Ritratti sui generis

Quattro interpretazioni della questione di genere nell’arte contemporanea.

12/12/2022

Parigi, 1892: Henri de Toulouse-Lautrec si fa ritrarre per una serie di scatti vestito da donna, secondo la moda femminile del tempo. Indossa il cappello ornato di boa prestatogli da Jave Avril, compie pose ridicole, sonda nuove dimensioni del travestimento. Mostra così una delle modalità utilizzate dagli artisti per comunicare la frattura tra mondo sociale e identità intimistica. Oggi, ancor di più rispetto al passato, questa frattura si fa sentire:  dagli anni ’70 in poi, grazie alle lotte femministe e alla nascita dei Gender Studies, il concetto di genere non ha mai smesso di essere ricodificato e trasformato, costituendo un settore degno di un’epistemologia e di proprie condizioni di esistenza, oltre che un elemento di grande dibattito nella politica conservatrice e non. Associando alle lenti del genere il paradigma dell’arte otteniamo l’universo artistico queer. L’arte queer è politica, ricordando il famoso slogan di Carol Hanish e la sua feroce necessità di riaffermare il personale per giungere a un’interpretazione sociale collettiva. L’arte e ogni espressione artistica sono specchio della società ed esiste un legame fusionale e indissolubile tra anima dell’artista e contesto socio-culturale di riferimento. Anime e identità che, come in questo caso, vogliono mostrarsi instabili e mutevoli, svelando la maestosa e pirandelliana messa in scena agita dai ruoli di genere, capace di costringerci a interpretazioni dualistiche e polarizzate. L’assonanza con il passato è percepibile sia nelle scelte artistiche  che negli intenti: oggi, come nel 1892, l’arte può aiutarci a evadere da quella visione dicotomica in cui continuiamo a inquadrare la realtà.

La donna come soggetto imprevisto

È proprio la realtà in cui viviamo il campo prediletto di Sara Lorusso, artista romagnola classe 1995. Sin dal primo approccio con la fotografia ha cercato di diffondere un messaggio di inclusione in una società in cui il corpo umano è sempre stato oggettivato ed estetizzato. Interessata soprattutto alla rappresentazione della figura femminile, racconta storie vere di persone che la circondano, cercando di analizzare il ruolo della donna nell’età contemporanea soprattutto attraverso il progetto Mulieris Magazine, rivista che fonda nel 2019 per dare spazio ad artiste emergenti, le cui opere gridano uguaglianza e amore.

«Spesso mi affeziono alle persone attraverso i loro racconti che poi cerco di trasportare in immagini. I corpi che fotografo sono politici, parlano di storia, di rivoluzione, di dolore e di amore e non mi sarei mai aspettata di riuscire a portare avanti un messaggio così potente attraverso il mio lavoro», spiega quando le chiediamo di più sul suo lavoro. Per lei  la macchina fotografica è sempre stata uno strumento in grado di farla aprire agli altri e a se stessa, processo che ha sempre trovato difficile con l’uso delle parole. Ciò è evidente nella pratica dell’autoritratto, prediletto dall’artista, definito come una vera e propria terapia.

Il ruolo politico dell’arte di Sara Lorusso è evidente nel suo lavoro per Marco Rambaldi “Vediamoci oggi, immaginiamoci sempre. Diari di rivolta”, in cui c’è un richiamo al libro “Ci vediamo mercoledì, gli altri giorni ci immaginiamo” pubblicato nel 1978 da un gruppo di artiste femministe. In quegli anni si stava appena scoprendo quello che Carla Lonzi definisce “il soggetto imprevisto”, ossia la donna come soggetto nata dopo la pratica di autocoscienza femminista. Il vero protagonista di questo progetto era però lo sguardo, un nuovo sguardo femminile che guardasse alle donne come soggetto. Oggi le donne non sono l’unico soggetto imprevisto a non essere stato rappresentato finora, ci sono anche altri corpi e nuove tematiche da affrontare, come la queerness. A questo proposito Lorusso spiega come «in quegli scatti, come spesso nella mia fotografia, le donne e tutti i corpi queer sono i protagonisti. Gli stessi corpi che per secoli sono stati delle comparse. La questione di genere è al centro del mio pensiero: cerco non solo di rappresentare qualcuno, ma esserne parte. Solitamente inizio a scattare le altre persone perché mi pongo degli interrogativi a cui non so dare risposta, così cerco conferme negli altri. Grazie ai corpi che ho ritratto ho capito il mio».

