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La rete di estrema destra di Capitol Hill
Chi c'era e chi ci sarebbe dovuto essere alla presa del congresso statunitense
Come è ormai noto a tutti, gli Stati Uniti, nel bel mezzo di una delicata e controversa transizione di potere, sono stati teatro di un’insurrezione, sfociata nell’invasione di Capitol Hill, sede del Parlamento americano. Specialmente in Italia, alcuni hanno sostenuto che la causa vada ricercata nelle diseguaglianze economico-sociali da dove è nata una parte del consenso di Trump. Anche qualora fosse vera, questa narrazione non potrebbe spiegare pienamente gli eventi in questione.
Bisogna infatti considerare la continua propaganda di Fox News (in particolare Tucker Carlson che Il Giornale cita come fonte e Sean Hannity) e dei canali ancora più estremi come OneAmerica, la complicità di senatori e rappresentanti che hanno avallato incondizionatamente le politiche e i capricci di Trump e l’innegabile distorsione della realtà operata da sedicenti influencers (Milo Yiannopoulos, Alex Jones, Ben Shapiro e molti altri ancora). Tutto ciò trova ovviamente terreno fertile in una società polarizzata dove il malcontento per la perdita dei privilegi (spesso scambiati per diritti inalienabili) e dei cosiddetti “valori tradizionali” è crescente. Lo dimostrano i sondaggi da cui scopriamo che quasi metà degli elettori Repubblicani supportano in qualche modo l’assalto.
Il “merito” di Trump è stato del resto proprio quello di avvicinare gruppi un tempo distanti. Questo però non deve portare a fare generalizzazioni sull’elettorato di Trump, in sé abbastanza variegato. Gli eventi del 6 gennaio hanno infatti visto una forte presenza di estremisti di destra di ogni ordine e grado e seguaci di QAnon. Molti di questi credono che il loro diritto alla libertà d’espressione sia in pericolo, che il mondo sia governato da un Deep State depravato e sono sinceramente convinti che le elezioni siano state truccate. Come mostrato dai video, ci troviamo di fronte a individui disposti a passare con estrema facilità da Law-and-order al brutale pestaggio di un poliziotto. Quello che è successo è quindi qualcosa che va ben oltre le diseguaglianze e che allo stesso tempo vi è legato.
Gruppi di estrema destra, simboli e bandiere presenti a Capitol Hill
Grazie alle analisi di diversi network come CNN e BBC ma anche di giornali e utenti sui social, è stato possibile stilare un elenco abbastanza dettagliato dei gruppi che hanno partecipato all’assalto. Tra i più conosciuti ci sono i Proud Boys, tristemente noti per le affermazioni di Trump in seguito alla manifestazione di Charlottesville “Unite the Right”. Quando intervistato sugli scontri verificatisi in quell’occasione, il presidente aveva affermato che “c’erano ottime persone da entrambi i lati”. Si tratta di un gruppo di suprematisti bianchi, fondato da Gavin McInnes, canadese e ideatore di VICE news. Un tratto che li distingue è il processo di iniziazione diviso in quattro livelli. Il primo, necessario per accedere al gruppo, prevede che si pronunci la frase “I’m a western chauvinist, and I refuse to apologize for creating the modern world”. Il loro leader, Enrique Tarrio, è stato arrestato insieme ad altri membri al suo arrivo a Washington. All’aeroporto di Honolulu è stato poi fermato dagli agenti Nick Ochs, a capo della sezione Hawaiiana dell’organizzazione. Come tanti altri gruppi di estrema destra, Proud Boys infatti non è centralizzato ma tentacolare e dotato di sezioni locali.
Una delle bandiere identificate è stata quella dei Three Percenters, il cui nome si riferisce a un falso storico. Essi sostengono infatti che solo un 3% di patrioti si ribellò contro il dominio britannico, fatto smentito dalla storiografia. Si tratta di un gruppo molto disomogeneo e diversificato che può organizzarsi come milizia a livello locale ma anche semplicemente fare propaganda. Pur facendo le debite distinzioni, possono essere comparati agli Oath Keepers, anch’essi presenti il 6 gennaio, per la loro repulsione nei confronti del governo federale. In realtà quest’odio si è molto placato in seguito all’elezione del presidente Trump, che aveva grande approvazione tra i loro ranghi.
Gli Oath Keepers sono sicuramente più noti e diffusi dei Three Percenters e sono riconoscibili dallo stemma arancione. Si sono spesso offerti come “servizio di sicurezza” alle manifestazioni di Trump ma anche durante le proteste di BLM per proteggere negozianti ed edifici. Su alcuni caschi sono poi stati trovati stickers dei Nationalist Social Clubs, in particolare quello del New England. Nato nel Massachusetts, questo gruppo neonazista è ora diffuso anche in Europa.
