L’hate speech continua ad essere un problema politico-sociale

Per mezzo delle parole definiamo ciò che la realtà riporta davanti ai nostri occhi sia nella sua essenza tangibile che astratta. Tuttavia, nel momento in cui cerchiamo di descrivere sensazioni intangibili conferendo loro un’immagine univoca comprensibile a tutti, i diversi linguaggi presentano delle limitazioni. Non a caso, stesse parole possono avere concezioni diverse nell’immaginario collettivo a seconda del tipo di linguaggio che viene utilizzato. Esempio lampante è il termine “integrazione”:in Germania ha un’accezione positiva, poiché si collega nell’immaginario collettivo al momento – percepito come felice – di incorporazione tra le due Germanie negli anni ‘90; al contrario, in Italia lo stesso termine ha generalmente una connotazione negativa, poiché produce nella nostra mente le immagini di sofferenza e dello “straniero cattivo che vive a spese nostre” a cui la nostra politica ci ha tanto abituato. Cosa vuol dire in Italia parlare di Hate Speech?

 

L’Hate Speech è la Neolingua del XXI secolo

Come mostra la Neolingua inventata da Orwell tra le pagine distopiche di “1984”, il linguaggio e la sua manipolazione hanno sempre ricoperto un ruolo fondamentale nella costruzione della realtà. Infatti, più volte Orwell si sofferma nell’evidenziare la convinzione secondo cui chi controlli la lingua possa controllare anche la storia raccontandola, manipolandola e riscrivendola a proprio piacimento.

 Inevitabilmente, i modi in cui la realtà ci viene raccontata influenzano la nostra visione del mondo e dunque il nostro pensiero.

Il nostro modo di dialogare, proprio come la ‘Neolingua’, sta subendo negli ultimi tempi un progressivo impoverimento del lessico causato sia dalle limitazioni dei caratteri sui social network – in quanto ciò che viene condiviso ha lo scopo di essere fruibile, semplice, breve e sempre più superficiale-  sia dai discorsi politici odierni, che assomigliano sempre più a pacchetti di parole d’odio preconfezionati e slogan standardizzati d’intolleranza capaci di generare  nei cittadini la rabbia quale unica emozione viscerale possibile.

Difatti, è proprio il linguaggio politico che, veicolato dai media e dai giornali, trasmette alle masse stereotipi e immagini stigmatizzate dando vita a quello che nel libro di Giuseppe Faso viene definito “il razzismo dei colti”.

Come afferma la ricercatrice  Matilde Brunelli dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, la narrazione del razzismo istituzionale si manifesta attraverso il discorso e tramite questo si diffonde e autolegittima, sfociando in pensieri collettivamente condivisi.

Questo tipo di narrazione discriminatoria ha una finalità sociale, politica e culturale poiché non solo giustifica comportamenti intolleranti nei confronti delle minoranze ma, al contempo, alimenta un senso di appartenenza al gruppo sociale dominante, evidenziandone i confini.

Nel corso dell’anno, la Rete Nazionale per il Contrasto ai Discorsi e ai Fenomeni d’Odio  ha realizzato la quinta edizione della Mappa dell’Intolleranza, un progetto ideato al fine di identificare,attraverso un’analisi accurata dei tweet ostili pubblicati tra marzo e settembre 2020, le zone geografiche in cui l’intolleranza è maggiormente diffusa. Lo studio ha sottolineato come ancora oggi, in Italia, una delle categorie maggiormente colpite dai messaggi d’odio sia quella dei Rom e Sinti.
Ernesto Calvanese, docente di criminologia presso l’Università Statale di Milano, afferma nel suo studio Media e immigrazione tra stereotipi e pregiudizi – la rappresentazione dello straniero nel racconto giornalistico  che «sembrerebbe che la comunicazione maggiormente cercata sia quella relativa alla criminalizzazione dello straniero di maggiore interesse sul piano dello scoop, al di là della tipologia di reato messa in atto» e sottolinea «la palese difformità dell’informazione tra cronaca criminale riguardante cittadini italiani e cronaca criminale relativa a stranieri».

