Produrre, riprodurre, consumare

Su capitalismo, oppressione di genere e nuove frontiere del desiderio

“Viviamo nel capitalismo, e il suo potere sembra assoluto… ma attenzione, lo sembrava anche il diritto divino dei re. Gli esseri umani possono resistere e sfidare ogni potere umano. La resistenza spesso comincia con l’arte, e ancora più spesso con la nostra arte: l’arte delle parole.”

Ursula K. Le Guin

 

Negli ultimi mesi hanno visto la luce due testi che incarnano perfettamente questa considerazione della grande Ursula K. Le Guin: Caccia alle streghe, guerra alle donne di Silvia Federici (Nero, 2020) e Ripartire dal desiderio di Elisa Cuter (minimum fax, 2020). Le due pubblicazioni si inseriscono in un filone che mette in evidenza la connotazione più marcatamente politica del femminismo e che non scinde la questione di genere da quella di classe, ma, anzi, fonda su questo connubio le sue premesse teoriche. Come, infatti, scrive Federici in Genere e capitale (Derive Approdi, 2020) “ripensare marxismo e femminismo significa anche porre al centro della lotta di classe la problematica delle divisioni costruite dal capitalismo al centro della classe”. Alla base di questo soprattutto la convinzione che, come dimostrato storicamente, l’oppressione di genere non costituisca una costante di tutti i sistemi produttivi, ma che sia il sistema capitalista ad alimentare le disuguaglianze di classe, di genere, di razza. 

Senz’altro queste autrici conoscono Marx, ma alla visione marxiana dell’oppressione del lavoro legato alla produzione collegano un ulteriore tassello costrittivo: quello del lavoro riproduttivo, inteso nel senso di riproduzione umana e quindi di nuova forza lavoro, e attività di cura sia della famiglia che dei beni domestici; e se il salario del lavoro produttivo è risultato, e risulta ancora, impari o inadeguato, per quello riproduttivo non è mai esistito un compenso, né il lavoro di cura è stato equamente ripartito. Quest’ultimo punto racchiude una rivendicazione essenziale per tutto il movimento femminista degli anni Settanta: tra le richieste della “seconda ondata”, si faceva strada anche l’ottenimento di un salario per il lavoro domestico. Ancora oggi questo costituisce l’elemento su cui, spesso, si scontrano dialettica marxista e femminista: il marxismo non considera il lavoro di cura al pari del lavoro salariato, banalmente perché non riconosce l’attività riproduttiva e di cura come lavoro, né lo concepisce come ingranaggio essenziale della struttura capitalistica.

Una delle tesi fondanti del pensiero di Federici è, invece, il modello di famiglia proletaria e nucleare come costrutto sociale. Seguendo questa linea, nel nuovo testo di Federici si sottolinea perché sia importante riconsiderare il fenomeno della “caccia alle streghe”. Esso permette, infatti, di comprendere un insieme di processi sociali indispensabili per la nascita del capitalismo moderno, facendo luce sulla relazione tra smantellamento della proprietà collettiva, tramite le enclosures, e demonizzazione della donna: ciò ha reso l’oppressione di genere un elemento basilare per la costituzione della società capitalistica. La stessa Federici, ad ogni modo, ritiene l’opera di Marx centrale soprattutto nelle sue analisi del processo di formazione della forza lavoro, e quindi la cosiddetta “critica femminista”, che spesso viene interpretata come una dura e compatta opposizione a Marx, costituisce forse più una “lettura femminista”. Attraverso una ripresa dei concetti cardine e una reinterpretazione di alcuni punti del Capitale l’autrice costruisce una riflessione che analizza e considera anche un aspetto non analizzato nell’opera: l’oppressione di genere.

Già Engels comunque scriveva che “appare evidente che nella famiglia la donna ricopre il ruolo che nella società è quello del proletario e il marito il ruolo del borghese”, e anche Woolf si chiedeva “perché gli uomini bevevano vino e le donne acqua? Perchè uno dei sessi era così abbiente e l’altro così povero?”. Queste considerazioni rendono in modo eloquente come la questione di genere difficilmente possa essere scissa da quella di classe.

Ci si può chiedere, a questo punto, se questi due assunti possano essere conciliati all’interno di una visione che si muova, da un lato, su una critica al sistema capitalista, e dall’altro su quella strada di scardinamento degli stereotipi di genere responsabili di propagare una percezione del lavoro di cura come “femminile” e di lavoro salariato come “maschile”. 

Attualmente questa conciliazione sembra improbabile, dal momento che il femminismo liberale e progressista (che permea il panorama contemporaneo) stenta a intendere le rivendicazioni di genere come ascrivibili alla dimensione politica, restando più spesso concentrato su temi quali il rapporto con il corpo e la cura di sé, o la sensibilizzazione rispetto a violenza e sessualità. Aspetti certamente fondamentali, senza i quali probabilmente non si sarebbe raggiunta la consapevolezza che attualmente esiste. Ma la diffusione capillare di questi messaggi è avvenuta anche grazie alla strumentalizzazione e brandizzazione del femminismo per fini pubblicitari, mediatici e capitalisti, come sottolinea anche Cuter nel suo saggio. Non stupisce particolarmente, quindi, vedere che il femminismo mainstream non adotti una prospettiva di classe né muova critiche al sistema politico-economico.