L’acqua come rappresentazione della fluidità 

Oltre all’attenzione per il femminile, l’arte si concentra anche sulla questione di genere, proprio come fa Ela Falone, che racconta il rapporto con il proprio corpo. Quella con se stessi è una storia d’amore complicata, che matura col tempo, un po’ come il rapporto tra Ela e la fotografia. Quando lo intervistiamo non riesce a scegliere un momento preciso. La compatta di suo padre però non l’ha di certo dimenticata e forse proprio lei è la responsabile dell’inizio di questa bella storia d’amore, quella tra Ela e la fotografia.

Pescarese di nascita, inizia a scattare le prime fotografie in occasione delle feste passate in famiglia. Durante l’adolescenza la fotografia diventa esigenza e valvola di sfogo, l’obiettivo da 50mm suo compagno di avventure. Attraverso la macchina fotografica indaga il mondo e i suoi abitanti, i suoi scatti sono rivelazione e crescita personale. É proprio la sua passione che ha permesso a Ela di liberarsi dal pregiudizio e dall’imbarazzo, allontanando chi e cosa fosse d’intralcio al suo percorso. Eppure il rapporto con il suo corpo non è sempre stato così. Ela non ha problemi ad ammettere che il passato non aveva la sicurezza di oggi, che il giudizio sputato feriva come lame taglienti. Ciò che in passato nascondeva sotto una maglietta oggi lo mette in copertina. É la sua schiena lo scatto scelto per racchiudere il suo lavoro. EluEluElu parla di fluidità e di libertà, racconta storie di corpi che non vogliono rimanere in silenzio, corpi che emanano vita, che si fanno portale verso mondi inesplorati.

Ela ci parla del suo progetto e capiamo fin da subito che dietro a quei corpi si nasconde tanto di più. Ciascun corpo, dice, è un «guscio posto a divario tra il mondo esterno e quello interiore». I soggetti in foto non mostrano il proprio volto, spostano bensì l’attenzione di chi li sta guardando sui genitali. L’obiettivo che sta dietro a questa scelta è tutt’altro che semplice, perché «vuole essere un’esortazione a non vedere i corpi in compartimenti stagni, in ‘maschile’ e ‘femminile’,  individuando in ognuno le proprie unicità, conferendo così la possibilità di autodeterminazion, racconta Ela. 

I corpi scelti narrano storie da ascoltare a occhi chiusi perché non è importante chi ma cosa si decide di condividere. Negli scatti l’acqua appare come elemento costante. Dietro questa scelta non c’è solo il ricordo dell’infanzia spesa a Pescara. L’acqua, per sua natura, è un liquido in continuo mutamento, si adatta al recipiente che la contiene allargandosi e restringendosi a seconda delle esigenze. È proprio questo, secondo Ela,  quello che la comunità queer fa ogni giorno nel percorso di consapevolezza del proprio io. Per lui la comunità trans*, ci dice, è come l’acqua: è oceano, un mondo sommerso che non ha possibilità di emergere. Lo scopo di lavori come questi è apprezzare il proprio corpo e quello degli altri – senza giudizio o vergogna – celebrando l’unicità di ognuno di noi, raccontano di un mondo che a ogni emersione rivendica il diritto di autodeterminarsi. 

Il genere come performance 

In questo mondo solido, ingabbiato dalla dicotomia, anche Caterina Profico – come Ela – cerca di riportare tutto ad uno stato liquido, mutevole. La sua immagine diventa il suo personale campo di sfida per osare, trasformarsi, rompere queste norme che le sono state imposte fin dall’infanzia. Documentare queste “passeggiate”, come le definisce, all’interno dello spettro del genere è un modo per ricordarsi che è solo una performance, niente di reale o definitivo. É la filosofa post-strutturalista Judith Butler a coniare nel 1990 il termine “gender performativity” per spiegare come tutti noi, ogni giorno, scegliamo di performare un genere tramite norme sociali che passano in primis  per l’estetica. Le persone che scelgono di manifestare l’appartenenza al genere opposto, a nessun genere o ad entrambi, infrangono queste regole non scritte creando sgomento in una società ancora binaria. Fotografare se stessa e persone trans o non binary per Caterina è un modo per validare queste esperienze, ormai sempre meno rare ma ancora stigmatizzate. Senza pretendere di insegnare nulla, tramite i suoi scatti vuole dire ai suoi soggetti ti vedo, ti credo. L’autoscatto diventa un mezzo di indagine sul proprio modo di performare il genere, che a volte porta all’odio ma altre all’amore, perché il problema non è mai stato il suo corpo, ma quello che gli altri lèggevano in esso.

