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Alcune delle città candidate all’edizione 2021 della Capitale della Cultura italiana hanno lanciato un appello per far sì che Parma, nominata per il 2020 ma pesantemente penalizzata dall’emergenza COVID-19, resti Capitale anche per l’anno successivo. In modo da poter recuperare l’annata ormai compromessa. Ma cosa sono, in effetti, le “Capitali della Cultura”? In ambito europeo, l’idea viene nel gennaio 1985 a Melina Mercouri, allora Ministro della Cultura greco: l’idea si sviluppa rapidamente e prende piede già nello stesso anno. Si pone quindi presto il problema di determinare i criteri attraverso i quali scegliere di volta in volta le città ospitanti.
Viene stabilito che i paesi dell’UE ospiteranno a rotazione la kermesse, e che la commissione giudicante si componga di dieci esperti nominati in maniera più o meno paritaria dai vari organi dell’UE. I sei criteri da rispettare per le città che intendono presentare la propria candidatura sono: il contributo ad una strategia culturale a lungo termine; il contenuto artistico e culturale; la dimensione europea; la mobilitazione e sensibilizzazione; la capacità di portare a termine il compito. Nel 2014 Matera viene proclamata Capitale europea della cultura per il 2019. L’allora governo Renzi coglie quindi l’occasione di importare questa tradizione ormai trentennale, e istituisce nel decreto Cultura del maggio 2014 la “Capitale italiana della cultura”.
Nel caso della Capitale italiana della cultura la giuria si compone di sette elementi, scelti dal Ministro dei beni culturali e dalla Conferenza unificata Stato-regioni. Dando un rapido sguardo ai criteri, però, è possibile riconoscere come l’approccio dell’iniziativa portata avanti dall’Unione Europea abbia obiettivi diversi rispetto a quella italiana. Se nei criteri UE grande rilevanza assume un’integrazione sempre più pervasiva nell’infrastruttura europea (la “dimensione europea”) connessa all’intreccio di uomini e conoscenze in ambito culturale (la “strategia culturale a lungo termine”), il corrispettivo italiano è mirato maggiormente a uno sviluppo dell’area (all’inizio si parla di “valorizzazione del territorio”) per poi fare riferimento esplicitamente ad “incrementare il settore turistico” e alla “realizzazione di opere e infrastrutture di pubblica utilità destinate a permanere sul territorio a servizio della collettività”. Anche grazie al “fare uso di nuove tecnologie”.
Due modi diversi di vedere la cultura: legame sovranazionale contro volano per il turismo, entrambi con un occhio strizzato neanche in maniera troppo velata alla crescita economica.
Culture e contro-culture
I benefici economici della nomina a Capitale europea della Cultura cominciano a manifestarsi due anni prima dell’evento e non si esauriscono col termine dello stesso, ma anzi continuano ad avere rilevanza fino a cinque anni dopo. Il fenomeno principale da osservare da questo punto di vista è, ovviamente, quello del turismo. Parlando di dati, ad esempio, Marsiglia detiene il record di 11 milioni di visitatori con una riqualificazione urbana costata miliardi e un piano di investimento di 600 milioni per le strutture culturali.
È interessante guardare all’impatto sulle presenze turistiche sia nel breve che nel lungo periodo e notare come il programma abbia generato effetti positivi sulle città coinvolte: in media si è registrato un +8% di presenze turistiche anche nell’anno successivo alla manifestazione. Non sempre è così però: una ricerca sulle 34 capitali tra 1998 e 2014, a confronto con altre 800 città europee, rivela che l’aumento medio delle presenze alberghiere dell’anno dell’evento sfuma presto. Fino al 2011 solo quattro città ospitanti sono riuscite a rilanciare il turismo a lungo termine: Lisbona, Reykjavík, Tallinn e Bologna.
Gli investimenti necessari per la preparazione e lo svolgimento di questa kermesse sono stati spesso utilizzati per interventi di natura infrastrutturale tra cui, prevalentemente, l’ammodernamento dei beni culturali e delle infrastrutture del trasporto e la riqualificazione urbana. Questi investimenti si traducono anche in benefici per i settori coinvolti nell’indotto.Pertanto, a trarne vantaggio sono stati i cittadini della città e del territorio circostante, la cui qualità della vita viene incrementata sotto vari punti di vista. In passato, gli investimenti sono stati molto differenti di città in città. Le attività di realizzazione del programma culturale, la promozione e il marketing della manifestazione, i costi del personale e dell’amministrazione, danno un contributo allo sviluppo e alla creazione di nuove figure professionali. Le ricadute positive della manifestazione non sono esclusivamente di natura economica: spesso l’evento modifica permanentemente l’offerta e l’immagine della città ospitante.
Alla proiezione di un’immagine positiva verso l’esterno si è quasi sempre accompagnato uno sviluppo dell’identità culturale della città, un’accresciuta partecipazione dei cittadini e del loro senso di appartenenza, una maggiore apertura verso l’Europa. Elemento particolarmente evidente in quelle realtà caratterizzate da una forte presenza di comunità marginalizzate o gruppi etnici minoritari, in cui si è cercato di rafforzare il processo di inclusione e coesione sociale. Eppure, la retorica dell’inclusività spesso resta sulla carta: solo Lille inserì obiettivi sociali nel programma culturale piuttosto che trattarli come temi separati. A Sibiu, in Romania, le attese sul boom della crescita rimasero deluse.
