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Filmspiracy
L’inquinamento nascosto dell’industria cinematografica e i protocolli che tentano di regolarlo
Un cinema più green
Nel mondo del cinema la tematica ambientale sta acquisendo sempre più rilevanza. Ormai da diversi anni molte produzioni sono state incentrate su questo argomento, come il classico dell’animazione WALL-E di Andrew Stanton del 2008 o il più recente Captain Fantastic di Matt Ross del 2016. Tutte opere nate con l’intento di lanciare un preciso messaggio a difesa del patrimonio ambientale, che ogni anno diventa sempre di più un tema rilevante. Ma la tematica ambientale riguarda solo quanto portato su schermo o anche ciò che avviene dietro la cinepresa? Dietro ogni elaborazione c’è un enorme lavoro, che coinvolge una vasta mole di persone e attrezzature e si trasforma nella principale causa del danno ambientale da parte del settore dell’audiovisivo. Persino le animazioni che hanno come fulcro l’ecologia presentano alcune lacune durante tutto il processo: apparentemente si battono per la causa ambientale, ma non la rispettano affatto in fase di produzione del film. I set cinematografici sono delle piccole città in movimento, che lavorano, producono, creano, ma soprattutto inquinano. E la problematica si protrae anche a prodotto concluso, nel passaggio alla fruizione sulle piattaforme streaming. Alla luce di questo, è dunque necessario porsi il problema di come si possa ridurre, se non eliminare, l’inquinamento dal cinema. Da qualche anno a questa parte, è finalmente possibile creare un cinema green ed ecologico, grazie a diversi protocolli, in Italia e non solo, che sono riusciti a rispondere in maniera efficace a queste domande. Uno di questi è EcoMuvi, sviluppato dalla casa di produzione La Tempesta, riconosciuto anche a livello europeo per la sua disciplina in fatto di sostenibilità ambientale da parte delle produzioni che lo adottano.
Quanto inquinano le produzioni?
Nell’era dove (quasi) tutto può essere ricreato digitalmente, la predilezione per gli effetti speciali fisici da parte dei registi affascina profondamente il pubblico, che spesso giudica ancora più positivamente una pellicola che non faccia uso di computer grafica (CGI) ed effetti visivi (VFX). Sapere che buona parte di Mad Max: Fury Road di George Miller sia stato girato nel mezzo del Deserto della Namibia, o che le troupe di Dunkirk di Christopher Nolan e Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg siano davvero andate nel Nord della Francia per ricreare le scene della Seconda Guerra Mondiale, conferisce alle pellicole un valore aggiunto. Tuttavia, per girare una qualsiasi di queste sequenze, centinaia di persone tra registi, produttori, maestranze e attori si sono dovute spostare insieme alle attrezzature in giro per il mondo. Secondo Albert, un’organizzazione ambientale creata per analizzare il livello d’inquinamento delle produzioni audiovisive, il principale impatto ambientale dell’industria cinematografica è dovuto proprio allo spostamento della troupe e dell’attrezzatura necessaria, che avviene per lo più su gomma. In questo settore, il trasporto è infatti la categoria maggiormente responsabile delle emissioni di CO2 e del consumo di energia. Per dare un metro di paragone a questi dati, sempre secondo Albert, la produzione di un’ora di contenuti di televisione britannica emette 13 tonnellate di anidride carbonica, più o meno la stessa quantità generata da un cittadino statunitense medio in un anno. Nel frattempo, dall’altra parte dell’Atlantico, uno studio dell’Università della California ha rilevato che l’industria cinematografica e televisiva degli Stati Uniti, solo nel 2006, aveva generato 15 milioni di tonnellate di CO2. Inoltre, nuovi dati arrivano direttamente dalle grandi case di produzione, che da qualche tempo hanno iniziato a rendere noto il loro impatto ambientale: nel 2018, Disney ha dichiarato di aver prodotto 1.93 milioni di tonnellate di CO2 e la Sony circa 1.03.
