G8, chiedere scusa è un atto di coraggio

“I giorni maledetti di quel luglio” secondo la testimonianza di un uomo della Digos

21/07/2021

Il 2001 è stato un anno spartiacque, da Genova a New York.
Di Genova e del G8, la nostra generazione ha pressoché un’unica immagine di riferimento: la polizia e i manifestanti. E il sangue dei secondi causato dai primi.

«Bisogna essere il più realistici possibile: la politica che ho frequentato io era impopolare, la massa non va inseguita per un tornaconto di consenso ma bisogna fare altro, ad esempio farlo capire ed eventualmente correggere. Bisogna approfondire. La lezione non è altro che questo: non lasciar passare certi fatti. Continuare a cercare non tanto la verità, poiché la sappiamo, quanto le motivazioni, senza fare gli stessi errori della classe politica odierna. E’ saltato tutto per dei traditori sia dello Stato e sia della Costituzione, io li chiamo così». Questo quanto affermato da uno degli uomini della Digos coinvolti in quei giorni caldi di luglio, Gianluca Prestigiacomo, oggi giornalista pubblicista, cercando di capire quale fosse la “lezione” di Genova. O se effettivamente ve ne fosse mai stata una.
Prosegue Prestigiacomo dicendo che «hanno vinto loro, i poteri forti e la globalizzazione, ma ancora cerchiamo di non sapere chi ha provocato morti e feriti. Le prove risiedono nell’onestà intellettuale. Si demistifica sempre e c’è una difficoltà sociale, della magistratura e degli inquirenti rispetto ai fatti del G8. C’è chi si fa delle domande, dal poliziotto buono a quello cattivo e c’è chi, invece, non se le fa più».

Per le generazioni che non hanno vissuto il clima del G8 e del contro-vertice e che hanno visto delle immagini prive di nesso causa-effetto ma intrinseche di violenza, la domanda sorge spontanea, e soprattutto inevitabile: cosa è successo in questi vent’anni e cosa ancora non è successo?

“Pensare globale, agire locale, non è uno slogan ma una sfida vitale”

L’aveva teorizzato Bauman, lo cantavano i Modena City Ramblers, ma soprattutto nel 2001 diventa il credo di tanti di cui la maggior parte era a Genova.
Per anni si sono andati elencando i grandi assenti di quel G8: lo Stato, le istituzioni, la politica, la giustizia, così assordante il silenzio che il G8 viene definito, per l’appunto, il vertice “delle assenze” in cui il caos diventa il protagonista. Eppure paradossalmente è al tempo stesso il più partecipato soprattutto da esponenti della società civile, perché in quell’anno il mondo intero si è riunito a Genova. Si sono riuniti tutti coloro che ancora ci credevano, che credevano che un mondo migliore fosse possibile, che non potesse finire con lo scattare del nuovo millennio tenuto in mano delle otto potenze statali. Che se solo avessero avuto abbastanza voce da urlare oltre la zona rossa, abbastanza forza da resistere ai lacrimogeni, allora forse quegli otto li avrebbero ascoltati, forse quel mondo si poteva ancora cambiare e che sarebbe stato quello il mondo possibile, superando lo slogan.

Ma chi c’era davvero, tra le strade di Genova, in quei giorni? Erano «drogati, pezzenti, bande di delinquenti che dovrebbero essere arrestati e tenuti in galera a vita» come li definì Emilio Fede durante la messa in onda del Tg4 del 20 luglio 2001? In piazza, oggi appare ancora più chiaro, c’era chi aveva avuto la lungimiranza di capire che quel 2001 stava effettivamente segnando un punto di non ritorno per la società tutta.
Si erano riuniti, in occasione del contro-vertice, centri sociali e reti universitarie, ma anche pensionati, famiglie, sindacati, centinaia di migliaia di manifestanti, con o senza colore partitico, da tutto il mondo. Qualcuno li aveva ribattezzati “il popolo di Seattle”, dopo gli scontri che nel 1999 li aveva visti in prima linea in occasione della conferenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che già delineava quel mondo globalizzato di cui poi si sarebbe riparlato a Genova.
Al Carlini, così come alla Diaz, la maggior parte dei presenti si rifaceva al Genoa Social Forum (GSF), la rete di associazioni nata proprio l’anno precedente in preparazione del G8, per organizzare la contestazione in modo quanto più organico possibile. Già prima però che il vertice iniziasse, la classe politica e dirigente cominciava a dare dimostrazione del proprio totale disinteresse, nonostante le legittime richieste di confronto perpetrate in maniera civile dal GSF, rappresentato nelle persone di Vittorio Agnoletto e Luca Casarini.