La bandiera dei Three Percenters
Specialmente dopo la chiusura di Parler e l’azione censoria di Twitter, questi gruppi hanno visto la loro audience salire grazie all’arrivo di milioni di utenti su Telegram. Da anni ormai l’app di Durov offre infatti asilo a tutte le peggiori ideologie: dai suprematisti bianchi ai neonazisti. L’arrivo di molti repubblicani delusi da Trump oppure dalla censura dei Big Tech su questa piattaforma è un’evidenza che le autorità USA (ma anche quelle degli altri Paesi) non dovrebbero prendere alla leggera. Il rischio è quello di una radicalizzazione di massa di individui già predisposti a credere alle menzogne di QAnon o semplicemente ai tweet di Trump.
Oltre ai singoli gruppi, esiste una simbologia vastissima che ha inglobato anche un meme innocuo come Pepe the Frog, declinato nelle sue variazioni naziste, antisemite e razziste. Da un altro nome di Pepe deriva il gruppo Groypers, fondato da Nick Fuentes, che si dichiara cristiano conservatore ma in realtà non differisce molto dai gruppi citati in precedenza. Richiami antisemiti evidenti come la maglietta “Camp Auschwitz” e occultati come la scritta 6MWE (Six million wasn’t enough) sono apparsi più volte nelle immagini diffuse da stampa e social media.
Bandiera del gruppo Groypers
La Gadsden Flag
Le bandiere presenti erano numerose: da quella Confederata alla “Thin Blue Line” che simboleggia il supporto alle forze dell’ordine. Sdegnati dalla reazione della Capitol Police, alcuni hanno deciso di ridurla in brandelli. La stessa bandiera “Gadsden”, probabilmente ideata da Benjamin Franklin nel contesto della rivoluzione Americana e che porta la scritta “Don’t tread on me” (Non calpestarmi!) e l’immagine di un serpente, è stata vista più volte durante l’insurrezione. Le sue origini non sono legate a un orientamento politico ma negli ultimi anni il Tea Party (la fazione più liberista dei Repubblicani) sembra essersene appropriato. Questo vessillo è anche un simbolo del Libertarian Party, da sempre opposto alle ingerenze del governo federale.
La bandiera Thin Blue Line
Un vessillo curioso è quello del Kekistan, di colore verde e simile alla bandiera della Kriegsmarine (la marina militare nazista) . Il Kekistan è una nazione fittizia creata sulla imageboard 4chan, in particolare su /pol. Il nome deriva da Kuk o Kek, una divinità egiziana del caos e dell’oscurità che a causa delle sembianze antropomorfe e la testa di rana è stata spesso associata a Pepe the Frog, uno dei simboli della memetica dell’estrema destra. Tuttavia nel corso degli anni l’affermazione si è legata indissolubilmente al secondo significato attribuitogli, Kek è infatti il modo in cui gli orchi di World of Warcraft ridono, è anche a causa di ciò che ha assunto incredibile popolarità nel tempo, diventando il nuovo LOL delle Imageboard.
La bandiera del Kekistan, lo stato fittizio inventato sulla imageboard 4chan
I profili di alcuni presenti
Gli arresti finora non sono stati numerosi ma Steven D’Antuono, a capo dell’FBI di Washington DC ha promesso che sarà un’azione che si protrarrà nel tempo. Verranno infatti diramate segnalazioni a tutti i dipartimenti di polizia che provvederanno a perseguire i responsabili. Alcuni giornali hanno comunque ironizzato sul numero iniziale di coloro che sono stati fermati dalla Capitol Police (tredici), affermando che ci sono più arresti dopo una regolare partita di baseball.
Non tutti i presenti fermati erano estremisti di destra ma nondimeno ritenevano di avere diritto a un trattamento speciale. Questo è dimostrato anche da un video di un arresto effettuato dalla polizia in aeroporto. L’uomo, accerchiato dalla polizia, ha infatti gridato: “Mi state trattando come una f*****a persona di colore”. Possiamo dunque dire con un buon margine di certezza che, almeno per quanto riguarda i fatti di Capitol Hill, le diseguaglianze non sono state la causa determinante.
Non è stata nemmeno una reazione spontanea in stile jacquerie medievale. Lonnie Leroy Coffman, un settantenne dell’Alabama, è stato arrestato perché nel suo veicolo sono state trovate undici molotov, un fucile d’assalto, una pistola e delle munizioni. Oltre a ciò, una perquisizione ha rivelato che aveva con sé ben due pistole. Nessuna delle armi sequestrate era inoltre registrata a suo nome. A ciò si aggiungono i due ordigni esplosivi rudimentali ritrovati nelle vicinanze della sede del Democratic National Committee e del Republican National Committee su cui l’FBI sta ancora indagando.
Un altro arresto significativo è quello di Erik Munchel, fermato in Tennessee dopo essere stato identificato attraverso le numerose foto che circolavano sui social. Egli infatti si aggirava per il Parlamento a volto coperto con delle fascette particolarmente resistenti in mano, presumibilmente per prendere ostaggi. Le stesse fascette hanno portato all’arresto dell’ex colonnello dell’aviazione Larry Rendall Brock Jr.
