Il regista che non c’era

Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare il montaggio

Dove sono i binari?

“Non ho proprio niente da dire ma voglio dirlo lo stesso”. Si sbugiardava così il personaggio di Guido Anselmi in 8½, interpretato da un Marcello Mastroianni al suo massimo e ormai consacrato ad alter ego definitivo del genio che l’aveva diretto: Federico Fellini. Un leitmotiv apparentemente insignificante, canticchiato sovrappensiero, che va a perdersi nel marasma di voci di cui era satura la pellicola del ’63, ma di vitale importanza per comprendere l’opinione che Fellini aveva di sé e del proprio percorso filmico. Talmente significativa da diventare – nonostante il regista l’avesse coniata già da un po’ – la definizione più esatta della sua poetica, assumendo quasi un tono da curriculum vitae o da bio di LinkedIn: “Sono un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo”. Parole perfette per descrivere l’opera spartiacque di Federico Fellini, ma che in realtà possono essere inglobate in un discorso molto più ampio, riguardante diverse generazioni di registi coetanei (e non) dell’artigiano riminese, sparpagliati lungo tutto il secondo ‘900: quello sull’autorialità. Un concetto dal significato solo in apparenza oscuro, causa d’imbarazzo per tutti coloro che, alla richiesta di delimitare i confini del cinema d’autore, d’individuarne le regole d’ingaggio, v’inseriranno anche l’ultima arrivata fra le opere prime, a patto di essere un prodotto riuscito. Spesso confuso come il contrario del blockbuster, tacciato di non essere largamente fruibile e relegato a un pubblico di nicchia, il film d’autore assume invece dei connotati – a tratti meno inclusivi ma non per questo più elitari – che non hanno necessariamente a che fare con la sua qualità, ma piuttosto con la sua riconoscibilità. Per semplicità, vi basti un bizzarro quanto sagace esperimento mentale: immaginate di costringere dieci registi affermati – per maestria o per denaro – a girare ciascuno un film sullo stesso tema, per non dire sulla stessa storia; poi tagliate via dalle bobine sia titoli di testa che di coda, di modo che risulti impossibile risalire all’autore di ognuna; concludete il tutto mostrandoli a un pubblico ignaro, apparentemente incapace di intuire la mano dietro ciascuno dei dieci film. Quelli che faranno gridare al pubblico in sala il nome del corrispettivo regista, guadagneranno un posto fra le fila della filmografia d’autore. In questo è racchiuso il vero significato della citazione di Fellini: nella capacità d’imprimere alle proprie opere un distintivo taglio artigianale, una sequela di caratteri sempre riconoscibili ma mai replicabili o insegnabili – come accaduto per quei personaggi cosiddetti ‘felliniani’, entrati a tal punto nell’immaginario comune da infettarne anche il lessico. Quella “aspirazione a diventare un aggettivo” esplicitata dal loro creatore con una battuta, ma covata da qualunque regista che sogni di affermarsi nell’autorialità. Nel concreto poi, all’atto di coniare questo personalissimo marchio di fabbrica, la vecchia scuola sceglieva di concentrare i propri sforzi su aspetti come il taglio narrativo o la caratterizzazione dei personaggi – dagli inconfondibili thriller psicologici alla Roman Polanski alla comicità sfigata delle macchiette di Woody Allen – piuttosto che affidarsi esclusivamente a fattori tecnici come il montaggio o i movimenti di macchina. Una linea di condotta che però non sembra più contare per una fetta non indifferente dei cinematografari contemporanei, e la cui inversione di rotta sembra esser stata portata negli ultimi anni alle estreme conseguenze. Il panorama si è saturato di esercizi di stile e ‘piaceri per gli occhi’ – come una certa critica cinematografica definisce certe pellicole – mentre a scarseggiare più che mai sono i film di cuore, di contenuto, o (più banalmente) belli nella loro interezza. Ci si trova insomma di fronte a un vasto gruppo di registi/ferrovieri che, concentrandosi troppo sui comparti tecnici e ben poco su dei reali contenuti, “ha venduto i biglietti, messo in fila i viaggiatori, sistemato le valigie nel bagagliaio”, senza porsi la fatidica domanda con cui si chiudeva l’ennesima citazione di Fellini in riferimento a 8½: “Dove sono i binari?”.