La storia dell’arte non è priva di esperienze di questo genere: all’inizio del XIX secolo Claude Cahun, nome d’elezione di Lucy Renée Mathilde Schwob, tramite la sua vita personale e i suoi autoscatti gioca con il concetto di genere. A volte sembra una maschera teatrale, altre un uomo, altre ancora nessuno dei due. Una provocazione, forse, in un periodo storico che non conosceva il concetto di genere. Mentre oggi si fanno piccoli passi avanti per l’inclusione di questa e altre esperienze all’interno delle manifestazioni artistiche contemporanee – le foto di Cahun sono state esposte alla Biennale di Venezia di quest’anno – è ancora raro trovarle nei musei “tradizionali”. Per questo, spiega Caterina, dar voce a storie queer è una dichiarazione politica. 

La scena queer a Roma

Anche per Sara Galletta arte e politica si intersecano: per lei scegliere a chi dare spazio nell’inquadratura di una macchina fotografica è un atto rivoluzionario. Ortonese di nascita, non ha ancora compiuto 23 anni ma la potenza dei suoi ritratti richiama un’intensità antica, a cavallo tra la fotografia staged di Annie Leibovitz e l’autentica quotidianità della scena queer romana.

La fotografia viene a bussare alla sua porta molto presto, quando, durante le feste in aperta campagna insieme a tutta la famiglia, si diverte a ritrarne i componenti, copiando le movenze del padre. Molti aspetti della sua vita sono cambiati da allora,  ma l’obiettivo – non solo fotografico – mette a fuoco sempre figure umane, persone, soggetti antropologici adagiati nelle loro vite di tutti i giorni, protagonisti di sistemi complessi come quello sociale. 

Scegliere di ritrarre la scena queer romana rientra in questo intento e ne amplifica motivazioni e risultanti, pensando al di fuori delle categorie binarie eterocisnormative, facendo particolare attenzione a non cadere nella rete delle rappresentazioni mainstream, filtrate e stereotipate. 

L’atto politico di Sara consiste in una pratica rara e preziosa: l’ascolto. Tra uno scatto e l’altro ci si conosce. Si sondano i confini delle proprie luci ed ombre, addentrandosi in quel paradosso obbligato che invita ad ascoltare una minoranza per non far sì che venga percepita solo in quanto tale. Osservando i suoi lavori si evince una polarizzazione tra set studiati al minimo dettaglio e attitudine da semplice osservatrice: quando le chiediamo di più rispetto a questa sua personale cifra stilistica Sara ci dice che è proprio questa postura che rende unico il suo operato: «ho bisogno di tempo, tempo per capire, per esplorare, per non precipitare nel semplicismo».

La complessità e l’assenza di certezze granitiche diventa un nuovo paradigma a cui fare appello, mostrando la potenza del dubbio davanti alla macchina fotografica, in primo piano. Una forza di cui l’artista è consapevole mentre ci descrive il processo della cosiddetta invisibilizzazione subita dalla comunità LGBTQIA+ in ambito artistico. Sara sceglie di lavorare per aumentare lo spazio che queste personalità occupano, diventando strumento in un processo che vede l’informazione come chiave per smettere di escludere e sotto-rappresentare le minoranze, riconsegnando uno spaccato di realtà concreta e personale, tangibile e intimistica.

Creare una narrazione artistica parallela a quella ufficiale, senza avere uno scopo né vincoli, è un’azione politica e rivoluzionaria. Un mondo privo di imposizioni basate sulla dicotomia di genere è ancora lontano, ma è possibile costruirlo anche attraverso l’espressione artistica, portando al centro del discorso narrazioni di corpi non conformi. Per questo è necessario raccontare storie come queste, le proprie e quelle altrui, affinché vivano anche in un futuro che, magari, saprà includerle nel circuito ufficiale del mondo dell’arte.

Articolo di Alessia De Santis, Giulia Sarlo, Aurora De Toffolis e Francesca Maria Lorenzin