L’esclusione delle minoranze etniche dalla campagna vaccinale anti Covid-19

Il braccio delle minoranze non sarà vaccinato

Nell’ultimo anno, le battaglie politiche sono diventate sia sanitarie sia sociali, portando in superficie conflitti già preesistenti e latenti. Le minoranze etniche sparse sulla Terra sono ritornate ad essere un target, vittime di politiche nazionali e internazionali. Il Brasile, così come Israele, si sta confrontando con politiche nazionaliste e suprematiste, attuando dei veri e propri apartheid vaccinali. Neppure l’Europa, d’altra parte, si esime dalle criticità nei confronti del trattamento riservato alla popolazione rom, sinta e camminante. 

 

Brasile tra sanità pubblica e politica nazionalista

Paese diventato simbolo dei disastrosi effetti del negazionismo, il Brasile è secondo al mondo per numeri di contagi e vittime. Nonostante il numero di morti per milione sia relativamente inferiore a quello dell’Italia, il dato preoccupante è il tasso di mortalità che nell’ultimo periodo è di 12,9%, a fronte del 6,7% italiano. La politica del presidente Jair Bolsonaro, anch’egli colpito dal virus a luglio 2020, ha portato il Brasile a una vera e propria catastrofe umanitaria. Come dichiara il presidente internazionale di Medici Senza Frontiere, Christos Christou: “Le misure di sanità pubblica sono diventate un campo di battaglia politico in Brasile. Politiche che dovrebbero fondarsi sulla scienza vengono orientate da opinioni politiche più che dalla necessità di proteggere individui e comunità dal Covid-19”.

Lo stato infatti soffre di un sistema sanitario al collasso: mancano le bombole d’ossigeno, i letti e medicinali. Uno scenario tanto drammatico da costringere i medici a intubare i pazienti gravi senza sedativo. Il Coronavirus in Brasile ha lasciato dietro di sé una lunga scia di immagini devastanti, come le fosse comuni talmente piene da dover istituire turni notturni per la sepoltura. Tra febbraio 2020 e marzo 2021 si contano ottocentocinquantadue vittime sotto i nove anni. Bolsonaro continua a bloccare qualsiasi misura restrittiva che alcuni comuni stanno adottando in modo autonomo, come il distanziamento sociale e l’obbligo di mascherina, nonostante il comportamento del presidente sia stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Suprema. 

La campagna di vaccinazione procede a singhiozzo: solo l’11,8% della popolazione brasiliana (al 22 aprile) ha ricevuto almeno la prima dose. Il Paese utilizza il vaccino anglo-svedese AstraZeneca e quello cinese CoronaVac, autoprodotti in uno stabilimento ora in grave difficoltà. Il Brasile è inoltre la culla della variante del Sars-Cov2, chiamata P.1, originata dal ceppo B11281, che risulta tre volte più contagiosa di quello originale. La mutazione avviene nella città del centro dell’Amazzonia, Manaus, epicentro della diffusione della variante dopo l’arrivo di due cittadini giapponesi, a gennaio di quest’anno. Questa risulta molto più virulenta, e dunque mortale. Secondo la rivista “Science”, i risultati degli studi sull’efficacia dei vaccini attualmente in uso contro la variante brasiliana evidenziano che una dose di CoronaVac è efficace solo al 50%. Peraltro la variante sudafricana, simile a quella brasiliana, è parzialmente resistente agli anticorpi sviluppati dopo l’iniezione di AstraZeneca e probabilmente anche di Pfizer. 

Il virus continua a diffondersi anche tra le popolazioni indigene, le quali spesso non hanno facilmente accesso ai servizi sanitari, e vi è un’alta prevalenza di malattie croniche come la malaria e il diabete. Il collettivo giornalistico The New Humanitarian pone l’accento su come il Brasile abbia una storia di campagne di immunizzazione di successo e, nonostante il piano iniziale del governo fosse quello di vaccinare anche le persone indigene con più di settantacinque anni, l’ineguale distribuzione dei vaccini a livello globale e nazionale, accompagnata dalla debole risposta del governo e dalla disinformazione, ha aumentato la sfiducia nelle istituzioni. Il report sulla diffusione del virus sul territorio indigeno Yanomami, abitato dai popoli Ye’kwana e Yanomami, denuncia la difficile situazione in cui versano più di ventiseimila persone, distribuite in trecentosessanta villaggi, nella zona al confine con il Venezuela. Già negli anni ‘90 queste zone vennero invase da lavoratori del settore minerario ed estrattivo. L’ invasione culminò in un massacro ad Haximu nel 1993, emblematico esempio di violenza contro il popolo Yanomami. Con l’avvento di Bolsonaro al potere, la deforestazione e l’estrazione mineraria illegale sono cresciute in modo esponenziale, seguendo una vera e propria politica anti-indigeni e incoraggiando le lobby dell’agro business e la distruzione delle foreste, come denuncia la ONG Survival International. Nemmeno la pandemia ha fermato questa tendenza e, ora,  proprio a causa dei continui lavori nelle miniere, il virus ha potuto dilagare liberamente tra la popolazione indigena del territorio.