Oltre a questo impatto legato ai trasporti, si aggiungono l’utilizzo giornaliero di materiale usa e getta sul set – come i contenitori in plastica monouso in cui vengono serviti i pasti a tutta la troupe – o gli oggetti di scena che vengono essere sostituiti dopo ogni take – come quelli distrutti o gli alimenti consumati come da copione. Infine, altro grande problema è legato al deturpamento dei paesaggi naturali, che va dalla costruzione di enormi set lasciati in piedi per anni – come intere città erette in Nuova Zelanda per la saga del Signore degli Anelli di Peter Jackson – ai danni provocati agli ecosistemi durante e dopo le riprese di un film. L’esempio più tristemente noto è quello della Maya Bay nelle isole Phi Phi in Thailandia, set del film The Beach di Danny Boyle: prima delle riprese la produzione abbattè una parte della vegetazione per ingrandire la spiaggia e piantò circa cento palme per rendere il paesaggio più in linea con l’idea occidentale di luogo esotico. Tuttavia la specie, non autoctona, arrecò gravi danni all’habitat naturale, e il dissesto idrogeologico della costa portò, nella stagione delle piogge, al crollo delle dune di sabbia sulla fragile barriera corallina. Nonostante la 20th Century Fox avesse istituito un fondo di 100.000 dollari per la ricostruzione dell’habitat naturale a fine riprese, il governo locale e alcuni residenti dell’isola intentarono una causa contro il Ministero dell’Agricoltura thailandese, la Fox e la Santa International Film Production – la casa di produzione thailandese che aveva agito come intermediario – con l’accusa di aver provocato danni irrimediabili all’ecosistema. Nel 2006, la Corte Suprema thailandese confermò una sentenza della Corte d’Appello secondo cui le riprese avevano danneggiato l’ambiente e ordinò che fosse effettuata una nuova valutazione dei danni. Come se non bastasse, la spiaggia, colpita dallo tsunami del 2004, è stata sottoposta ad accessi limitati per poi essere chiusa definitivamente per la quantità di turisti che la andavano a visitare, portando via la sabbia come souvenir e sporcando l’area circostante.
Un altro caso più recente, forse non così eclatante ma altrettanto grave, è proprio quello di Mad Max: Fury Road, film dal forte valore post-apocalittico sulle conseguenze della desertificazione, ma che è stato girato in Namibia nel più antico deserto del mondo con veicoli e attrezzature pesanti che hanno finito per danneggiarne l’ecosistema. I deserti infatti, lungi dall’essere composti solo da sabbia, si reggono su equilibri climatici molto fragili e ospitano una flora e fauna ben precise. In particolare, le riprese si sono svolte nel Dorob National Park, area protetta che ospita una rara varietà di cactus e molte specie animali, tra cui principalmente uccelli e rettili. Nonostante la produzione di George Miller abbia fatto “il meglio che ha potuto” – come spiegato al Guardian dallo scienziato Jon Henschel – per salvaguardare l’ecosistema in cui stava lavorando, le riprese sono iniziate senza una sufficiente comprensione del loro impatto ambientale e la produzione ha finito per smuovere, con gli inseguimenti veicolari, dune di sabbia che non venivano toccate da milioni di anni – con conseguente stravolgimento dell’equilibrio di flora e fauna – e ha cercato di cancellare le tracce spianando l’area con delle reti, finendo invece per sradicare varie specie di piante. Molte associazioni ambientaliste hanno protestato che i permessi per girare il film fossero stati concessi immediatamente prima dell’approvazione di una legge nazionale sulla tutela dell’ambiente, che avrebbe di fatto proibito quelle stesse riprese. Sostenevano che ciò fosse avvenuto perché il film aveva contribuito alla crescita dell’economia namibiana, facendo affluire 370 milioni di dollari namibiani (27 milioni di sterline) di spese in loco, pagandone 150 milioni in tasse e impiegando circa 900 dipendenti locali. Tuttavia, il governo della Namibia ha fortemente smentito questa accusa, sostenendo che i metodi utilizzati dalla troupe fossero stati già testati e si fossero rivelati sicuri. Per quanto riguarda l’industria italiana, nonostante il nostro cinema non abbia i finanziamenti e le risorse di quello anglosassone, nemmeno il nostro settore è immune agli sprechi. La nostra industria cinematografica, infatti, produce ogni anno circa 5600 tonnellate di CO2 fra consumo di energia, trasporti e smaltimento rifiuti. In più, da qualche anno, oltre a quello derivante dalla fase di produzione si è aggiunto anche un nuovo tipo di inquinamento: quello dei servizi di streaming.