E’ evidente che i media italiani trasmettano una rappresentazione costantemente problematica ed emergenziale  dello straniero in quanto tale; tendono a evidenziare l’opposizione tra due gruppi sociali- un noi e un loro- in cui uno gioca una parte attiva e l’altro passiva. Proprio come la ‘Neolingua’ privava i termini di qualsiasi significato offensivo nei confronti del Partito, la comunicazione pubblica priva le minoranze di connotazioni positive attraverso le quali i fruitori  possano sviluppare una propria capacità di discernimento. 

Il nostro sguardo non è neutro poiché siamo esposti a diverse narrazioni del mondo soprattutto da parte di chi ricopre una posizione di influenza. Per questo l’hate speech è pericoloso e provoca concreta sofferenza e violenza. I “discorsi nocivi” hanno infatti la capacità di ferire chi ne è vittima nella misura in cui influenzano il nostro pensiero e le nostre azioni.

 

Il confine mentale dello sguardo

Shahram Khosravi, professore di Antropologia Sociale all’Università di Stoccolma, parla di questa sofferenza e delle sue sfumature nel suo libro “Io sono confine”. L’opera è innanzitutto un’auto-etnografia: l’autore, avendo vissuto personalmente le difficoltà della migrazione dopo aver lasciato l’Iran della guerra contro l’Afghanistan,rilegge questa esperienza intima alla luce di uno sguardo antropologico attento e attuale. 

La vita e il lavoro di Khosravi sono una prova di come un ambiente sociale in cui dilagano discorsi d’odio e narrazioni superficiali contribuisca al diffondersi di credenze stereotipate sulle persone, rappresentazioni e identità sociali riduttive che sviliscono la dignità umana. L’immaginario collettivo è popolato da stereotipi pericolosi che pesano come una sorta di copione scritto su chi li subisce: questo per Khosravi è lo “sguardo di confine”; il confine nella mente delle persone come la frontiera più blindata e impenetrabile, sempre fuori dalla portata di chi cerca di attraversarlo. «Lo sguardo di confine non mi vede come individuo ma mi legge come tipologia», quella di migrante generico che è vittima, è criminale, è ospite in un’identità cristallizzata che impedisce l’autodeterminazione e il riscatto personale degli individui.  Gli effetti sono innanzitutto personali e psicologici, ma l’esclusione sociale e la discriminazione sono reali e invalidanti, diventando ostacolo concreto per la persona nel suo inserimento nel mondo del lavoro e dell’istruzione, nella sua partecipazione al tessuto sociale in generale.

La sofferenza psicologica e le difficoltà relazionali, l’esclusione e la discriminazione, sono solo una faccia della medaglia, infatti la violenza può arrivare ad estreme conseguenze: «Lo sguardo di confine è un’esperienza vissuta quotidianamente sulla propria pelle. Una forza formidabile, schiacciante e, a volte, letale. Il 21 ottobre del 1991 […] un razzista mi sparò in faccia». L’uomo che tenta di ucciderlo, fortunatamente fallendo, sarà poi conosciuto come “Uomo Laser” (Lasermannen), aggressore seriale che tra il 1991 e il 1992 uccise un uomo e ferì dieci persone. Si tratta di un figlio di immigrati tedeschi, vittima di bullismo per le sue origini: «Il suo odio per il suo passato di immigrato si era tramutato in odio per gli immigrati extraeuropei» e per Khosravi egli è il perfetto prodotto di una società in cui la xenofobia domina il dibattito pubblico. «Le aggressioni razziste dell’Uomo Laser non erano avulse dal contesto politico generale. Il killer era il prodotto dell’ostilità verso gli immigrati che dominava il clima politico svedese». Le sue vittime quindi sono scelte come rappresentanti di una categoria che gli è stato insegnato a riconoscere e odiare.

 

Zingaro e Rom: svestire le parole dagli stigmi

Un caso di cronaca che rievoca senza troppe difficoltà le vicende globali degli ultimi anni. In particolare l’Italia sta ancora facendo i conti con il suo passato fascista, che aleggia nelle parole d’odio, intolleranza e discriminazione urlate da chi si rifiuta di riconoscere e conoscere l’Altro da sé.

