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G8 Genova, un fotoreportage inedito per rivivere quei giorni
Luglio 2001. Migliaia di manifestanti si radunano per dare vita ad un controvertice in opposizione al G8 Genova e testimoniare, con la propria presenza, l’esistenza di un movimento che contestava il sistema economico neoliberista, una globalizzazione fondata sullo sfruttamento senza limiti delle risorse ambientali e dei popoli dei paesi più poveri, e criticava inoltre l’idea che otto capi di Stato potessero decidere le sorti dell’intero pianeta (“voi G8, noi sei miliardi” era lo slogan).
A partecipare oltre 700 associazioni, sindacati, partiti, ONG, con intenti pacifici; coordinati dal Genoa Social Forum, nato proprio in vista del G8 sulla scia delle esperienze del “popolo di Seattle” del 1999 (quello che venne poi definito come il movimento dei “no-global”) e delle manifestazioni di protesta avvenute a Napoli e Göteborg. Il 19 luglio, in occasione di una manifestazione in favore dei diritti dei migranti, la partecipazione stimata è di 50mila persone – e altre se ne aggiungono nei giorni successivi.
Il centro della città viene divisa in due zone: quella gialla, ad accesso limitato, e quella rossa, riservata e inaccessibile, al fine di garantire lo svolgimento degli incontri del G8 Genova. La scelta della città di Genova riceve diverse critiche, sia prima che dopo l’evento, per la difficoltà nel gestire l’ordine pubblico in una città dalla conformazione urbanistica come quella ligure; e anche la scelta di stabilire delle zone rosse interdette a chiunque (e delimitate da vere e proprie barriere) viene attaccata come una violazione delle libertà costituzionali.
In questo contesto, le forze dell’ordine si convincono di dover reprimere una sorta di tentativo insurrezionale – memorabile è la voce, diffusasi nei giorni precedenti, che i manifestanti siano pronti a lanciare sacche contenenti sangue umano infetto. Un ordine che arriva anche “dall’alto”: la sera del 20 luglio, a scontri già iniziati, l’allora ministro dell’Interno del governo Berlusconi II, Claudio Scajola, ordina di sparare sui manifestanti in caso di irruzione nella zona rossa.
Il primo giorno di manifestazioni, il 19, prosegue senza problemi. Gli scontri iniziano il 20 luglio, primo giorno del G8 Genova: in vari cortei ad accendere la miccia è la presenza dei cosiddetti “black bloc” – tra i quali, affermano gli attivisti, è possibile trovare anche infiltrati delle forze dell’ordine, come testimoniato da immagini che vedono rappresentanti dei due gruppi conversare e, apparentemente, coordinarsi. In ogni caso, la reazione della polizia è subito sproporzionata. Anche il corteo autorizzato finisce per subire la carica della polizia, nonostante i contatti tra manifestanti e forze dell’ordine siano stati minimi.
L’apice si raggiunge intorno alle 17. Due defender dei carabinieri intraprendono una carica (criticata, poi, perché immotivata) contro dei manifestanti in piazza Alimonda. Uno dei due veicoli rimane bloccato nella piazza e si scontra con i manifestanti. Un ragazzo di 23 anni, Carlo Giuliani, impugna un estintore e lo solleva, ma viene colpito da un colpo d’arma da fuoco sparato dal carabiniere Mario Placanica – nonostante la distanza tra Giuliani e il defender sia troppa perché l’estintore possa colpire la vettura, rendendolo pressoché innocuo. Il veicolo dei carabinieri non solo non soccorre il ragazzo, ma nel ripartire travolge per due volte il corpo agonizzante di Giuliani, che morirà poco dopo.
Il giorno dopo, la sera tra il 21 e il 22 luglio, circa 500 tra poliziotti e carabinieri fanno irruzione alla scuola Diaz, usata come dormitorio da alcuni manifestanti. La motivazione ufficiale è quella di indagare sulla possibile presenza di black bloc tra gli attivisti presenti nella scuola, ma le indagini dimostreranno come le forze dell’ordine siano arrivate ad introdurre essi stessi delle molotov nella scuola per giustificare l’operazione. Al termine di quella che verrà definita “una macelleria messicana”, documentata da immagini che mostrano le pareti sporche di sangue, si contano 93 arrestati di cui circa 60 trasferiti in ospedale, uno addirittura in coma.
Una parte dei fermati verrà poi trasferita alla caserma Bolzaneto: inizialmente pensata per trattenere preventivamente dei soggetti già noti alle forze dell’ordine, finirà invece per essere teatro di violenze che, anni dopo, la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo definirà “atti di tortura”, condannando lo Stato italiano a risarcire le 59 vittime di quei fatti che hanno presentato ricorso.
Articolo di Simone Martuscelli, Gina Marano // Foto di Marco Vacchina, Veronica Poggi