 

Vecchi marinai nei porti sicuri

Come a Oriente così in altre parti del mondo, si sta assistendo all’ascesa vertiginosa di un Cinema che, appena albeggiato, sembra già gravido e prossimo allo zenit. Di contro, tradizioni cinematografiche più mature, per non dire senili – dal Nuovo Mondo al Vecchio Continente – sempre più spinte ad autoisolarsi nella gabbia dorata del perfezionismo stilistico, stanno subendo una battuta d’arresto. Una crisi che sembra fare, almeno per ora, meno vittime che superstiti, ma che sta cambiando la natura stessa dei film, già dotati di uno scheletro dalla impeccabile ossatura tecnica prima ancora che di un’anima originale. I film diventano contenitori vuoti dagli espedienti stilistici già decisi, nella sola attesa di una discreta storia da raccontare. Il mezzo finisce per schiavizzare il fine. I passeggeri sono già in carrozza, con la valigia nel bagagliaio e il biglietto in mano. Ma perché non ci sono i binari? Il campo delle risposte è vastissimo, per larga parte forse ancora imperscrutabile perché riferito a un fenomeno in continua evoluzione. Ma di fronte a un pubblico che, di stagione in stagione, ripone gran parte delle proprie aspettative nei titoli di grandi nomi attivi ormai da mezzo secolo, il problema della senilità – non per forza determinante – finisce per ricadere non solo sulla tradizione cinematografica occidentale tout court, ma anche sui registi che hanno contribuito a formarla. Immaginarli già con un piede nella fossa sarebbe un’esagerazione, perché a un confronto con le nuove proposte filmiche continuerebbero ad apparire come mostri sacri; ma di grandi registi apparentemente arrivati al capolinea, o comunque non più all’altezza del loro passato, se ne accumulano ogni anno di più: dopo l’insuccesso di Quello che non so di lei, Polanski si trova costretto ad abbandonare la familiare aura del thriller psicologico in favore della più gestibile cronaca storica de L’ufficiale e la spia; preso dalla smania insaziabile di sfornare una commediola all’anno, Allen non mette a segno un buon colpo dai tempi di Irrational Man; e tutt’intorno si inventano panegirici sulla capacità di Eastwood e Scorsese di tradurre la loro età anagrafica in ritmi filmici più placidi, per giustificare la lentezza di pellicole semplicemente stanche come The Mule e The Irishman. Tutti prodotti indiscutibilmente interessanti, senz’altro ricchi di spunti, ma le cui carenze di sceneggiatura spingono gli autori a rifugiarsi nel porto sicuro del comparto tecnico, di cui ne conoscono trucchi e segreti come le proprie tasche. Il tutto aggravato dalle pretese di un pubblico inclemente, che mal digerisce l’uscita dal seminato delle tematiche classiche dei registi, trasformando le loro cifre stilistiche in catene opprimenti, con gli effetti più diversi: dalla caduta nel dimenticatoio di Silence perché lontano dal classico gangster movie alla Scorsese, alla nascita di un recentissimo Eastwood anti-sistema con l’ottimo Richard Jewell. Ma il panico generato da un mancato ricambio, dalla paura cioè che una volta scomparsa, questa generazione di vecchi saggi della regia non venga sostituita da una nuova altrettanto valida, sembra non essere l’unica ragione, visto che ad adagiarsi sugli allori troviamo anche registi più giovani o addirittura alle prime armi. Fra questi, il premiatissimo Damien Chazelle di La La Land, un film elogiato per la sua eleganza visiva ma dalla sceneggiatura fondamentalmente piatta, ma anche veterani come Tarantino e Fratelli Cohen, che rispettivamente in C’era una volta… a Hollywood e Ave, Cesare! si sono concentrati minuziosamente sull’impatto scenografico non accorgendosi della frammentarietà delle trame. Un’intera, preoccupante sintomatologia che sembra colpire addirittura una certa fetta della critica internazionale, generando un pericoloso circolo vizioso.