Non è un caso che il nostro Paese sia stato più volte richiamato dalla Commissione Europea per il linguaggio pregiudizialmente ostile, in particolare nei confronti delle minoranze Rom, Sinti e Caminanti. Comunità invisibili al di là dello stereotipo e per questo facilmente attaccabili. L’antiziganismo è infatti una delle forme più diffuse di razzismo europeo contemporaneo, così interiorizzato da essere dato per scontato.

Con l’indagine Se dico Rom… sulla rappresentazione dei cittadini Rom e Sinti nella stampa italiana svolta dall’associazione Naga nell’anno 2012-2013, sono stati analizzati gli articoli relativi a questa minoranza delle maggiori testate nazionali tra le quali Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, il Sole 24 Ore. Dall’indagine si è evinto che includere persone appartenenti alla comunità Rom in articoli riguardanti fatti negativi è un’abitudine molto diffusa in tutti i giornali: «vengono spesso associati a criminalità e degrado Rom e Sinti che compiono atti che non sono di per sé reato (come ad esempio lavarsi alla fontana) o che sono addirittura del tutto neutri (come passare in un luogo, camminare). A volte accade che la semplice prossimità con un luogo nel quale vivono dei Rom, li renda i primi sospettati di tutti i reati commessi in quella zona». 

Come evidenziato da Carlo Stasolla ─ Presidente dell’Associazione 21 luglio con osservatorio su 129 testate per monitorare la presenza di discorsi d’odio ─ l’aggettivo “Rom”, è spesso usato nel linguaggio comune per indicare violenza, povertà e ignoranza e racchiude al suo interno una vastità di etnie, culture e dialetti diversi. Di conseguenza Sinti, Caminanti, Manush, Romanicel e così via risultano invisibili, poiché privi di un proprio riconoscimento. 

Nel corso del tempo, anche il termine “zingaro”- antico e per questo ancor più radicato nei discorsi e nei pensieri – ha gradualmente assunto una connotazione negativa.
Noell Maggini, stilista sinto e membro del movimento politico “Kethane per i Rom e i Sinti d’Italia” ha confidato alla redazione di Scomodo che «quando i miei amici mi chiamano zingaro, a me piace essere riconosciuto come tale, ma ci sono persone che ne colgono solo il lato negativo. E’ una questione molto soggettiva. Alcuni aggettivi ti segnano potentemente per il modo in cui sono usati e ti fanno pensare. Io direi di non focalizzarci troppo su questo, altrimenti non potremmo più usare nessun termine».

La stigmatizzazione di questi gruppi etnici viene alimentata anche dall’utilizzo linguistico di espressioni formate da due o più parole in cui al ricorrere della prima si associa la seconda, creando un legame immotivato ma consolidato dall’uso, più che dettato da regole. Ne consegue, ad esempio, che anche il termine “campo” possa assumere una connotazione negativa se associato ad aree collocate ai margini delle città dall’amministrazione pubblica. L’ubicazione interna ma non integrata alimenta lo sguardo di confine di Khosravi.

Peraltro, l’appartenenza a una comunità altra rispetto a quella maggioritaria porta ad identificare la persona di etnia Rom, Sinti o Caminanti come straniero, immigrato e quindi “residente provvisorio” per definizione. Nasce quindi così la locuzione “campo nomadi” che relega, nell’immaginario comune, tutti gli individui appartenenti a queste comunità a un’apparente condizione di perenne nomadismo. Così questi luoghi─ come attesta Noell Maggini─ diventano «spade a doppio taglio, da una parte rifugio e dall’altra impedimento» perché le istituzioni preferiscono che siano visti come tali.
Per questo motivo i principali mezzi di comunicazione tendono ad affiancare al termine “campo nomadi” abitudini dannose, traffici loschi, sporcizia e caos, cosicché agli abitanti di questi spazi venga tolta ogni forma di dignità sociale.