L’atmosfera, nei mesi precedenti al vertice, sembrava quella di preparazione a una battaglia, sia valoriale che vitale. “Sarà una guerra”, riecheggiava nelle parole di chi stava effettivamente prendendo parte al movimento dei 6 miliardi.
Tra gli avvenimenti di Seattle e quelli di Genova, le persone avevano avuto il modo di metabolizzare quanto stava accadendo e di formare un pensiero alternativo organizzandosi. La risultante fu un movimento trasversale, che, nelle parole della politologa americana Susan George, in piazza, il 20 luglio, era «il primo movimento di massa che non chiede niente per sé, vuole solo giustizia per il mondo intero».

Il dibattito dal 2001, spiega Prestigiacomo a Scomodo «giusto quale fosse, è stato preso da una certa parte politica come una sfida, la stessa politica che ha approfittato di quelle parole per ridurle a un paio di slogan svuotati di contenuto». E continua affermando che «la politica aveva il dovere di comprendere e non ha compreso. I temi andavano avanti da quarant’anni, non erano una novità. Si ripetevano discorsi già stantii, già sentiti perfino al Summit dell’87 a Venezia: fame nel mondo, debito nei Paesi low-income, lotta all’HIV. Di fatto, si è parlato del nulla». Il dibattito era dunque fermo trascinando gli stessi temi dagli anni ‘80, il contro-vertice doveva far discutere le stesse tematiche da però altri punti di vista su cui tutti erano d’accordo: il modello occidentale di sviluppo non era sostenibile.

L’importanza del movimento ambientalista nelle prime fila per la lotta alle grandi multinazionali inquinanti, l’estrema lungimiranza di tutti quei cittadini e cittadine schierati per la libertà di movimento delle persone migranti. C’era chi stava contestando un sistema capitalista-consumista in toto. Invece, la classe politica di allora si distinse per la profonda miopia. Restano tante domande. Prestigiacomo si chiede, ancora oggi, se sia stato impartito un ordine dall’alto, se quelle cariche con evidente intento distruttivo fossero davvero solo il risultato di chi ha perso la testa, o se invece facessero parte di un disegno con delle intenzioni precise. Lui stesso non vuole credere a questa possibilità.
Perché nessun politico conosciuto si mise alla guida di quel corteo pacifico? Sarebbe bastato ad evitare che fosse attaccato così brutalmente?

Perché il G8 non doveva essere la storia di un disastro annunciato

Gianluca Prestigiacomo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “G8 Genova 2001. Storia di un disastro annunciato”, edito da Chiarelettere in occasione del ventennale del vertice ha accettato di avere un confronto con Scomodo. C’è una parola che riecheggia ripetutamente durante tutta l’intervista: Stato. Prestigiacomo, in quei giorni a Genova c’è andato nei panni di agente della Digos, ovvero di chi, precisa lui, deve difendere chi esercita un diritto: quello di manifestare per le proprie idee. A distanza di tanti anni, permane una profonda rabbia e delusione nei confronti di uno Stato che, evidentemente, non si è dimostrato in grado di assolvere il proprio ruolo di garante.
A Genova “è saltato tutto”, e lo stato è il grande sconfitto di quel luglio del 2001. Lo si è capito a posteriori, qualcuno già l’aveva intuito e tentava invano di farlo presente.
Prestigiacomo ripercorre con precisione la cronologia di “quei giorni maledetti”, che hanno sancito una cesura nella storia della Repubblica e che, ancora oggi, rimangono una ferita aperta per tutti coloro che li hanno vissuti in prima persona.
La testimonianza porta con sé un punto di vista inusuale, e per questo prezioso. Quello di un uomo che crede nello stato a tal punto da diventarne rappresentante, e che si trova fagocitato da una situazione in cui il caos generale non permette di distinguere i buoni dai cattivi, le tute bianche dai black bloc, in cui prevale un senso di abbandono da parte delle istituzioni e della politica, che sembrava non essere interessata ad altro che a utilizzare quei giorni come vessillo per alimentare lo scontro tra fazioni, tra chi ha ragione e chi ha torto e a confondersi poi tra le due. Per distinguere chi fossero davvero i cannibali e chi i re.

