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I lavoratori di Amazon non restano a casa
Tra i pochi settori attivi a pieno regime c’è quello dell’e-commerce, e il comportamento del colosso di Seattle in Italia è preoccupante
Nella rapida successione di DPCM emanati dal premier Conte, in molti si sono chiesti quale sarebbe stato il destino dell’e-commerce. Una nota del Ministero dello Sviluppo Economico, nella mattinata del 26 marzo, ha risolto il dilemma: «Il commercio al dettaglio di qualsiasi tipo di prodotto effettuato via internet è espressamente previsto dall’allegato 1 al DPCM dell’11 marzo 2020 che continua a produrre i suoi effetti in quanto richiamato e prorogato fino al 3 aprile dal DPC 22 marzo 2020».
Negozi chiusi in tutta Italia, quindi, ma possibilità di acquisto praticamente illimitata online. E se si parla di e-commerce, inevitabilmente, si parla di Amazon. Quello che il colosso di Jeff Bezos sta facendo è reinventare perfino il concetto stesso di multinazionale: da azienda che opera in più Stati a colosso che opera al di sopra delle leggi e dei regolamenti nazionali, dotata della potenza di fuoco (questa sì, vera) per spingere i governi a legiferare – o a non farlo – per proteggere i propri interessi. Nei giorni scorsi era circolata molto la notizia che Amazon avrebbe imposto restrizioni sulle spedizioni, limitandosi ai prodotti di prima necessità. Annuncio che è stato velocemente disatteso: sullo stesso sito di Amazon viene specificato che «Le attività di Amazon continuano, ma i tempi di consegna potrebbero essere più lunghi del solito».
La vendita continua
Niente limitazioni, quindi, ma solo rinvii nel tempo. Anche perché, secondo quanto dichiarato da un rappresentante di CGIL Lombardia a Le Monde Diplomatique, la maggior parte dei prodotti ordinati non sono certo “beni di prima necessità”: “Cosa vedo nei carrelli? Smalto per le unghie, bombe da bagno, sex toys”. Alessio Gallotta è un funzionario della FILT Lombardia, che organizza i lavoratori iscritti in CGIL nel settore dei trasporti. “È stato dato spazio al messaggio, di cui siamo responsabili tutti come opinione pubblica, che se stai a casa barricato in quarantena e non ti arriva il pacchetto di Amazon ti cascano i capelli. Il volume degli acquisti si è impennato, la gente ha cominciato a comprare di tutto sulla piattaforma, dalla cover del telefono alla valigia per fare non si sa quale viaggio”.
Il tutto assumerebbe toni quasi grotteschi, se le proporzioni del problema non fossero così grandi.
Si parla di un’azienda che sta programmando l’assunzione di 100.000 nuovi dipendenti negli Stati Uniti e un aumento dei salari (circa 2€/ora in Europa e 2$/ora in USA) per far fronte al boom della domanda causa lockdown.
Un passo che può permettersi, visto il buon momento che sta vivendo in borsa: le azioni di Amazon hanno infatti perso solo il 5% da inizio anno, in linea con il rendimento dello scorso anno e di gran lunga meglio rispetto al crollo complessivo delle borse mondiali. The Economist, pochi giorni fa, ha già avvertito che “la pandemia avrà molti perdenti, ma ha già un chiaro vincitore: le grandi piattaforme digitali”.
“Se per i lavoratori il futuro è incerto, queste multinazionali saranno quelle che sopravvivranno meglio dello stesso sistema Paese italiano”, sintetizza Alessio. Se da una parte il settore della logistica è rimasto in funzione a pieno regime grazie al sistema di appalti, la stesso non si può dire per il sistema di magazzini/hub, dove lavorano tanto i dipendenti Amazon quanto migliaia di interinali. “Questo tipo di contratti riguarda moltissimi in Amazon”, ci dice Francesco Melis, funzionario politico in NIdiL (Nuove Identità di Lavoro), struttura sindacale interna della CGIL volta a tutelare i lavoratori atipici. Secondo un report di Business Insider Italia le somministrazioni, ovvero lavoratori “prestati” ad Amazon dalle agenzie del lavoro come Adecco o GiGroup, ogni anno sarebbero oltre 15.000. “Il ‘Cura Italia’ attinge a un fondo per garantire la cassa integrazione a questi lavoratori”, continua Melis. “In Amazon però c’è anche una percentuale rilevante di occupati con ‘monte orario garantito’, che in questo momento sono i primi a rimanere a casa oltre quel monte”.
