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EUREGAS!
La scoperta e lo sfruttamento del giacimento di gas naturale a Zohr hanno aperto ad Eni prospettive di guadagno prima inimmaginabili, anche con la complicità dell'Università di Bologna. Sullo sfondo, i rapporti opachi tra Italia ed Egitto.
Il 22 aprile 2013, ENI comunica di essersi aggiudicata attraverso un Bid Round della EGAS (la compagnia di Stato egiziana di idrocarburi) la concessione di Shorouk, un’area da quasi 4000 km² al largo della costa est dell’Egitto. Un’operazione che, qualche anno dopo, si sarebbe rivelata una miniera d’oro per Eni. Il 30 agosto del 2015, la compagnia energetica annuncia la scoperta in quell’area del giacimento di Zohr, quello che sarebbe poi stato riconosciuto come il più grande giacimento di gas naturale del Mediterraneo, capace di produrre 2,7 miliardi di piedi cubi di gas al giorno e dal potenziale di 850 milioni di m³ di gas in posto. Già nel marzo dello stesso anno, un accordo firmato dall’allora ministro del Petrolio e delle Risorse Minerarie egiziano Sherif Ismail (poi anche Primo Ministro) e l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi quantificava la cooperazione tra Eni ed Egitto in circa cinque miliardi di dollari. Una cifra aumentata di gran lunga dopo la scoperta di Zohr.
La multinazionale ha trovato nel mega-giacimento egiziano il terreno ideale per applicare il “dual exploration model”: un sistema che prevede la cessione di quote di concessioni ad altri partner per monetizzare nell’immediato, mantenendo però il controllo delle operazioni. Ad oggi, Zohr è proprietà di Eni per il 50%, mentre il resto delle quote sono di proprietà del gigante russo Rosneft (30%), della BP – British Petroleum (10%) e di Mubadala Petroleum (10%). E proprio la cessione al gruppo emiratino, avvenuta nel giugno 2018 per la cifra di 934 milioni di dollari, permette di avere un’idea sul valore economico del progetto, nel quale Eni finora ha investito circa 13 miliardi. Un giro d’affari che ha anche contribuito a far superare vecchi dissapori tra l’Egitto e alcuni operatori del settore energetico, dovuto a pagamenti arretrati: nel 2017 infatti la somma dei pagamenti ancora arretrati ammontava a 3,4 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 7 miliardi del 2013. Un impegno che ha avvantaggiato principalmente compagnie britanniche come BP e BG (ora parte di Shell); e ovviamente Eni, coinvolta da anni in Egitto, che solo nella primavera del 2015 ha ricevuto 432 milioni di euro su un totale di 1,2 miliardi di crediti accumulati.
Più di un ambasciatore
Lo sviluppo del giacimento di Zohr si inserisce però anche in un periodo complicato per le relazioni tra Italia ed Egitto, anche dal punto di vista diplomatico. Se da un lato i rapporti commerciali sono fiorenti come non mai – l’Egitto è stato anche primo acquirente di armi dall’Italia nel 2019, per una cifra complessiva di 871 milioni, ed è in via di definizione una commessa di armamenti dal valore complessivo intorno ai 9 miliardi –, dall’altro casi come quelli di Giulio Regeni e Patrick Zaky hanno raffreddato le relazioni tra i due paesi. Proprio il presidente egiziano al-Sisi, all’inaugurazione del giacimento di Zohr nel gennaio 2018, tracciò una linea che collegava i due eventi: «Giulio Regeni è stato ucciso per danneggiare le relazioni tra Italia ed Egitto». Per poi aggiungere, rivolgendosi a Descalzi: «Sa perché volevano danneggiare le relazioni fra Egitto ed Italia? Affinché non arrivassimo qui».