 

Israele e Palestina, un film già visto

Nel secolare e sempre verde conflitto tra Israele e Palestina, il 2020 ed il 2021 hanno messo in risalto nuovi strumenti di potere, ma con una finalità tanto cara al governo israeliano: non riconoscere il popolo palestinese stesso e i territori occupati da ormai più di cinquanta anni. Il sistema sanitario nella Striscia di Gaza e nei territori della Cisgiordania era già al collasso prima della pandemia e, ad oggi, si contano settantotto letti adibiti alla terapia intensiva e sessantatre ventilatori per una popolazione che raggiunge più di quattro milioni. Tuttavia, gli attacchi da parte del governo di Netanyahu persistono: si va dalle distruzioni aeree nei confronti di cliniche palestinesi Covid-19 nella valle del Giordano fino all’esclusione de facto della popolazione palestinese dalla campagna vaccinale. 

Mentre il mondo volge lo sguardo alla politica sanitaria israeliana, dipinta come virtuosa rispetto all’efficacia del vaccino Pfizer e al grande mito del “ritorno alla normalità”, l’apartheid palestinese è sempre più evidente. Secondo l’OMS, più di centosessantamila palestinesi sono risultati positivi (tra marzo 2020 e gennaio 2021), sebbene la quarta Convenzione di Ginevra affermi che la potenza statale “occupante” dovrebbe fornire “tutti gli strumenti a propria disposizione” per sopperire alle difficoltà mediche e sanitarie. 

Se il diritto internazionale e il diritto alla salute non divengono abbastanza, come può un incentivo verbale e diplomatico, da parte delle organizzazioni di diritti umani, sostenere che un “programma di vaccinazione globale che raggiunga tutti, tra il Giordano e il Mediterraneo, sulla base dell’uguaglianza e delle migliori pratiche” possa fronteggiare il dilagare del Covid-19?  

Peraltro come emerge dal report di MSF: “Secondo il Ministero della salute palestinese, circa il 75% dei casi in Cisgiordania sono causati dalla variante inglese B117, ritenuta più contagiosa di circa il 50% rispetto ai ceppi precedenti. Gli studi rivelano che con il 40-60% in più di probabilità, questa variante può portare a forme gravi di Covid-19, che richiedono terapie con ossigeno e ventilazione, con un maggiore rischio di morte”. Insomma, il virus mondiale non è mai discriminante in origine, ma la campagna vaccinale israeliana lo è.

 

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La romanologia del vaccino

La cultura del disprezzo non è sconosciuta alla popolazione rom, sinta e camminante; ieri così come oggigiorno. In Europa, sebbene queste costituiscano la più grande minoranza etnica, è impossibile avere un quadro della situazione globale e regionale rispetto a contagi, decessi e ricoveri: in relazione al connubio borderline tra la libertà di appartenere alla comunità viandante, e alla stigmatizzazione culturale generale, in primis, e conseguentemente a quella istituzionale. La Commissione europea all’interno della strategia vaccinale propone la categoria di “gruppi socio-economici vulnerabili” alla quale si dà la priorità in materia. Purtroppo, solo la Slovacchia – su ventisette Paesi membri europei – riconosce esplicitamente la comunità rom come gruppo prioritario, paese in cui circa il 10% della popolazione complessiva fa parte di essa. In altri termini, per definire meglio la categoria pronunciata dalla Commissione, basti pensare alla correlazione del difficile accesso alla tecnologia per potersi registrare ai portali per la vaccinazione, alla mancanza, talvolta, del possesso della tessera sanitaria e alle patologie spesso presenti legate anche alle scarse condizioni igieniche abitative (già nel 2004 in Romania, tra gli over quarantacinque, metà degli appartenenti alla comunità rom soffriva di disabilità e malattie croniche) e che non possono garantire il rispetto del “distanziamento” preventivo. 

In Serbia, la popolazione rom conta quasi il 17% e l’appena nata Ong serba Opre Roma nel luglio 2020 ha condotto una survey tra le comunità rom del paese, distribuendola tra venti località al fine di analizzare la relativa percezione delle comunità rispetto alla battaglia statale contro il Covid-19. Ciò che di più significativo emerge, sono sicuramente i dati riferiti alla perdita del lavoro, poiché più del 70% ha perso la fonte primaria per il sostentamento familiare, e al mancato accesso all’elettricità e all’acqua potabile. 

Secondo il rapporto del febbraio 2021 pubblicato da Roma Health Project e Open Society Foundations, le difficoltà sanitarie attuali rispecchiano, a livello europeo, le problematiche politiche strutturali nei confronti delle minoranze etniche, in particolare nei confronti della popolazione camminante. Non a caso, ad oggi, solo la società civile e alcuni media specifici stanno compiendo delle ricerche dati ad hoc per comprendere come attuare una strategia vaccinale che possa funzionare ed essere implementata secondo le esigenze culturali, nel rispetto della popolazione stessa. Dagli alti piani governativi, invece, neanche l’ombra. L’anti-gypsyism rimane, ancora, una delle più complesse, nascoste e  paradossali forme di discriminazione razziali in Europa. L’European Roma Rights Center (ERRC) lo conferma: sono dodici gli stati europei che hanno violato diritti umani fondamentali nei confronti della popolazione rom, abusando del clima emergenziale diffuso, sia sanitario che politico.

 

Questo articolo è un adattamento dell’approfondimento Il braccio delle minoranze non sarà vaccinato che potete trovare sul numero 41 di Scomodo abbonandovi qui.

Articolo di di Gaia Buono e Federica Tessari