Un caso emblematico di separazione della prospettiva di classe da quella femminista è il travolgente entusiasmo per l’elezione di Kamala Harris a vice-presidente degli Stati Uniti, un esempio di come le correnti del femminismo liberale abbiano portato al centro della lotta l’elevazione meritocratica di soggetti che per altro, nella maggior parte dei casi, detengono già un certo ammontare di capitale sociale, economico e culturale. Così facendo, come si legge in Femminismo al 99% (Laterza, 2019) “si finisce col confondere il femminismo con l’ascesa di singole donne in carriera”, senza contare poi il fatto che in questo specifico caso si tratta anche di una singola donna in carriera politicamente non troppo progressista, diventata però baluardo della vittoria percepita come la più femminista del momento. Questo perché la visione che si va perpetuando considera la donna come un soggetto sotto-rappresentato, e consacra quindi come vittoria qualsiasi ottenimento di maggiore considerazione e rappresentazione, senza un’analisi approfondita del singolo caso o individuo e del diverso significato che questo può far assumere al quadro complessivo della situazione. Ad esempio, riflettendo su cosa questo singolo soggetto una volta al potere farà per il restante 99% delle donne, magari in particolare per quelle appartenenti agli strati subalterni.

 

Un recinto tutto per sé

Tornando però a Federici, la sua riflessione nella nuova pubblicazione parte dal termine enclosures, parola inglese che indica il processo di recinzione dei terreni che nell’Europa del tardo Quattrocento segna l’avvento del capitalismo agrario: vengono smantellate le forme comunitarie di agricoltura tipiche della società feudale tramite l’esproprio e la privatizzazione, come un’onda la povertà e la disuguaglianza travolgono un ampio settore della popolazione, soprattutto rurale. È questa società alle prese con la ristrutturazione dei rapporti economico-sociali e i profondi sconvolgimenti causati dallo sviluppo del capitalismo il teatro della cosiddetta “caccia alle streghe”, che, contrariamente a quanto si crede, non fu l’espressione di un fanatismo religioso, ma un processo portato avanti prevalentemente dai tribunali civili. Attraverso la figura della strega le autorità locali e nazionali punivano tutte quelle donne violentemente impoverite dai cambiamenti che avevano annientato i loro mezzi di sussistenza e le basi del loro potere sociale: le anziane e le indigenti. Spesso erano donne che resistevano all’impoverimento e all’esclusione: arrabbiate, rissose, accese dal risentimento per le ingiustizie subite, impegnate in una protesta attiva (per esempio con la rimozione di siepi e staccionate utilizzate per le enclosures) o più semplicemente che pensavano, perché, come ci ricorda il Malleus Maleficarum (1487), il trattato di demonologia più consultato dai persecutori delle streghe, “una donna che pensa da sola pensa cose cattive”. E da lì a essere posseduta dal Diavolo il passo è breve. “Strega” diventa quindi un’etichetta facilmente applicabile anche a chiunque abbia “una cattiva reputazione”, a chi non si adegui alla nuovo ruolo sociale di subordinazione pensato per la donna, a chi sfugga al controllo maschile e quindi del capitale (per esempio le donne sole, non sposate, vedove), a chi osi esprimere libertà sessuale e contraddica il modello dominante di femminilità. Il demone che l’accusa vuole estirpare dalle donne non sembra essere rosso e cornuto, non assume le sembianze di un capro e non ha le ali da pipistrello e il forcone; il Diavolo che le possiede si può chiamare anche indipendenza, libertà, o autonomia ed è questo che decenni di persecuzioni hanno cercato di scacciare con esorcismi, torture e roghi. 

Il processo di enclosures coinvolse quindi non solo la terra ma anche il femminile: fu innalzato un recinto per isolare la donna dalla società ed escluderla dal potere, un altro recinto per separarla dalla sua comunità e poi ancora un ultimo, il più stretto e soffocante: quello per sottrarla dal suo stesso corpo e dal suo stesso desiderio. La caccia alle streghe si accanì infatti contro guaritrici, levatrici ed erboriste privando le donne delle pratiche mediche, dei rimedi e delle conoscenze botaniche fino ad allora impiegate per la cura del corpo, criminalizzando così sistemi utilizzati, tra le altre cose, per la contraccezione e l’aborto. “La caccia alle streghe fu uno degli strumenti con cui in Europa le donne furono educate ai loro nuovi compiti sociali” scrive Federici, e in questa nuova sfavillante etica pubblica il desiderio femminile non trova posto. Il capitalismo deve reprimere l’istintualità incontrollata per creare forza lavoro disciplinata, dunque, viene premiata la capacità di controllare le pulsioni istintuali dell’individuo e la donna risulta, agli occhi della società, incapace di sottostare a queste norme, ed espropriarla dal controllo sul suo corpo diventa così cruciale affinchè continui ad appartenere allo Stato, alla Chiesa, alla morale. 