Anche lo streaming inquina
Ormai parte integrante della fruizione prediletta delle nuove generazioni, lo streaming si è fatto sempre più strada all’interno del mondo cinematografico e televisivo. E nell’inquinamento ambientale operato dal settore cinema, lo streaming occupa una parte non indifferente. Questa tecnologia infatti, così intuitiva agli occhi del fruitore, può funzionare solo al prezzo di una vastissima rete di traffico e infrastrutture. A ogni minuto di riproduzione corrispondono dei byte, e a ognuno di quei byte un aggravio dell’inquinamento atmosferico. A scatenare diverse polemiche sono stati, nel particolare, i colossi dello streaming come Netflix, Disney Plus e Prime Video. Un recente studio della Ong Shift Project ha evidenziato come i server necessari per far funzionare la totalità dei servizi streaming producano circa 300 milioni di tonnellate di gas serra all’anno. Il che impatta notevolmente rispetto a un flusso internet in cui i video streaming rappresentano il 60% del traffico totale dei dati. Un inquinamento che, come se non bastasse, è drasticamente cresciuto nel periodo di pandemia da Covid-19, e che è destinato ad aumentare ancora: si stima che entro due anni l’80% del traffico globale riguarderà la riproduzione video. È provato che piattaforme come Netflix consumino più di intere nazioni come Spagna e Belgio, rappresentando infatti l’1% di tutte le emissioni globali. Da marzo a maggio 2020, Netflix Italia ha registrato un aumento degli accessi pari al 332%; Disney Plus del 290%; Prime Video del 266%. E ancora: secondo una ricerca condotta da Save On Energy, un film come Birdbox, che ha fatto registrare oltre 80 milioni di visioni, in termini di inquinamento equivale a un viaggio in auto di quasi 237 milioni di chilometri e all’emissione di oltre 66 milioni di kg di CO2. E tutti questi numeri sono destinati a salire ancora con l’aumento della qualità video: maggiore è quest’ultima e maggiore sarà la quantità di dati da spostare, con conseguente aumento del consumo di energia e dell’inquinamento.
Come limitare l’impatto ambientale
Il mondo del cinema ha un costo che va oltre le semplici spese della produzione. Come ricordato a più riprese, l’impronta ambientale lasciata dal settore dell’audiovisivo non si calcola in sole emissioni e tutti i reparti ne aumentano gradualmente l’impatto: dalla creazione dei costumi, alla cosmesi artificiale, fino alle lampade di certi gruppi alogeni per la fotografia. Per regolare – e limitare il più possibile – il livello d’inquinamento di quest’industria, sono stati strutturati diversi protocolli. In Italia i più sfruttati sono tre: l’ultimo arrivato è Zen2030, creato dalla casa di produzione Groenlandia e già applicato per la nuova stagione della serie Romulus, di Matteo Rovere; c’è poi Green film, sviluppato dalla Trentino Film Commission, che fissa dal 2017 alcuni criteri di valutazione per calcolare quanto si sia risparmiato in termini d’impatto ambientale dalla produzione del film; infine EcoMuvi, sviluppato dalla casa di produzione italiana La Tempesta. Da un anno ormai abbiamo la European Climate Law a richiedere il raggiungimento del target di zero emissioni entro il 2050, ma EcoMuvi era comparso già nel 2014, con un contesto internazionale ancora scarsamente normato. È arrivato primo in Europa, o meglio, “è il primo 100% certificato”, come ci tiene a precisare Ludovica Chiarini, EcoMuvi Manager e responsabile del progetto che ci ha raccontato il protocollo: “Non è una checklist, una lista di buoni propositi da seguire sul set, come si trovava solitamente. EcoMuvi è nato conoscendo il panorama italiano. Il valore innovativo era di renderlo accreditato attraverso certificazioni ambientali per quantificare tutto quello che è l’impatto ambientale in sé. L’EcoMuvi Manager fa da ponte tra la produzione e un ente terzo di valutazione, aiutando il rapporto con i professionisti, atto proprio a capire se il lavoro è stato davvero integrato”.
L’attività di monitoraggio inizia dalla pre-produzione, quando si prova a individuare, all’interno di alcune macroaree d’azione – tra cui l’utilizzo dei materiali o le gestione dei rifiuti e delle emissioni – delle strategie per un risparmio energetico completo, rispettando comunque le necessità del set: “L’EcoMuvi Manager capisce quali saranno le dinamiche del lavoro – continua Ludovica – e poi stila una politica ambientale con le azioni che andranno effettuate. Lo fa non solo con il reparto di produzione: quando partecipo alla lavorazione di un film, mi sento sia con la scenografia, i costumi, il trucco, che con tutte le altre persone, fino ai segretari e gli assistenti di produzione. Si analizza quali sono le loro attività: per i costumi ad esempio ci indirizziamo verso gli acquisti di usato e second-hand, tinture naturali, certi tipi di detergenti non inquinanti e altro ancora”. Abbracciando una visione d’insieme, diversamente da quello che si potrebbe pensare, un protocollo del genere riesce anche a far risparmiare: se si prendono in considerazione sia gli elementi che presentano un costo maggiore dei loro corrispettivi d’uso comune – come posate e bicchieri di materiali compostabili – e si compensano con programmazioni ferree rispetto ad altri comparti – come i trasporti elettrici che permettono di economizzare sui carburanti – il bilancio risulta per lo più in positivo. Ludovica puntualizza che oggi si usano spesso termini come “green”, “zero impatto” o “zero emissioni”: “Sono parole che attirano l’attenzione ma possono risultare vuote. Quello che noi calcoliamo sono le emissioni di CO2 per quanto riguarda le rivelazioni dirette – quindi, nel caso di una macchina, si calcola quanto emette. Però l’impatto ambientale non è solo emissioni. Quantifichiamo anche un’altra serie di valori, per esempio i chilogrammi di rifiuti o la protezione della biodiversità e degli animali, perché è importante dare una visione a 360 gradi dell’impatto”. Solo azzerando le emissioni di carbonio, insomma, non si cancella del tutto l’impronta ambientale di un film, anche se si tende a citare solo la diminuzione nel gas prodotto. Alla fine di tutte le fasi, l’ente certificatore associa un punteggio ad ogni macro-categoria ambientale o PEF (Product Environmental Footprint) e a seconda della percentuale raggiunta il film acquista un certo livello di “virtuosità”. Si possono anche considerare, nel calcolo della percentuale, la scelta di sponsor impegnati in produzioni o attività consapevoli e sostenibili, l’acquisto di crediti e certificati di natura ecologica o la piantagione di alberi per la riqualifica delle location. In questo caso, anche se il protocollo si fa più difficile da attuare, le ulteriori accortezze concederebbero un’attestazione di livello “plus”.
