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La fotografia Urbex nell’abbandono edilizio
Come Nicola Paccagnella ha raccontato le storie umane nascoste in questi spazi
Fatiscenti e abbandonati. Pericolanti e dimenticati. Ridotti a macerie, impolverati, consumati dal lento scorrere del tempo. Edifici la cui anima si è, negli anni, amalgamata alle ragnatele, agli atti di vandalismo, diventando poco più che un ricordo di ciò che sarebbero potuti essere. Esclusi eventuali legami personali, se per un qualunque motivo un oggetto non soddisfa più l’originale esigenza per cui è stato creato, il rischio di degradarsi in un semplice accumulo di polvere è alto. Ma se il bene obsoleto e dimenticato in questione è un’enorme struttura architettonica di cemento che negli anni ha ospitato migliaia di persone, o ne avrebbe potute ospitare, “ritrovarlo” può fare un certo effetto, stimolando in noi emozioni difficili da definire. Il fascino e il leggero senso di angoscia che questi “mostri” abbandonati scatenano sono le principali sensazioni che artisti, fotografi e curiosi, rincorrono da oltre due secoli. La leggenda narra, infatti, di un portinaio francese che, nel novembre del 1793, in piena Rivoluzione, decise di addentrarsi nelle catacombe parigine senza fare più ritorno. Da allora, questo uomo è considerato il padre dell’Urbex, un’attività diventata corrente artistica che prevede l’esplorazione di luoghi abbandonati, documentando il tutto con la fotografia.
Urbex e l’esplorazione del dimenticato
Solo in Italia si contano 2 milioni di edifici abbandonati, 20 mila capannoni dismessi e incalcolabili strutture private senza proprietari, incluse case cantoniere (dati TerritorioItalia). La Urban exploration, da cui “Urbex”, è quindi l’arte della ricerca di questi edifici di altri tempi. Una ricerca il cui scopo è di valorizzare questi luoghi, la cui apparente irrilevanza custodisce il punto di vista alternativo, che non siamo abituati a guardare, rispetto alla vita di tutti i giorni.
L’obiettivo di questi artisti non si limita solo a una soddisfazione personale, professionale e artistica, ma anche di assumersi la responsabilità di rendere consapevoli i fruitori e le fruitrici delle opere di quelle che sono le conseguenze di speculazioni edilizie, sfruttamento del territorio, burocrazia insormontabile e cementificazioni inutili a discapito dell’ambiente.
Gli artisti Urbex, per rispetto dei luoghi che esplorano, agiscono in segretezza, condividendone solo alcuni che visitano.
Il fascino di questa attività è accompagnato dalla pericolosità, che costringe i numerosi appassionati a non improvvisare le loro gite, ma bensì a studiarle e prepararle a tavolino. La community dell’esplorazione urbana, infatti, dedica siti e blog condividendo informazioni preziose per esploratori ed esploratrici intenti a cimentarsi in queste avventure: Il percorso da seguire per arrivare al luogo, i livelli di decadenza dell’edificio, quanto sia facile infiltrarvisi o meno sono alcune delle indicazioni che, raggruppate, formano delle simil-guide online, per poter affrontare al meglio quella che, oltre ad essere un set fotografico, è una vera e propria avventura.
La nascita del movimento artistico-fotografico dell’Urbex è la conseguenza delle uscite esplorative di artisti-avventurieri che desiderano esprimere le emozioni e i sentimenti che le loro gite comportano. Inquietudine e fascino si fondono nelle fotografie scattate da coloro che cercano la bellezza di ciò che una volta era quotidiano, volendo suscitare in chi osserva le foto la nostalgica sensazione del non poter più vivere, in ogni senso della parola, ciò che fino a poco prima era dato per scontato. Qui risiede la sensibilità degli artisti Urbex. Cogliere il ricordo di un tempo andato, non ben definito e non necessariamente migliore, ma che comunque non c’è più. Istanti congelati nel presente ma che appartengono al passato vivono in queste ingombranti presenze che impongono di non essere ignorate e invitano gli artisti dall’occhio più sensibile a catturare il fascino dell’abbandono.