Declan Walsh, giornalista del New York Times, scriveva nell’agosto del 2017 che già all’epoca Descalzi aveva discusso almeno tre volte del caso Regeni con al-Sisi, in virtù del fatto che l’a.d. di Eni conoscerebbe «i leader locali meglio dei ministri italiani». Eni avrebbe la capacità di fare pressioni sul governo egiziano, dato che la scoperta di Zohr ha permesso al paese nordafricano di fare un deciso passo verso l’indipendenza energetica in un momento di forte aumento della domanda interna (nel 1981 la popolazione egiziana si attestava sui 42 milioni di abitanti, oggi è di 100 milioni e ci si aspetta che cresca fino a 125 milioni entro il 2030) e soprattutto ha permesso il risparmio di 7 miliardi di dollari in importazioni di gas naturale. Ma nonostante le dichiarazioni formali, a più di quattro anni di distanza nessun vero passo avanti è stato fatto. E lo scoppio del caso Zaky mette in luce altre ambiguità sulla presenza di Eni in Egitto, che riguardano l’impatto ambientale e l’influenza nel diritto allo studio.
Ancora EniBo
Leggendo il Report di Sostenibilità di Eni per il 2018 (EniFor – 2018), nella parte in cui menziona il giacimento di Zohr, parrebbe quasi di avere di fronte il documento di un comitato di filantropi e benefattori. Seguendo dichiarazioni d’intenti dai toni altisonanti come «Dobbiamo ricominciare dallo stupore per migliorare il giardino di cui siamo custodi», troviamo infatti anche una lista di progetti – descritti in maniera molto approssimativa – stilata sotto la denominazione di Partnership per lo sviluppo, suddivisi per Sustainable Development Goals (SDGs). Tra questi figurano diversi progetti avviati in collaborazione con università italiane e non, tra cui uno in particolare con l’Alma Mater Studiorum di Bologna (UniBo), consistente in un «progetto per la promozione di uno sviluppo sostenibile dell’acquacoltura di specie marine nella fascia costiera di Port Said».
Il progetto in questione rientra nella più ampia cornice dell’Accordo Quadro – l’ennesimo tra la multinazionale e un’università pubblica italiana – stipulato tra ENI ed UniBo a margine del G7 Ambiente tenutosi proprio a Bologna nel 2017, con a bilancio 1,4 milioni di euro per l’anno 2018, su un totale di 5 milioni che sarebbero stati erogati nei 3 anni coperti dall’accordo. Da questo sarebbero scaturiti sette workshop nelle sedi Unibo e Eni, undici contratti di ricerca avviati presso otto dipartimenti dell’Alma Mater e il coinvolgimento di circa quindici gruppi di ricerca. UniBo che è la stessa università che ospitava nel suo progetto Erasmus Patrick Zaky. Alla fine di maggio la Regione Emilia-Romagna ha stoppato un accordo proprio con l’Egitto in materia di educazione e formazione, con la vice-presidente regionale Elly Schlein a motivare la decisione con la mancanza delle condizioni necessarie a portare avanti rapporti normali con il governo egiziano, a causa delle questioni Regeni e Zaky. Ma l’accordo che vede Eni fare da tramite tra il mondo accademico bolognese e l’Egitto rimane ancora in piedi, e a specifica domanda nei giorni successivi all’arresto di Zaky il rettore Ubertini aveva dichiarato: «In questo momento servono più ponti, non bisogna abbattere quelli che ci sono, ma bisogna cercare di crearne di nuovi».
