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L’Europa in Egitto si nasconde dietro al denaro
Dal colpo di Stato del 2013 che ha permesso al generale al-Sisi di salire al potere, l’Egitto ha visto emergere un forte sistema di repressione verso i dissidenti politici basato sulla violazione dei diritti umani. Dapprima scagliatasi contro i sostenitori del presidente appena deposto Mohamed Morsi, la macchina sanguinaria di al-Sisi è andata ad espandersi col tempo. Giornalisti, manifestanti, attivisti, studenti sono entrati nel mirino del regime anche per minimi sospetti, detenuti senza nessuna tutela. Basta volgere lo sguardo verso lo studente Patrick Zaki, torturato e incarcerato per la sua tesi universitaria sull’omosessualità e per “aver tentato di rovesciare il regime al potere”.
Intanto il 16 dicembre l’Unione europea ha approvato una risoluzione che deplora la repressione sistematica portata avanti da al-Sisi e chiede ai Paesi membri il blocco di esportazione di armi verso l’Egitto. Il passo formale in avanti però non fornisce garanzie effettive. Come il divieto della legge 185/90 italiana che disciplina l’export di armamenti “verso i paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani” non ha evitato che ciò avvenisse la scorsa estate, così l’Unione europea potrebbe nuovamente mostrarsi cieca verso le violenze di al-Sisi per salvaguardare i propri interessi economici.
Ssi e Nsa: due facce della stessa medaglia
L’ascesa di al-Sisi in Egitto risale alla fine della rivoluzione egiziana del 2011, con la quale il regime autoritario di Mubarak è stato sostituito dal presidente popolarmente eletto Mohamed Morsi. L’esperienza democratica ha infatti avuto vita breve nel Paese, spazzata subito via dal colpo di stato militare di al-Sisi nel luglio 2013.
Da quel momento, l’Egitto si è distinto per le molteplici violazioni sistematiche degli stessi diritti civili e politici sanciti dalle leggi nazionali. Il governo appena insediato si è subito scagliato contro il presidente deposto e l’organizzazione relativa, i Fratelli Musulmani. Mohamed Morsi è stato inizialmente condannato a morte, per poi spegnersi di arresto cardiaco durante un’udienza che doveva ristabilire la sua pena. Al contempo, i Fratelli Musulmani sono stati banditi e riconosciuti come “organizzazione terroristica”.
Analizzando i metodi cruenti del presidente egiziano, risulta evidente una continuità con il regime autocratico di Mubarak, che sembrerebbe quindi mostrare un fallimento della rivoluzione del 2011. In primis, la National Security egiziana (Nsa), i servizi segreti di al-Sisi, presenta una forte corrispondenza con i Servizi d’Indagini per la sicurezza dello stato (Ssi) di Mubarak, anch’essi macchiatisi di sangue. L’ha dichiarato anche l’ex ministro Massour Elessawy in un’intervista del 2013: “annunciai lo smantellamento dei Ssi e cambiai soltanto il nome dei Ssi in Nsa per calmare la gente ma mantenni quasi tutti gli stessi funzionari dei Ssi”. Insomma, un nome diverso, ma le stesse tecniche brutali.
Dieci mesi in carcere, nessuna certezza
Nei mesi successivi al colpo di stato di al-Sisi, il sistema repressivo egiziano ha allargato il suo controllo per includere giornalisti, dissidenti politici, manifestanti, attivisti e qualsiasi persona che possa in generale suscitare dubbi sulla propria fedeltà al regime. Tra questi Patrick Zaki, studente egiziano che si era recato in Erasmus a Bologna, attualmente in carcere da febbraio.
Il caso di Zaki è lampante per comprendere le dinamiche della repressione in Egitto: nessuna tutela, continui rinvii, dieci mesi in carcere alle spalle. Lo studente dell’università di Bologna si era recato in Egitto a febbraio per passare le vacanze con la famiglia. Appena arrivato in aeroporto, Zaki è stato però bendato e ammanettato da agenti della Nsa per poi essere interrogato sul suo impegno nei diritti umani e sul suo soggiorno in Italia. Nelle 17 ore di domande, come riportato da Amnesty International, lo studente “è stato picchiato sulla pancia e sulla schiena e torturato con scosse elettriche”. Zaki è stato poi spostato nella prigione di Tora, in attesa del processo per “incitamento alla protesta” e “istigazione a crimini terroristici”.
La custodia cautelare a cui è sottoposto lo studente sarebbe inizialmente dovuta durare 15 giorni, ma, continuamente prolungata, si è estesa fino ad oggi giorno. Nei mesi le condizioni di Patrick sono peggiorate. Il 19 dicembre la madre di Zaki ha avuto la possibilità di visitare il figlio in carcere. “Sono fisicamente e mentalmente esausto, non ne posso più di stare qui” sono state le parole dello studente di Bologna, “non riesco a capire perché sono qui”. Patrick Zaki rischia ora fino a 25 anni di carcere solo per aver espresso la propria opinione e non essere sottostato allo stringente modello morale di al-Sisi.