Artisti Urbex: più che fotografi, più che esploratori
In Coraline, il film d’animazione di stop-motion di Tim Burton, quando la bambina giunge nel mondo parallelo dell’Altra Madre, scopre, esplorando, uno spazio completamente bianco che le viene definito come “ancora in costruzione”. Tutto ciò che non rientra nel campo di percezione dell’utile è bianco, così come tutto ciò che non è utile è vuoto. Privi di utilità, e dunque svuotati di senso, sono anche gli spazi urbani abbandonati, i quali però non sono privi di significato. Quelle degli artisti Urbex sono spesso esplorazioni malinconiche: i luoghi abbandonati sono ostili, ci sono chiodi arrugginiti, travi marce e talvolta abitanti inaspettati. Non è un’esplorazione facile, tanto che si tende a praticarla almeno in coppia e con i walkie talkie perché talvolta i cellulari non funzionano. Alla domanda del perché ci si espone a pericoli e querele, le risposte sono varie. Artyom, esploratore urbano di Chernobyl, afferma in un’intervista di essere stato attratto dall’idea di guardare un lembo del “mondo che sarà quando la razza umana non ci sarà più”. È come fare una passeggiata nel mondo raccontato da Cormac McCarthy ne La strada. Ma c’è anche chi, come Robert Kusmirowski, i luoghi abbandonati li crea, perché cosí facendo inventa anche un tempo. Seppur Kusmirowski non sia propriamente definibile come urbexer, non esponendosi ai rischi propri dell’esplorazione urbana, è da riconoscere che per intenti vi si avvicina: con materiali di recupero, spesso riassemblati e modificati, l’artista polacco plasma dei microcosmi di un passato inesistente o di una sorta di futuro consumato. Le stanze che ricostruisce come passati fittizi sono dei terrari vuoti che lo spettatore osserva come potrebbe osservare se stesso dall’esterno. Non tutto ciò che le ricostruzioni contengono, però, è effettivamente verosimile; spesso si notano elementi che, pur conformandosi all’ambiente, non sono mai esistiti — come il Telegraphone, un relitto di un oggetto inventato, costruito assemblando una vecchia tastiera e strumenti da laboratorio di fisica.
Tra le sue opere vi sono cimiteri abbandonati in una stanza, binari morti, piscine vuote, sale che sembrano ritagliate dai film di fantascienza degli anni Sessanta (come P.a.p.o.p., del 2010), ma vi sono anche scene che appaiono come esperienze vissute in un altro tempo o addirittura non ancora vissute. È il caso di Quarantine, più nota come la sala bianca, esposta al Centro Pecci di Prato nel 2016 e successivamente battuta all’asta in singoli pezzi. Si trattava di una stanza arredata con 200 sedie completamente bianche, come un’enorme platea fantasma, e vari oggetti verniciati di bianco alle pareti. La sala fu poi effettivamente utilizzata per la Lectio Magistrali del sociologo Zygmunt Bauman e quindi, in un certo senso, vissuta.
Ciò è stato possibile perché, nonostante fosse una ricostruzione di qualcosa di irreale e vetusto, era pur sempre all’interno di un luogo vivo, attuale. Non è così invece per i luoghi che abbandonati lo sono davvero e che sono resi inutilizzabili non solo dal disuso ma anche (e soprattutto) dal tempo. L’attività degli esploratori urbani — il cui nome stesso è un ossimoro in quanto l’esplorazione fa parte del campo semantico dell’ignoto mentre l’urbe, pur riservandosi anfratti nascosti, è interamente un prodotto umano — è concepita in molti casi come un escamotage per ridare, se non vita, almeno visibilità alle zone abbandonate. Stefano Barattini, sessantunenne, fotografo professionista e fondatore di Manicomio fotografico (2013) e co-fondatore di Ascosi Lasciti, afferma che il motto di un artista Urbex è “non prendere altro che immagini, non lasciare altro che impronte”. Se non possono più essere vissuti, questi luoghi possono avere comunque vita nelle mostre fotografiche, in cui assumono valore esattamente per il fatto di essere spazi morti. Il progetto Ascosi Lasciti nasce come un’associazione di esperti di fotografia, arte, architettura e giornalismo alla ricerca di quelli che definiscono i “doni nascosti del passato”, fotografandoli, documentandoli e, talvolta, segnalandoli al Fai (Fondo Ambiente Italiano). Gli esperti, uno per regione, si occupano di valutare le loro scoperte: tra scuole in disuso, nosocomi inagibili e fabbriche dismesse, spesso vi sono interi castelli e regge completamente abbandonati, in cui affreschi e arazzi sono ricoperti dall’edera e le parietarie si insinuano tra le mattonelle. È quel che si vedrebbe, ad esempio, aprendo le porte del Castello degli innamorati, in Umbria, risalente al XII secolo. Frutti dell’incuria, che se da un lato deturpa e consuma, dall’altro riesce a conferire fascino malinconico. Allo stesso modo, interi borghi deserti oggetto di esplorazione vengono sottratti all’oblio grazie al lavoro di raccolta di quelle immagini che diventano, in sostanza, finestre su luoghi inaccessibili per via dell’anonimato.