Non solo inusuale il suo punto di vista, quanto avente una doppia natura. Quella di agente della Digos certo, ma anche di chi ha passato tanti anni da ragazzo dall’altra parte della contestazione, e quindi conosce bene entrambi i mondi, consapevole che, se qualcosa va storto, la possibilità che un corteo si trasformi in una polveriera è concreta, esiste e non è nemmeno così remota.

Del caos di Genova, di piazza Alimonda, delle cariche, della Diaz, in questo libro si sceglie di raccontare i fatti unicamente per come l’autore li ha visti e vissuti. Ne risulta un epilogo che per una volta non prende le parti di nessuno, se non dell’autore stesso, che non ha potuto far altro che seguire la propria coscienza, come chiunque si trovi improvvisamente in una zona di guerra poiché «il G8 di Genova fu una guerra civile durata ininterrottamente due giorni. Non si può evitare l’argomento solo per togliersi il fastidio di spiegarlo e raccontarlo». Prestigiacomo sente evidentemente una necessità impellente di raccontare, di chiarire una volta per tutte, forse perché vent’anni sono il tempo sufficiente per fare un bilancio, come sono andate le cose e perché.

Il fallimento dell’art. 18 a Genova

Nel ventennale del G8 sarebbe opportuno fare una analisi dei temi, delle battaglie politiche e dei movimenti che erano presenti e di come sia lo stato attuale delle cose oggi. Purtroppo però l’esigenza di interrogarsi sulla responsabilità statale di quella violenza scellerata rimane impellente e poco altro trova spazio nell’interesse del dibattito pubblico.

A tal proposito, Prestigiacomo, da uomo dello Stato ma cittadino al tempo stesso, rimane perplesso. Non ha le prove ma ha le proprie convinzioni, facendo eco alle parole di Pasolini stampate sulla pagina del Corriere della Sera del ‘74. «Io credo molto nello Stato ma non ci si può comportare così e questo succede perché chi lo rappresenta sono persone. Il concetto di Stato non è astratto, ma reale. È costituito da una norma e da persone che applicano i dettami di garanzia e di democrazia».

L’elaborazione di questi vent’anni per Prestigiacomo non avrà una fine poiché continuerà «finchè questi occhi saranno aperti, e sarà possibile grazie alla stragrande maggioranza delle persone che rappresentano questo Stato. La rappresentanza non deve essere solo un dovere ma anche un valore. Oggi come allora è formata da uomini e da donne con la schiena dritta, con dignità verso se stessi e umanità verso gli altri».

Prestigiacomo, da agente della Digos in quei giorni, non smette di interrogarsi sul comprendere, sapere e prendere atto che persone come lui abbiamo sofferto per ciò che è successo. «Capire per quale motivo ci sia stato un comportamento del genere è doloroso. I comportamenti umani sono determinati da infiniti fattori e tutte le idee, tranne una, può essere comprensibile e non si possono utilizzare degli strumenti non consoni appartenenti alla sfera della violenza. E capire il perché persone in divisa, senza personalità e senza coscienza risolta, abbiano avuto quel determinato comportamento è appunto doloroso. Non è quello il sistema per autorizzare l’intervento e l’ordine pubblico non deve restaurarsi così, lì sono saltati gli schemi per colpa dell’individualità determinando il panico. Non voglio credere che qualcuno abbia dato una autorizzazione ma voglio credere che il timore di fronte ad un potere politico in quella circostanza è stata una scintilla che ha fatto esplodere tutto».