 

Il secondo desiderio

Sulla prospettiva di Federici riflette anche Cuter in Ripartire dal desiderio. Se il capitalismo in un certo senso precede il patriarcato (poiché, come già sottolineato, esso non costituisce una costante in tutti i sistemi di produzione antecedenti), allora la dicotomia di genere e la divisione sessuale del lavoro che ne consegue non si fondano su un dato di natura (il ruolo di cura come qualcosa di connaturato al femminile, il ruolo di dominatori aggressivi insito al maschile) ma su strutture politico-sociali asimmetriche e tossiche. Questo significa, inoltre, che gli uomini non sono biologicamente portatori sani di patriarcato, ma lo sono soltanto politicamente, socialmente e culturalmente. A partire dalla Rivoluzione industriale, però, anche le donne iniziarono a costituire forza lavoro, senza tuttavia percepire un salario adeguato, almeno fino al boom economico. Da quel momento la lavoratrice-consumatrice divenne, ed è ancora, il motore essenziale del neoliberismo: più dell’80% di quanto prodotto nei Paesi sviluppati è infatti acquistato da donne. 

Cuter a questo punto sottolinea come il processo di femminilizzazione della società sia collegato alla struttura dei consumi: le ricche borghesi, sgravate dal lavoro in senso stretto e dal lavoro di cura domestico, necessitavano di un intrattenimento che fosse però sicuro e morale. L’architettura dei cinema, così come quella dei centri commerciali, nacque con questo scopo: ricalcando lo spazio chiuso, confortevole e protetto della casa, offriva un ambiente pubblico ripulito dai rischi viziosi. La progressiva femminilizzazione della società arriva però a fagocitare anche il capitale erotico, riplasmando luoghi, pulsioni e sogni maschili. Un esempio su tutti: Playboy e la sua mansion innocua e accogliente. D’un tratto, quindi, non è più vero che le donne occupano il privato e gli uomini il pubblico: le carte si rimescolano. Ma occorre agire con cautela prima di gridare vittoria: la nostra è infatti una cultura imbevuta di slogan del femminismo liberale, che fanno strada al ragionamento essenzialista che riconduce tutto ciò che è “femminile” a qualcosa di necessariamente positivo, rimasticando capziosamente le argomentazioni di critica al patriarcato, e scollegandolo dalla sua subordinazione al capitale.

Si riproduce così un’idea di rapporto con il sé che ricalca l’imprenditoria. Ma l’ossessione per la cura della propria immagine è soffocante se, tentando di realizzare queste volontà spesso indotte, arriviamo a seppellire i nostri reali desideri. Ripartire da un sé desiderante significa, allora, ripartire da un sé attivo, non costantemente vittima, né bisognoso unicamente di attenzioni e accudimento, ma nemmeno perennemente destinato al trauma. Significa anche rifiutare di ridurre acriticamente un soggetto al suo genere, all’indignarsi per qualcosa che succede a qualcuna “in quanto donna”. Il desiderio da disseppellire di cui parla Cuter è infatti irriducibile, non universalizzabile: ripartire dal desiderio vuol dire ripartire da ciò che ci rende soggetti desideranti e, per questo, individui. Non è quindi inteso in senso liberale come agency, come controllo su di sé, come qualcosa di empowering. Al contrario, il desiderio disarma, spiazza, fa sentire inadeguate; spesso, cozza con le categorie morali. In questo senso, non solo risulta incompatibile con i recinti del binarismo di genere, ma è anche qualcosa di non rimasticabile, non pinkwashabile e non sfruttabile dal capitalismo proprio perché resistente all’inserimento in categorie di targettizzazione. Questo desiderio è quindi un’area franca, non colonizzabile dal tardo capitalismo, che invece sospinge coi suoi slogan seducenti all’economia del benessere e all’autoimprenditorialità schizoide che, da un lato, istiga al burnout e, dall’altro, invade il tempo libero con la retorica del selfcare. E invece il desiderio reale è lurido, sconfortante e inospitale, per via del costante conflitto tra soggetto e oggetto. L’eros è così anche politico e, nel suo essere terrificante e violento, somiglia qualitativamente al conflitto di classe perché, come quest’ultimo, è perfettamente inserito in una dialettica contraddittoria, irruenta, rabbiosa. Il desiderio, insomma, dà fastidio. Ripartiamo dal prenderci cura di questo fastidio.

 

Questo articolo è un adattamento dell’approfondimento Produrre, riprodurre, consumare che potete trovare sul numero 37 di Scomodo abbonandovi qui.
Articolo di Arianna Preite, Lucia De Angelis, Giorgia Demuro