Le tracce umane nell’abbandono edilizio: l’intuizione di Nicola Paccagnella
La ricchezza espressiva dei luoghi abbandonati, lungi dal limitarsi ai richiami del suo fascino decadente, sembra offrire uno spunto di riflessione artistica e politica decisamente importante: le storie delle persone invisibili che, prive dei nostri privilegi, hanno scelto di fare di questi spazi la loro temporanea dimora abusiva. Queste storie, annidate nei vecchi oggetti d’uso lasciati qua e là, come anche nelle scritte sbiadite sui muri, sono state delicatamente raccontate dalla fotografia di Nicola Paccagnella. Per certi versi, pur agganciandosi a mo’ di foglia alla corrente Urbex, il fotografo classe ’76, recentemente scomparso nel 2020 e nato in provincia di Venezia, ha impresso il suo personale marchio visivo a un filone fotografico tutt’altro che semplice da schematizzare.
“Umane Tracce” è il suo progetto fotografico più importante e sintetizza ciò che il fotografo veneto, sia per lavoro che per sensibilità artistica personale, ha approfondito e ricercato maggiormente nel 2018: il rilievo e lo studio della riqualificazione urbana. Ogni foto è stata scattata a Porto Marghera, un’infrastruttura marittima che affaccia sul Mar Adriatico e fa parte del comune di Venezia. Un dettaglio peculiare accompagna l’intero progetto: tutto quello che è stato fotografato non esiste più, è stato abbattuto, distrutto e cancellato. Nello specifico, Paccagnella decide di fotografare i dettagli di una fabbrica di malto, che, a partire dagli anni Ottanta, è stata gradualmente dismessa e sottoposta a un progetto di riqualificazione portuale. Le foto sono scattate poco prima della sua totale demolizione. Durante il suo periodo di abbandono la struttura è stata abitata da clandestini e rifugiati, e, pur se ormai totalmente abbandonata al momento delle foto fatte da Paccagnella, le immagini estrapolate riescono a tirare fuori l’atmosfera e lo spirito delle persone che hanno interagito e abitato quegli spazi. È questa la novità stilistica apportata dal fotografo veneto: la presenza umana si può quasi respirare nelle scritte lasciate sui muri, nelle scarpe ammuffite posate in un angolo e nei carrelli della spesa che, tra ruggine e ferro, esprimono i segni dell’usura di una vita intera. Una fotografia documentaria la sua, ma che, pur nella sua crudezza, esprime un netto contrasto di presenza e assenza. Un “non più” che si fa “qui e ora”. “Umane tracce” è un percorso visivo in costante equilibrio tra contenuto emotivo e forza evocativa nel quale anche una fabbrica di malto abbandonata destinata all’annientamento mostra bagliori di dignità nella forza espressiva delle sue tracce di passaggio umano. Tracce di persone e storie invisibili, la cui condizione celata e nascosta rafforza indirettamente la nostra presunta autorità su di loro. L’autorità che nasce dal nostro godere del privilegio di essere soggetti pubblico-giuridici rilevanti; in altre parole, il nostro essere concretamente presenti e visibili nella comunità. Un’invisibilità invece, la loro, che ci terrorizza. L’oscurità in cui li rileghiamo ci atterrisce e invochiamo istintivamente un potere che da essa ci tuteli. Queste tracce di esistenza ci invitano, allora, a fare i conti con la nostra condizione, a scoprirci umani. Il giornalista Paolo Coltro ha scritto:
“Là, per lo stesso motivo per cui i nostri antenati occupavano le grotte naturali, persone di cultura diversa sono venute ad abitare queste grotte di oggi. Esseri quasi invisibili, o meglio desiderosi di esserlo, perché anche avere una casa nel nostro mondo implica delle regole. Fuori dalle regole c’è l’illegalità, quindi ci si nasconde, ed è meglio se chi sta intorno chiude un occhio.”
Una dinamica antica e atavica che porta in sé il richiamo illustre al mondo greco della polis, per cui il primo simbolo del diritto all’esistenza era il terreno su cui gettare le fondamenta della propria dimora. Uno spazio privato che, citando il pensiero filosofico-politico di Hannah Arendt, garantiva al pater familias l’accesso alla vita politica, alla dimensione del dialogo e della parola, garantiva, in altre parole, il diritto all’esistenza autentica nel mondo. Oggi, queste tracce sono state annientate dalla ristrutturazione edilizia, ma continuano a vivere nella fotografia di Nicola Paccagnella. Ci ribadiscono con decisa delicatezza un monito fondamentale: nessuno deve essere dimenticato.
Articolo di Brando Carasso, Davide Guacci, Ludovica Russo