In pochi sanno che quando si compie una indagine di polizia giudiziaria, qualora non andasse a buon fine – secondo Prestigiacomo – il risultato sarebbe comunque relativo. La questione, a quel punto, non sarebbe più una mera questione giudiziaria ma assumerebbe dei caratteri politici. Il palco genovese lo ha mostrato: le circostanze per l’avvio dell’indagine giudiziaria inevitabilmente vivono già sulle spalle delle stesse premesse politiche dell’avvenimento.

«Chi ha deciso, ha deciso male, le persone messe a operare sono state inserite in un contesto differente rispetto alle indagini “più pesanti” alle quali erano abituati: basti pensare alle operazioni anti-mafia. Quella era un’operazione di ordine pubblico e la preparazione non era adeguata. È stata una iniziativa sbagliata e la comunicazione si è basata su una solo questione: dare la colpa ai no-global. Gli errori da un lato e i black-bloc dall’altro hanno rovinato tutto. Se avessero lasciato la situazione in mano a chi sapeva gestire i disordini non sarebbe andato così. Il capo della Polizia non è solo il capo della Polizia, è il capo del dipartimento della Pubblica sicurezza; nel 1981, la legge 121 regolamenta in modo civile tutta l’organizzazione appunto in senso civile e non militare. L’art. 18 della nostra Costituzione prevede che manifestare è un diritto esercitabile in qualsiasi forma previa dichiarazione e non autorizzazione».

I fatti del G8 mostrano da un lato, sì, un disastro annunciato ma anche la conseguenza più tangibile nella generazione post-G8: per anni, la piazza è rimasta vuota. Infatti, «dopo quello che è accaduto a Genova, molte persone che avevano partecipato all’iniziativa propositiva nei mesi successivi iniziarono ad avere paura. Avere paura di partecipare a delle manifestazioni, questo è ciò che ha generato Genova. Il danno è sia del collettivo quanto dell’individuo.

La tutela di chi sta manifestando dovrebbe passare dalla rappresentanza dello Stato e dall’art.18: la difesa del corteo deve essere permessa e garantita dagli uomini di Stato. Chi va in piazza e svolge un servizio di ordine pubblico, non deve essere soltanto addestrato a usare gli strumenti giuridici ma deve avere anche conoscenza del contesto sociale e delle motivazioni per le quali le persone sono lì a manifestare: la conoscenza del tessuto sociale ha bisogno di una cultura, oscillante tra ragione e operatività».

Per quanto lo svuotamento delle piazze sia stato visibile negli anni (forse, parallelamente alla perdita di contenuti della politica italiana stessa) il Social Forum a Firenze nel 2002 fu verosimilmente partecipato con la differenza che lì non successe nulla. Prestigiacomo, per l’appunto, afferma che “quel nulla” era dovuto al fatto che proprio ad intervenire e a garantire la tutela della manifestazione ci fosse stato l’intervento dell’ordine pubblico che invece era completamente assente a Genova.

«Alla Diaz avrebbero dovuto mandare un cretino come me con altri cretini come me magari accompagnati dalla Scientifica. Un controllo e basta era sufficiente perché avrebbe fatto capire quanto lo Stato ci fosse, per davvero e nel modo giusto. Abbinare il sentimento al ruolo a qualsiasi livello: a quel punto occorre interrogarsi perché non c’è solo la verità giudiziaria. Possiamo sospettare, possiamo analizzare sotto ogni angolazione e aspetto ma una cosa è certa: non lo potremo mai sapere. Perché i conti ora appartengono alla coscienza individuale».

Articolo di Federica Tessari, Gaia Zanaboni