Do ut des
Tra i documenti pubblicati da Eni sul proprio sito per ragioni di trasparenza, figurano anche i cosiddetti Fact Books, riassunti degli obiettivi strategici e di investimento per l’anno corrente illustrati a beneficio di azionisti, investitori e al pubblico in generale. Nel documento facente riferimento al 2018, sotto il paragrafo dedicato al Blocco Shorouk, dopo l’illustrazione dello stato dell’arte del progetto (5 unità di trattamento onshore già realizzate, con altre 3 unità di trattamento e 3 pozzi estrattori, che ne porterebbero il totale a 13, in previsione), si trova un riferimento ad «iniziative di social responsibility». In questo ambito – si legge – sarebbero in corso di implementazione i «programmi definiti dal Memorandum of Understanding firmato nel 2017». Questo consisterebbe in un accordo tra Eni ed autorità locali che affianca le attività di sviluppo del progetto Zohr e consterebbe di due progetti: il primo, già realizzato, riguardava la ristrutturazione di una clinica nei pressi delle facilities produttive onshore di Zohr; il secondo, dal valore di 20 milioni di euro, si compone di “iniziative di supporto socio-economico e sanitario a favore delle comunità locali”, agendo su tre aree.
Tra queste tre, oltre a progetti sanitari per la costruzione di un “Primary Health Centre” e a non ben definiti programmi per i giovani, si ritrova un progetto di «acquacoltura ed attività ittiche, in particolare con la costruzione di un distretto ittico». Il riferimento è evidentemente al progetto di ricerca, guidato dal Prof. Alessio Bonaldo, avviato da UniBo su finanziamento di Eni. Dietro la locuzione tecnica di «iniziative di social responsibility» sembrerebbero trovarsi quindi mere opere di compensazione (o royalties) – pratica diffusa in tutto il mondo, ad opera anche di multinazionali dell’energia per controbilanciare l’impatto negativo delle loro attività sull’ambiente – le estrazioni di gas sono tutt’altro che neutre dal punto di vista dell’impatto ambientale – e talvolta sul tessuto socio-economico locale.
Contraenti forti e contraenti deboli
Dal testo dell’Accordo Quadro si evince quali siano i termini di collaborazione tra ENI ed UniBo. Alcune disposizioni, in particolare, ne danno un’idea: «Eni non assume alcun impegno di esclusiva con Unibo e pertanto si riserva ogni ampia facoltà di decisione sull’emissione di Ordini di Lavoro, a fronte del contratto». O ancora, termini volti a regolare la pubblicazione scientifica dei risultati di ricerca dei progetti coinvolti che ne prevedono la divulgazione solo previa autorizzazione per iscritto di ENI: qualora infatti l’azienda dovesse opporsi alla pubblicazione, essa sarebbe legittimata a «modificare il documento oggetto di diffusione eliminando tutto ciò che ritiene possa costituire informazione confidenziale di sua proprietà».
Viene ulteriormente specificato poi come quelli che UniBo svolge in collaborazione con Eni siano dei veri e propri “servizi”: essi dovranno infatti «essere effettuati in conformità a quanto stabilito dal contratto», salvo comunque il fatto che quanto sussumibile dai termini del Contratto non avrà carattere limitativo, laddove «la descrizione più dettagliata dei servizi che UniBo è tenuta a svolgere a fronte del contratto sarà indicata negli Ordini di Lavoro emessi da ENI di volta in volta in base alle proprie necessità nei termini previsti dal contratto». Ordini di Lavoro costituenti gli unici documenti formali «che autorizza(no) formalmente UniBo ad eseguire uno qualsiasi dei servizi», e che dovranno «essere sottoscritti da posizione autorizzata da Eni». Le posizioni di UniBo – ateneo pubblico – e di Eni sembrerebbero dunque integrare la fattispecie quasi più di un rapporto di subalternità che di collaborazione. Portando avanti la prima, sì, progetti di ricerca scientifica, ma risultando avere comunque in qualche misura un ruolo strumentale perlomeno nel rivestire di una patina green e sostenibile attività di esplorazione e approvvigionamento di idrocarburi portate avanti da Eni. Attività che col mondo della ricerca accademica, ormai a larghissimo consenso della comunità di scienziati e studiosi dei cambiamenti climatici, sarebbe necessario avessero sempre meno – se non proprio più – a che fare. Risponderanno: è la social responsibility, bellezza.
Articolo di Simone Martuscelli e Luigi Simonelli