 

Un serpente che si morde la coda

Da un po’ di tempo a questa parte, la critica cinematografica sembra mancare di autorevolezza, privata di quella voce preventiva che attraverso le proprie recensioni spingeva il pubblico ad andare in sala per guardare un film piuttosto che un altro. Letta ormai rigorosamente a posteriori, ricercata dallo spettatore non come fonte che debba interessarlo a un film, ma piuttosto istruirlo sugli aspetti specialistici e interpretativi a lui più ostici, la recensione smette di parlare col cuore e si abbandona ai più tecnici voli pindarici. Potrebbe trattarsi di un sintomo causato dal panorama filmico, che scarno di contenuti costringe la critica a parlare del solo comparto tecnico, non sortendo però lo stesso effetto sul pubblico. Stordito dall’impatto visivo del film, in un mondo in cui si inneggia al capolavoro con una facilità preoccupante, lo spettatore disimpara a valutare le ultime uscite in sala con la pacatezza dovuta: affetto da memoria a breve, inserirà l’ultimo, abbagliante exploit tecnico nelle varie classifiche dei Migliori Film del Decennio, salvo poi rimpiazzarlo, appena un anno dopo, con il successivo ritrovato. Perché un film che si fermi alla superficie può colpire a un primo impatto, ma senza regalare una sceneggiatura intrigante o un’interpretazione memorabile, finirà per annoiare sempre più a ogni nuova riproduzione; mentre a superare la prova del tempo sono molto più spesso quei cult – da Strade perdute di Lynch a Fight Club di Fincher – che inizialmente mal digeriti, vengono metabolizzati con gli anni. Ma potrebbe anche valere il contrario: che la critica, lungi dal subire passivamente i sintomi di questa malattia e ancora in diritto di distruggere o glorificare un film, spinga i registi a ricercare il facile encomio stilistico dimenticandosi di sceneggiatura e interpretazioni, diventandone la causa. Oppure creando l’illusione che l’unica via per proporre contenuti validi sia parlare di discriminazione razziale o sessuale, facendo leva sul finto progressismo delle giurie che a ogni nuova rassegna riempiono film come Green Book e La forma dell’acqua di candidature e premi. Un’infinità di punti che si ritrovano nell’ultima, chiacchieratissima promessa tecnica della stagione, 1917, analizzabile (anche qui) solo al prezzo di una recensione smembrata, costretta a snocciolare il film nei suoi compartimenti stagni perché impossibilitata a reperirne una generale coerenza.

 