La tortura come arma politica
Il caso di Zaki rappresenta purtroppo solo un piccolo tassello del sistema di tortura e repressione costruito da al-Sisi al fine di eliminare qualsiasi briciola di opposizione. Dal 2014 sono stati incarcerati più di 30mila dissidenti politici, tra cui anche minorenni. Nel report “Egitto: ‘Tu ufficialmente non esisti’”, Amnesty è riuscita a raccogliere varie testimonianze dei detenuti, molti dei quali hanno raccontato di essere stati torturati e maltrattati dalla National security. Tra questi anche minorenni: l’apparato repressivo egiziano non risparmia nessuno.
Con la nomina a ministro dell’Interno nel 2015 di Magdy Abd el-Ghaffar, ex funzionario dei Ssi di Mubarak, la macchina spietata di al-Sisi ha iniziato a muoversi verso una nuova direzione. Alle incarcerazioni e torture si sono aggiunte le sparizioni forzate: la detenzione in una località segreta per più di 48 ore senza la supervisione di nessun pubblico ministero. I sospettati sono trattenuti anche per mesi, senza la possibilità di comunicare con la famiglia o amici. Nei periodi di sparizione forzata, i detenuti vengono torturati al fine di estrapolare informazioni o addirittura confessioni false. Ciò nonostante la costituzione egiziana vieti arresti e incarcerazioni “senza un ordine giudiziario motivato e la tortura”.
La strategia è tanto efficace quanto brutale: come fa notare Amnesty “in media tra le tre e quattro persone al giorno sono vittime di sparizioni forzate nel paese”. Solo nei primi otto mesi del 2015, il Coordinamento egiziano per i diritti e le libertà ha documentato più di mille casi. Il governo di al-Sisi ha però sempre negato il proprio coinvolgimento.
Affari mediterranei
Nonostante il venir meno della sua fama di “cuore del mondo Arabo”, l’Egitto di Al-Sisi si è mantenuto un ruolo fondamentale nella geopolitica dei MENA states, anche e soprattutto grazie al ruolo di primo piano giocato in occasione degli accordi di Camp David, siglati nel 1979 tra il Presidente egiziano Anwar Sadat ed il primo ministro israeliano Menachem Begin. Accordi che hanno contribuito ad attribuire al Cairo il ruolo di agente stabilizzatore dell’area, e collaboratore principe (sic) delle potenze occidentali nella lotta alla radicalizzazione e nel contrasto al terrorismo.
In seguito ai profondi stravolgimenti degli equilibri e degli assetti di potere della zona provocati dai sommovimenti della Primavera araba, nei palazzi del Cairo si è insediato il generale Al-Sisi. Stando alle parole di Andrea Dessì, responsabile di ricerca nell’ambito del programma Mediterraneo e Medio Oriente dell’Istituto Affari Orientali (IAI), intervistato da Zeta, il regime di Al Sisi sarebbe di gran lunga peggiore del suo precedente, ravvisando nella sopravvivenza del regime stesso il suo unico obiettivo, a discapito di ogni considerazione di natura umanitaria o politica.
L’Egitto, tuttavia, non ha raggiunto tassi di crescita fissi sul 4.2% del PIL negli ultimi tre anni per caso, o estraniandosi dalle reti commerciali internazionali. È in questa dimensione che giocano un ruolo preponderante i ricchi dirimpettai europei, che dalla sponda opposta del Mediterraneo paiono non curarsi – nei fatti – dell’operato sanguinoso del regime del Cairo. L’Italia, ad esempio, annovera l’Egitto tra i suoi partner commerciali più stretti – ed è a questa ragione che va ricondotto il basso profilo adottato dai vertici politici del Bel Paese nel periodo di interregno egiziano seguito alla destituzione di Mubarak, atteggiamento peraltro rimasto quasi immutato dopo la salita al potere di Al-Sisi. Basti pensare alla vendita da parte di Fincantieri alle autorità egiziane di due fregate Frimm di ultima generazione, per un corrispettivo di 1.2 miliardi di dollari ca. O agli estesi interessi e attività economiche di Eni (partecipata statale detenuta per la maggioranza delle azioni dal Ministero dell’Economia e delle Finanze italiano) in territorio egiziano: è del 2015 la scoperta del più grande giacimento di gas metano di sempre nell’area di un lotto su cui vanta diritti di estrazione Eni, a seguito di un accordo siglato con le autorità di Port Said, e del 24 dicembre scorso l’’annuncio della scoperta dell’ennesimo pozzo di petrolio nel Sahara Occidentale ad opera della compagnia del cane a sei zampe. Nel 2019, l’export totale di beni e servizi dall’Italia all’Egitto si attestava sul valore di 2 miliardi e mezzo.