L’impreparazione, la lentezza e la complicità delle forze dell’ordine
Un fatto che ha creato enorme scalpore è stata la pessima reazione delle forze dell’ordine, che molti hanno sostenuto essere legata alla natura della folla (bianchi e repubblicani). Nonostante le segnalazioni delle agenzie di intelligence, infatti, non era stata presa nessuna misura extra in vista della manifestazione “Save America”. Come mostrano numerosi video, la Capitol Police ha tentato una prima resistenza ma, priva di personale ed equipaggiamento, era ben poco temibile. Le transenne sono state scavalcate facilmente, e la folla si è riversata ai piedi di Capitol Hill. Poco dopo, il secondo cordone di transenne è stato deliberatamente aperto da degli agenti che pare abbiano anche fornito indicazioni. La situazione non è certo cambiata quando sono riusciti a penetrare nell’edificio. Alcuni poliziotti sono stati inquadrati mentre scambiavano un “fistbump” (pugno contro pugno) coi presenti e concedevano selfies. In un altro video invece si sente un agente che afferma: ”Non siamo d’accordo ma vi rispettiamo”.
Sarebbe ovviamente ingiusto non ricordare anche l’azione dell’agente Eugene Goodman che è riuscito a guidare la folla, allontanandola dai punti più sensibili. Si sono poi verificate diverse aggressioni nei confronti delle forze dell’ordine. Mostrando un atteggiamento poco coerente con il motto #lawandorder, alcuni dei presenti hanno lanciato un estintore contro gli agenti. Allo stesso modo, sono sconfortanti le immagini del poliziotto schiacciato tra i battenti di una porta e quelle di Brian Sicknick, colpito con il pennone su cui sventolava una bandiera Usa e ucciso dalla folla.
Ma al di là delle azioni dei singoli agenti, è importante osservare le criticità a livello politico: sia federale che statale. La Capitol Police conta un organico di 2000 agenti che devono coprire un’area che è un terzo di Central Park, tuttavia l’impreparazione è stata evidente e innegabile. Come se non bastasse, la polizia di Capitol Hill è accusata di aver impedito l’arrivo di rinforzi. Il Dipartimento della Difesa infatti ha fatto trapelare indiscrezioni per cui la Capitol Police pare abbia rifiutato il supporto dell’FBI quando la situazione era ormai fuori controllo. Inoltre, Muriel Bowser, sindaca di Washington, aveva richiesto la mobilitazione della Guardia Nazionale già il 31 dicembre ma si è vista opporre il rifiuto della Capitol Police il 3 gennaio.
Chiarire colpe e responsabilità diventa poi ancora più difficile se si legge l’intervista del Washington Post all’ormai ex-capo della Capitol Police Steven Sund. Egli afferma infatti di aver provato intorno più volte a raggiungere i responsabili presso Camera e Senato della National Guard di Washington DC, riuscendo a mettersi in contatto col generale Piatt solo un’ora e mezza dopo il primo tentativo. Stando alle affermazioni di Sund, Piatt ha però rifiutato di dispiegare la Guardia Nazionale. In una seconda chiamata, il generale Piatt, sempre secondo le affermazioni di Sund, avrebbe detto di non apprezzare l’idea delle forze della Capitol Police accostate a quelle della National Guard. Il generale Piatt ha ovviamente smentito tale ricostruzione, affermando di non avere il potere di autorizzare la Guardia Nazionale. L’attivazione della Guardia Nazionale spetta in effetti al Secretary of Army, Ryan McCharty, che risponde al Dipartimento della Difesa, guidato da Christopher Miller. La conferma dell’attivazione è arrivata poi con un tweet del sottosegretario Jonathan Hoffman alle 15.52, quasi tre ore dopo la prima chiamata di Sund.
Un altro elemento poco chiaro è stata la mobilitazione delle Guardie Nazionali di Maryland e Virginia che sono i due Stati confinanti con Washington DC. Entrambi i governatori, Larry Hogan e Ralph Northam, hanno prontamente attivato le loro truppe e le hanno schierate sui confini. Tuttavia, sostiene Larry Hogan in un’intervista, l’autorizzazione a entrare a Washington è arrivata con molto ritardo. La Guardia Nazionale di uno Stato può infatti oltrepassare i confini di un altro Stato solo col permesso del governatore locale. Essendo Washington DC soggetta all’autorità federale, l’autorizzazione spettava a Ryan McCharty e al Dipartimento della Difesa. Quando tutte le autorizzazioni sono state concesse, si sono riversate a Washington truppe dalla Virginia, dal Maryland ma anche dal New Jersey e agenti di diverse agenzie federali. Tuttavia, l’insurrezione era già terminata e il compito dei rinforzi è stato quello di allontanare quei pochi rimasti sulla scena.
Articolo di Luca Zucchetti