A sostegno di quanto detto, non è neanche raro leggere e sentire di “corsi di alfabetizzazione” per indicare l’insegnamento dell’italiano, rimarcando il pregiudizio di un’incapacità nel leggere e scrivere, per lo più a causa di una presunta  mancata istruzione del soggetto appartenente alla comunità minoritaria.
Effettivamente il Romanes, la lingua madre delle minoranze in questione, non è una lingua scritta ma ciò non dovrebbe automaticamente essere sintomo di ignoranza o deficit intellettivi.
Lo sradicamento degli stereotipi discriminatori potrebbe risultare una battaglia difficile se le istituzioni non dimostrano di voler correggere determinate forme del loro linguaggio in cui l’identità di queste comunità è intimamente legata al fatto di essere una minoranza etnica.
Perciò, il discriminante etnico contamina anche i discorsi riguardanti la sfera sociale, nella quale dovrebbe essere ininfluente, tanto da diventare un sinonimo di “razza”.
In più, la comunicazione politica ha alimentato il processo di demonizzazione della povertà, instaurando negli individui una nuova forma di repulsione che la filosofa Adele Cortina chiama “aporofobia”, ossia rifiuto del povero. Tutto ciò non fa altro che rimarcare negativamente lo sguardo di confine di cui parla Khosravi.

 

Dimentica tutto ciò che ti è stato insegnato

Dare spazio e voce a chi subisce direttamente il linguaggio d’odio e la discriminazione che porta è un primo passo per rispettare questo principio fondamentale per il riconoscimento dei diritti umani di individui e comunità. Secondo Stasolla «lo stereotipo cade con l’incontro tra le persone», perché l’ascolto attivo permette di smascherare pregiudizi reciproci e non fossilizzare la cultura a monolitica e immutabile. Ci aiuta inoltre a capire i bisogni degli individui, i loro tentativi di riscatto e scelta della propria identità. 

Sia Stasolla che Maggini hanno sottolineato come d’altronde il mondo Rom e Sinti sia, per usare le parole dell’antropologo Leonardo Piasere, “un mondo di mondi” molto eterogeneo in cui nessuna definizione identitaria è accettata in maniera univoca. 

Tali riflessioni rivelano come spesso le categorie che usiamo per semplificare e ordinare la realtà che ci circonda siano, come le definirebbe il filosofo Wittgenstein,« vuote cornici che non sorreggono nulla», vuote in quanto spesso riduttive della complessità umana. Il linguaggio in questo senso è ancora una volta uno (s)nodo fondamentale, che rischia di soffocare chi ne è vittima. Come Stasolla ci fa notare, «la cultura è viva nella misura in cui si mescola e si perde» e le comunità Rom e Sinti sperimentano questa trasformazione nel momento in cui riescono a partecipare al tessuto sociale. Come queste comunità, chiunque subisca discriminazione ha il potere di agire per liberarsi dal pregiudizio, come imparare una nuova lingua e costruire narrazioni positive alternative intorno alla propria immagine e il proprio linguaggio; tuttavia è un lavoro che non può essere sufficiente se non viene intrapreso da tutti gli attori in scena, poiché chi detiene il reale potere è chi discrimina, e deve dunque essere il primo ad impegnarsi nella diminuzione di un fenomeno che nasce nel gruppo egemone a cui appartiene. La responsabilità di istituzioni e mondo dell’informazione è fondamentale in questo senso: c’è bisogno innanzitutto di un linguaggio pubblico più inclusivo e attento, consapevole del suo potere e che metta la persona  prima del titolo o dei termini “acchiappa-consensi”, poiché “più semplici”da comprendere per il grande pubblico. E’ infatti necessario uno sforzo collettivo – grande pubblico compreso – che sia teso a comprendere la realtà circostante nella sua completezza, per cercare di renderle onore con le più giuste descrizioni.

Rispettare il diritto all’autodeterminazione vuol dire quindi aprirsi a un reale incontro culturale, a una messa in discussione del proprio bagaglio di credenze e informazioni. In caso contrario, il rischio è alto: quando lo sguardo è carico di pregiudizi e disinformazione e il linguaggio è un’arma dolorosa, per citare Sartre, «l’inferno sono gli altri».

 

Articolo di Gaia Del Bosco, Federica Fiorilla, Federica Scannavacca, Margherita Vita e Sara Quattrocchi Febles