Il protocollo in azione
Con un aggiornamento del protocollo avvenuto solo qualche mese fa, EcoMuvi ha iniziato a normare anche le fasi di post-produzione o altre tipologie di prodotti audiovisivi: oltre i lungometraggi, abbraccia adesso anche pubblicità, documentari e cortometraggi, produzioni per cui il protocollo si fa più “agile”. Per il montaggio si predilige lo stoccaggio in cloud – con un risparmio sugli hard disk – o lo smaltimento consapevole dei prodotti chimici utilizzati per lo sviluppo della pellicola (oggi usata raramente), che può aiutare nelle ultime fasi di lavorazione del film. Per quanto riguarda gli eventi e i festival, i protocolli scarseggiano – tra i più diffusi c’è ISO 20121 – e anche sullo streaming siamo ancora agli inizi. EcoMuvi è stato usato in decine di produzioni negli ultimi sette anni. L’ultima è quella di Ariaferma, film diretto da Leonardo Di Costanzo e non ancora distribuito. In questo caso, l’efficacia del PEF ha raggiunto il 73%, i rifiuti risparmiati ammontano a 69 Kg e la riduzione in termini di combustibili fossili è stata di 12,28 tonnellate di CO2 equivalente – la misura cumulativa di tutti i gas serra prodotti. Il caso più famoso è però quello di Lazzaro Felice, pellicola di Alice Rohrwacher vincitrice della migliore sceneggiatura a Cannes 2018, festival che quest’anno s’impegna a migliorare la sua performance ambientale con il 50% della diminuzione della carta stampata, l’eliminazione della plastica monouso e la riduzione del volume dei red carpet. Per questo film ambientato a cavallo tra un passato rurale e una crudele modernità, con noleggio e acquisto di capi e oggetti di seconda mano si è riuscito ad attenuare l’impronta ambientale del 67% per i costumi e del 51% per la scenografia. Prendendo in considerazione il livello d’inquinamento prodotto dal film, è come se avesse “consumato ‘solo’ 32mila hamburger, 600mila minuti passati al cellulare e fatto volare 133 fortunati fino a New York”.
Dopo esserci salutati alla fine dell’intervista, Ludovica ci ha riscritto, perchè voleva puntualizzare un ultimo elemento: dopo un primo momento in cui le produzioni si sono dimostrate un po’ restie nell’attuazione dei protocolli, oggi risultano sempre più diffusi e figure come l’EcoMuvi Manager di primaria importanza. A quanto pare gli spettatori, spesso dipinti come fruitori inconsapevoli, hanno ancora la capacità di influenzare le scelte prese sul set anche rispetto a ciò che avviene dietro la macchina da presa, per quanto le loro richieste problematizzino la produzione stessa. Complice è senz’altro un’opinione pubblica, soprattutto nelle nuove generazioni, che cerca di evidenziare il bisogno di una maggiore sensibilità in tema d’ambiente, anche lì dove si sarebbe lasciata passare ogni scelta, magari perchè “qui si fa arte, non si bada a spese”. Del resto si tende a dimenticare che il cinema è un’industria, e come tale è succube della ricerca del risparmio per aumentare il profitto, disposta a tutto pur di diminuire i costi. Di buon auspicio è vedere che, anche se con una serie di difficoltà, l’ecologia sta rimodellando settori solidamente ancorati a meccanismi inquinanti che si riproducono da anni senza cambiamenti. Ormai, nulla è più intoccabile.
Articolo di Jacopo Babuscio, Francesco Canu, Ginevra Falciani