Niente di nuovo sul fronte occidentale

Era dai tempi di Dunkirk che un film non fomentava così tante speranze nel quadro bellico della cinematografia di genere. Una pellicola gustosamente curata dal punto di vista tecnico, ma diventata comunque caso nobile rispetto all’andazzo generale perché in grado di rinnovare un’ambientazione storica già largamente sviscerata grazie a una struttura narrativa dalla temporalità originale, affidando ai continui giochi di analessi e prolessi tipici di Nolan la vera cifra stilistica del film. Cinque anni dopo, l’attesissimo tour de force visivo di Sam Mendes – aggiudicatosi tre statuette ‘tecniche’ agli Oscar – sposta l’attenzione dalla Seconda alla Prima Guerra Mondiale, raccontando altresì di una dimensione più privata rispetto a quel disastro strategico collettivo che fu l’Esodo di Dunkirk: una maratona a due. A una coppia di soldati viene ordinato di coprire quindici chilometri di territorio nemico ormai abbandonato – o presunto tale – nell’arco di una sola giornata, per impedire a un contingente di milleseicento anime di attaccare un fronte che non può sperare di spezzare. Nel documentare il tutto, Mendes si lascia affiancare da un gigante della Fotografia come Roger Deakins per creare un unico piano sequenza – fatto salvo un lungo stacco a mo’ di intervallo – che in termini di consequenzialità degli eventi surclassa addirittura il precedente di Birdman, facendo combaciare tempo della storia e tempo del racconto più di quanto fatto da Iñárritu. Un complesso artificio registico pensato per seguire i soldati lungo la linea del fuoco, ad altezza di proiettile, focalizzandosi passo dopo passo su ogni pozza, maceria o cadavere calpestati lungo quei quindici chilometri di devastazione. Perché si possa toccare con mano la sporcizia della guerra di trincea, rasentando frequenti sinestesie che ne facciano odorare persino il puzzo di fango e sangue. Inoltre, concentrandosi su un lasso di tempo così breve, e potendolo quindi sviscerare in ogni suo istante, Mendes porta a casa un ulteriore risultato, imparando dalla lezione di 2001: Odissea nello spazio. Un film inattaccabile al quale il grande pubblico ha sempre e solo potuto imputare l’eccessiva lentezza, frutto invece della scelta deliberata di Kubrick di abolire la più grande menzogna raccontata fino ad allora dalla fantascienza in merito ai viaggi interstellari: che fossero rapidi, frenetici e ricchi d’azione. Allo stesso modo, facendo sudare allo spettatore ogni centimetro guadagnato dai due soldati, Mendes rinuncia allo spasso visivo di un conflitto lampo in favore del lento arrancare della guerra di logoramento. Il verismo bellico è in apparenza ai massimi storici, e raggiunge il suo picco quando il duetto si trasforma in canto solista, declassando l’intoccabile protagonista a milite pressoché ignoto, liquidandolo con una frase che suona come epitaffio funebre: “Era un brav’uomo, raccontava storie divertenti, mi ha salvato la vita”. Niente di più, niente di meno. Ma questo realismo così tanto ricercato rischia, ancora una volta, di cadere sotto i colpi degli sfarzi della tecnica. Senz’altro in grado, con il suo rivoluzionario piano sequenza, di spostare un po’ più in là il fronte dei comparti tecnici, Mendes si arrischia però verso il baratro del virtuosismo barocco, ricadendo come i suoi protagonisti nella trappola della superbia. I primi problemi si intravedono nelle interpretazioni: frugali, spiccie, mai solcate da un’espressione che sia specchio dello stato emotivo reale dei due soldati. Vincolati dalle esigenze del piano sequenza unico – il cui impercettibile montaggio ha comunque richiesto di sostenere lunghe scene senza stacchi di camera – i due interpreti, ancora alle prime armi, si trovano di fronte a una prova attoriale non facile, che infatti non sembrano riuscire a sostenere. Tuttavia, se l’atmosfera ruvida e anaffettiva della guerra può giustificare delle interpretazioni spigolose, lo stesso non vale per gli altri passi falsi compiuti in 1917. Innanzitutto, quella smania insaziabile di frapporre una serie interminabile di ostacoli – come di fortunosi imprevisti – fra i due soldati e la loro meta, perde di credibilità e si trasforma in mania di persecuzione. Ogni dettaglio sembra costruito ad hoc per far precipitare sulle loro teste tutti i tuoni, fulmini o persino aerei di un’intera guerra mondiale. Ma anche le situazioni fortuite si accavallano in modo poco plausibile: quel secchio di latte appena munto – lasciato incustodito a fianco dell’unica mucca salvatasi miracolosamente dal massacro del bestiame lungo la ritirata – di cui guarda caso un neonato ne avrà bisogno, dopo un’ora di bobina, nei luoghi più impensabili e disabitati. Alla conta dei feriti insomma, la tanto pubblicizzata intenzione di far sentire lo spettatore come il terzo commilitone, eliminando la finzione filmica del montaggio grazie al piano sequenza ininterrotto, viene vanificata dalla mano pesante di una scenografia troppo invasiva, che letteralmente sparge petali lungo il cammino un attimo prima del passaggio della cinepresa. E la storia di guerra uguale a mille altre che il regista si era ripromesso di documentare silenziosamente, senza fronzoli o artifizi, viene dirottata lungo una linea narrativa e spaziale fin troppo prestabilita. Il film incarna quindi l’emblema di una sceneggiatura completamente asservita alla tirannia del comparto tecnico, che raggiunge il suo climax nella scena notturna della cittadella. Un’ambientazione visivamente impressionante per quei suoi giochi di luce a raggera ottenuti grazie all’uso di flare e di un costosissimo impianto di duemila lampade al tungsteno alto cinque piani, il tutto per mostrare pochi fotogrammi di una chiesa data alle fiamme. Ma il conto salato di questo sfarzo visivo è presto servito nella scena successiva, quando i rintocchi di un campanile eroso dal fuoco fino a un attimo prima entrano in contraddizione con quanto appena visto, vanificando un espediente di notevole importanza ai fini della consecutio narrativa. L’ennesima disattenzione di un film dai contenuti disordinati, che rischia di far dimenticare la reale statura registica di Mendes, nonché di farlo passare in modo abbastanza impietoso – volendo rispolverare vecchie definizioni aristoteliche – per uno di quei “pugili inesperti che vanno scorrazzando qua e là e vibrano sovente buoni colpi ma senza rendersene conto”.

Articolo di Carlo Giuliano