I ritardi nel garantire la sicurezza
“C’è stato un prezzo da pagare affinché il settore della logistica rimanesse produttivo”. In Italia, Amazon conta quasi 7.000 dipendenti diretti, senza considerare il relativo indotto. Ma gli incentivi e le assunzioni promessi da Amazon hanno una loro precisa motivazione: rendere più appetibili per i lavoratori magazzini e luoghi di lavoro che non godono di alcuna protezione sanitaria. E che ad oggi potrebbero essere considerati i più pericolosi focolai potenziali di questa pandemia. “Nelle prime due settimane e più Amazon era in netto ritardo”, continua Alessio. “Abbiamo più volte richiesto le mascherine, non tanto per una questione formale e ‘d’immagine’ ma perché era sostanzialmente impossibile far rispettare la distanza di sicurezza in molti dei magazzini”. Il che è un paradosso. “Amazon è quell’azienda che in 24 ore ti può consegnare qualsiasi cosa ovunque. Sul proprio marketplace ha ogni tipo di DPI, dalle mascherine ai dispositivi per misurare la temperatura, e nonostante questo ci hanno messo settimane per farseli arrivare in magazzino ed implementare le proprie misure di sicurezza”.
Tra gli impianti più importanti di Amazon sul suolo italiano c’è quello laziale di Passo Corese, provincia di Rieti. Qui la CGIL (nello specifico NIdiL e FILT, ovvero la federazione dei trasporti) ha chiuso un accordo con i gestori dell’hub immediatamente dopo l’approvazione del Cura Italia e l’inizio di agitazioni relative alle carenti misure di sicurezza. Per evitare zone affollate si chiudono le zone “calde” (uno su tutti, il troppo piccolo bar esterno), si rimodellano i turni, si scaglionano le pause, si distanziano le postazioni. Ma un problema simbolo dell’emergenza persiste: “Venerdì 13 marzo ci erano state promesse le mascherine dispositivi con cui però diventa oggettivamente difficile svolgere l’attività di ‘pick’ e ‘pack’ ai soliti ritmi”, racconta a Scomodo un dipendente part-time dell’hub di Passo Corese, “e una settimana dopo non erano ancora arrivate”.
La strana gestione dei casi di COVID-19
Passo Corese è però anche tra i primi hub a registrare casi di COVID-19: una lavoratrice, assente in reparto da dopo il 22 marzo, è risultata positiva al tampone pochi giorni dopo e ha avvertito immediatamente i colleghi. Informazione non tempestiva, ma relativamente veloce e anche supportata dall’azienda con una nota.
Tuttavia, un secondo caso positivo è stato reso noto dall’azienda tanto ai lavoratori quanto ai sindacati il 9 aprile, 13 giorni dopo l’ultimo turno svolto (il 27 marzo) dal lavoratore in questione. “L’hanno annunciato, caso strano, esattamente alla vigilia del quattordicesimo giorno, ovvero quando termina il periodo di incubazione”, commenta lo stesso dipendente part-time.
Tali avvenimenti non si sono ripetuti altrove, ma per divulgazione immediata da parte del lavoratore in questione e dei sindacati.
Quello di Passo Corese, però, non è l’unico hub italiano ad aver riscontrato casi di contagio da COVID-19. Secondo La Stampa ci sarebbero almeno due casi di positività nello stabilimento di Torrazza Piemonte (Torino). Il primo si era registrato praticamente in concomitanza con l’inizio del lockdown, e la dipendente aveva accusato un malore proprio durante il suo turno di lavoro. Ciò aveva provocato uno sciopero dei lavoratori e un esposto in procura presentato dai sindacati, con l’intento di verificare se ci fossero le condizioni adatte a proseguire l’attività. Ma l’unico risultato ottenuto è stato una riorganizzazione degli spazi comuni come il bar e la sala fumatori. Il secondo caso è stato reso noto invece pochi giorni fa, il 9 aprile, e anche stavolta nell’annunciarlo l’azienda aveva fatto sapere che “il suo ultimo giorno di lavoro nel nostro centro di distribuzione è stato il 10 marzo”. Più confusa ancora la situazione in Lombardia: secondo il dipendente intervistato da Scomodo sarebbe recentemente stato confermato un caso di positività di un driver di Monza, mentre Rassegna Sindacale afferma che i casi segnalati sono molti di più ma poi spiega: “I sindacati hanno chiesto notizie, ma l’azienda non ne ha fornite”.
Articolo di Pietro Forti e Simone Martuscelli