È lecito chiedersi allora se le Capitali Europee della cultura favoriscano solo “Eventi culturali convenzionali collegati a istituzioni affermate e che riflettono i gusti culturali della borghesia”, come avvenuto a Stavanger (Norvegia). In molti casi, infatti, solo l’immagine turistica all’estero è valorizzata. In alcune Capitali della cultura sono nati movimenti di protesta per il conflitto tra l’identità culturale locale e la gestione del marketing: a Turku, in Finlandia, nel 2011 fu organizzato il contro-evento: “Capitale UE della controcultura”. Malgrado i vantaggi potenziali, allora, è importante essere realisti.Gli effetti vantaggiosi non sono automatici: l’iniziativa genererà tanti più risvolti positivi per il territorio, quanto più sarà vissuta non come semplice evento di natura culturale, destinato principalmente ai visitatori, ma come processo di sviluppo dell’intera città.
Tra i sassi
La designazione di Matera come ECoC ha acceso di grande entusiasmo e spirito di rivalsa una città fino a non troppi anni fa suggellata come “vergogna d’Italia”. Una buona governance, la partecipazione attiva dei cittadini, una spiccata creatività delle iniziative in programma e la dimensione europea del progetto: questi i criteri che Matera è riuscita ad esaltare per aggiudicarsi la nomina. La gestione del tutto viene subito affidata ad una fondazione di partecipazione, la Fondazione Matera-Basilicata 2019, con dirigenza di nomina politica. Viene pianificato un investimento di circa 457 milioni di euro per migliorare e riqualificare alcune connessioni viarie strategiche, rafforzare il servizio pubblico verso i principali poli urbani e favorire forme di mobilità.
Dopo due anni e mezzo lo stato di grave inadempienza spinge la giuria europea a manifestare preoccupazione “rispetto alla struttura della governance della Fondazione Matera 2019”. Disastro, quindi, sul fronte delle infrastrutture e dei lavori pubblici, come le linee ferroviarie Matera-Ferrandina e Matera-Gioia del Colle, o la scuola Bramante e il palasport di Lanera. La viabilità è rallentata a causa dello stallo del bando sui parcheggi. A salvarsi è solo la stazione centrale di Matera, realizzata a cura dell’architetto Stefano Boeri. Tutt’altra sorte ha avuto l’aspetto del turismo e della partecipazione, con risultati eccellenti: nel 2019 Matera ha registrato un aumento dei turisti stranieri del 44%, e si stimano circa 330mila accessi a quasi 1.250 eventi. Esemplare anche la risonanza dell’evento: 41 Paesi hanno parlato di Matera, e a ciò si aggiungono le produzioni televisive (oltre 1.300) e i social. Inoltre, secondo Lifegate, “l’intenzione della fondazione di coinvolgere i cittadini del territorio materano sembra essere riuscita, con la partecipazione di 18mila persone alle produzioni culturali”. Ma scavando bene si scopre che, in realtà, quasi tutto il peso del lavoro è gravato sulle spalle di circa 1500 volontari.
La Fondazione ha pubblicato solamente 12 avvisi pubblici, accumulando un personale totale di circa un’ottantina di operatori privi di competenze specifiche e selezionati attraverso criteri poco trasparenti. Come se non bastasse, la Fondazione Matera-Basilicata 2019 ha rendicontato spese mensili per personale pari a 250 mila euro. Costo allarmante che ha spinto la Confesercenti Provinciale di Matera a chiedere alla Fondazione di “poter conoscere meglio l’impiego di tali risorse pubbliche, […] considerando i risultati mediocri che i lavori della stessa Fondazione stanno apportando alla Città di Matera e alla regione Basilicata”. Risultati: uno spreco capitale, poca professionalità e cosa più grave la mancata possibilità di investire sul lavoro.
Nel palinsesto eventi, pensato intorno allo slogan Open Future, molto interessanti alcune proposte come la “Silentacademy”, con artisti e artigiani migranti che hanno curato la realizzazione di workshop e opere, ma anche le iniziative in ambito di sostenibilità ambientale. Tra cui l’artista Ha Schult, il quale ha voluto denunciare lo stato di degrado del Pianeta portando a Matera il suo esercito di mille “Trash people”, sculture antropomorfe in scala realizzate con i rifiuti che dal 1996 viaggiano nei luoghi più iconici del mondo. Una riflessione ambientale proseguita dall’iniziativa “Gardentopia”, che ha visto 3.800 persone partecipare alla trasformazione di zone urbane dismesse in aree verdi quali aiuole, giardini e orti in 26 comuni della Basilicata. Infine, la realizzazione di Magnet, l’hub di San Rocco, che ha sostituito un ex complesso monastico con un polo d’innovazione tecnologico e digitale.
Ma allora, quale sarà il rapporto tra Matera vecchia e Matera del futuro? La Matera che è stata presentata ai turisti del 2019 è più che altro una città vecchia impacchettata a nuovo. Quella scelta da Pasolini per il suo “Vangelo secondo Matteo” era una città simbolo di una realtà contadina, morsa dal sole meridionale, non intaccata dalla modernità e dall’omologazione urbanistica, di cui andare fieri. Bisognava adattare la visione europea a quella di Matera, non viceversa. Un anno che rappresenta un successo, dunque: ma che se spostato fuori da questo contenitore, lascia trapelare non pochi dubbi sulla visione occupazionale a lungo raggio e sull’integrazione strutturale tra città e cultura, tra il centro storico e periferie moderne.
Questo testo è un estratto di un articolo più ampio che si può leggere sull’edizione cartacea di Scomodo n.30 o a questo indirizzo.
Articolo di Cristiano Bellisario, Simone Martuscelli, Riccardo Vecchione