. Certo, non è stato ancora battuto il record di film più costoso tenendo conto dell’inflazione. La prima posizione è ancora dominata dal prodotto di una Hollywood del tutto diversa rispetto a quella attuale: una in cui il grande schermo era ancora il Re incontrastato dei mass-media, in cui la televisione era agli inizi e in cui i generi più richiesti erano i peplum, ambientati nell’antichità classica, e i western. Nonostante sia stata prodotta quasi sessant’anni fa, infatti, Cleopatra (1963) è ancora la “regina” di questa esosa classifica. Un record tanto negativo da far rischiare la bancarotta al gigante Paramount, che non è stato infatti controbilanciato dal pure ottimo successo commerciale (quattro Academy Awards e l’incasso maggiore di quell’anno). Questo fantasma della Hollywood passata, che ancora si aggira nella Hollywood presente, potrebbe esserci d’aiuto per prevedere come sarà la Hollywood del futuro.

 

Il prezzo del passato, ovvero: attento a ciò che desideri

Dopo l’insuccesso di Cleopatra, le produzioni hollywoodiane non furono più così disposte a puntare milioni e milioni di dollari su kolossal monumentali che, era evidente, avrebbero fatto sempre più fatica a coprire i costi con i ricavi. Sul finire degli anni ‘60, sembrava che il cinema americano avesse fatto il suo tempo, scalzato dalla televisione e dal cinema d’autore europeo del Neorealismo e della Nouvelle Vague. Tuttavia, fu proprio la morte dell’Epoca d’Oro che permise a una New Hollywood, concepita grazie all’incontro dello stile registico europeo con le maggiori capacità produttive degli statunitensi, di nascere. Un cambio di passo non solo tecnico, ma anche tematico, in cui narrazioni legate alle controculture del periodo, alla rivoluzione sessuale, alle problematiche sociali e politiche, potevano finalmente trovare lo spazio e i contenitori cinematografici di cui avevano bisogno. De Palma, Scorsese, Coppola, Cimino e Schrader, solo per citare alcuni dei più noti, hanno reso possibile il vastissimo gradiente di generi, tematiche, sessualità e rottura dei tabù delle produzioni a noi contemporanee. 

Anche nel presente c’è chi dice che il cinema stia morendo, ucciso da megaproduzioni vuote e dai pacchetti streaming all-inclusive. C’è chi dice che il futuro sarà dominato da questo nuovo modo di intendere il cinema, meno artistico e più consumista, nel quale le major investiranno e stanno investendo cifre sempre più esorbitanti per la produzione di contenuti di intrattenimento: nel 2022, ad esempio, la Disney realizzerà 50 film, con un budget per lo streaming di 33 miliardi di dollari. Non è difficile immaginare un prossimo futuro in cui le produzioni cinematografiche, così come avvenne alla Paramount nel 1963, faranno il proverbiale passo falso. Un evento senza dubbio traumatico, che potrebbe culminare nello scoppio dell’attuale bolla produttiva. Ma che potrebbe costituire altresì l’Anno Zero di un secondo processo di rigenerazione influenzato, stavolta, da una “nuova” geografia cinematografica e autoriale sempre più protagonista dei festival occidentali, come dimostrano l’Oscar a Parasite nel 2019 e la candidatura di Drive My Car più di recente. Stavolta, Hollywood dovrebbe volgere il suo sguardo dalla sponda opposta, attraverso l’Oceano Pacifico, verso le Terre del Sol Levante.

Articolo di Matteo Benati, Massimo Cecchini, Lorenza Ferraiuolo, Francesca Lorenzini e Carlo Giuliano; ha collaborato Eleonora Varriale