Le roi est nu
L’Italia è in buona compagnia. L’enfant prodige della generazione di rinnovamento europeo che, secondo alcuni commentatori internazionali, si sarebbe dovuta aprire con la sua elezione alla testa de La Republique en Marche, nuovo campione dell’ “Europa sempre più stretta” invocata nel primo articolo del Trattato sull’Unione Europea, pare curarsi dei principi propri del tanto invocato ordine internazionale liberale solo davanti alle telecamere. E da qualche tempo nemmeno più davanti a queste. Andando un passo oltre le ambiguità e l’immobilismo diplomatico dei responsabili della politica estera italiana, Emmanuel Macron ha infatti candidamente asserito, ai microfoni del pubblico francese ed internazionale, che quella tra Egitto e Francia fosse una “partnership strategica”, essenziale alla “stabilità regionale”, e che dunque “non sarà condizionata nei settori della difesa o dell’economia, dai disaccordi in materia di diritti umani”. Questo in concomitanza con la cerimonia di assegnazione della Legion d’Onore al dittatore egiziano.
La realpolitik di Macron in questo caso si comprende (non si giustifica) con la fitta rete di legami commerciali che anche la Francia vanta col Cairo, esemplificati dalle attrezzature militari vendute all’Egitto nel 2017 per poco meno di un miliardo e mezzo di euro. Al-Sisi rappresenta un alleato sgradevole ma in fin dei conti utile e fidato, con cui l’Eliseo condivide l’avversione per le smanie di potenza di Erdogan.
In parallelo, alcune figure istituzionali italiane continuano però a levare voci polemiche in relazione all’immobilismo delle istituzioni comunitarie sulla questione.
Roberto Fico, Presidente della Camera dei Deputati, nel rispondere a chi gli domandava perché l’Italia continuasse a intrattenere rapporti con un paese sprezzante di ogni forma di tutela della dignità umana e autore di crimini nei confronti di connazionali italiani, ha portato all’attenzione il problema dell’assenza di una posizione comune europea in politica estera. Nel suo riferimento a “concorrenze europee” che non avrebbero modo di esistere se l’UE affrontasse alcuni temi in maniera compatta, non è difficile cogliere un’allusione agli interessi commerciali ed energetici concorrenti di Francia ed Italia.
L’UE, infatti, nonostante l’esistenza del cosiddetto “secondo pilastro” nei trattati europei, costituito da una politica di difesa e sicurezza comune (CFSP), continua a mostrare palesi segni di fragilità istituzionale sul fronte della politica estera.
Un’Unione sempre più sfilacciata
Come sottolineato da Pierre Vimont, ex diplomatico coinvolto nell’istituzione dell’External action service dell’Unione Europea, “there’s no such thing as an EU foreign policy”.
Per quanto il Trattato di Lisbona del 2007, l’ultimo in ordine di tempo, abbia apportato delle innovazioni sostanziali, nel tentativo di sottrarre la gestione delle politiche estere e di sicurezza al modello intergovernativo per portarle invece nel novero delle politiche a gestione comunitaria, il permanere della necessità dell’unanimità per approvare l’adozione di qualsiasi atto continua a precluderne una reale effettività.
Le riforme di Lisbona furono poi pensate nel contesto di un’Unione che non aveva ancora conosciuto la crisi finanziaria e la conseguente perdita di legittimità delle istituzioni comunitarie, e i tentativi successivi di porle in atto hanno risentito fortemente del clima di diffidenza ed ostilità che andava formandosi intorno all’Unione ed ai suoi rappresentanti.
Stefan Lehne, ex-diplomatico alle dipendenze del Ministero degli Affari Esteri austriaco prima e del Consiglio dell’Unione Europea poi, ha scritto a riguardo di un’evoluzione paradossale dell’atteggiamento europeo in politica estera: in un contesto sempre più caratterizzato da grandi sfide e conflitti geopolitici, l’Europa e l’ordine liberale pensato in comune con gli USA, e basato sul cosiddetto soft power, hanno iniziato ad apparire sempre più come delle idee obsolete ed inadatte, da politica novecentesca.
Lo stessa figura dell’Alto Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza appare ancora oggi un gradino più in basso rispetto ai primi ministri degli stati più rilevanti dell’UE. Macron, Conte, la Merkel spesso si trovano a decidere di questioni internazionali nel contesto di G7, G8 e G20, in cui rappresentanti ufficiali dell’UE, così come negli organi dell’ONU, non figurano. La stessa Francia si è sempre mostrata profondamente restìa a cedere il proprio seggio all’interno del Consiglio di Sicurezza ONU.
I vertici politici delle potenze del vecchio continente continuano così ad anteporre i propri interessi economici e strategici alla tutela di esseri umani, talvolta di propri connazionali barbaramente uccisi da regimi sanguinari che sfacciatamente proseguono in opere di insabbiamento della verità.
Finché nessun rappresentante politico europeo deciderà di squarciare questo velo di omertà, aldilà dei membri di un Parlamento Europeo scandalosamente privo di alcuna capacità reale di orientamento delle politiche comunitarie, a soffrire le conseguenze di questi giochi di potere e dell’immobilismo dell’Unione Europea continueranno ad essere i civili egiziani (e non), imprigionati, torturati, picchiati e privati ogni giorno della propria dignità umana nel buio delle carceri del Cairo.
Articolo scritto in collaborazione con Amnesty Italia
Articolo di Luigi Simonelli e Elena D'Acunto