Per accessibilità si intende la capacità di fornire informazioni fruibili a tutti, inclusi coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie assistive o configurazioni particolari. Abbattere le barriere alla fruizione dei contenuti è il primo passo per permettere a più persone di partecipare e contribuire al cambiamento.
Per questo noi di Scomodo stiamo cercando di inserire strumenti che favoriscano la lettura e la navigazione del nostro sito a quanti più utenti possibile.
Cosa stiamo facendo? Stiamo cercando di migliorare sempre di più l’accessibilità delle informazioni e delle interazioni anche per chi ha necessità particolari: come ad esempio chi può navigare solo con la tastiera, oppure chi ha difetti della vista o disturbi del neurosviluppo che riguardano la capacità di leggere.
Un menu laterale, sempre visibile, ti permette di modificare la visualizzazione della pagina in modo da facilitare la navigazione a seconda delle tue esigenze:
Hai trovato difficoltà? Puoi scrivere a tancredi@leggiscomodo.com.
Il tuo aiuto ci fornirà ulteriori spunti per migliorare l’accessibilità del nostro sito.
Chiudi
Immigration Nation, da entrambi i lati del confine
Riflessioni dalla docu-serie che ha sconvolto gli Stati Uniti
Il 20 gennaio 2021, il neo-presidente Joe Biden si è insediato alla Casa Bianca e nelle prime 24 ore del suo mandato ha firmato 17 ordini esecutivi tramite i quali, tra le altre cose, ha sospeso la costruzione del muro “anti-migranti” al confine con il Messico, annullato i Muslim Bans introdotti da Trump, ed esteso il DACA program (programma introdotto da Obama e boicottato da Trump che tutela l’immigrazione illegale in età infantile). Quattro anni prima, nel gennaio 2017, il neo-eletto presidente Trump aveva firmato un decreto per l’allontanamento di tutti i clandestini, imposto l’assunzione di 10.000 nuovi agenti per i controlli all’immigrazione ed emanato l’Executive Order 13769 (il primo di tre atti presidenziali con cui l’amministrazione Trump restrinse l’ingresso negli Stati Uniti per i cittadini provenienti da alcuni paesi a maggioranza musulmana). L’immigrazione, quindi, potrebbe risultare uno dei temi principali di distinzione tra la 45esima e la 46esima presidenza statunitense. Nonostante il nuovo disegno di legge rappresenti per molti una boccata d’aria, una svolta radicale potrà dirsi compiuta solo quando le politiche di arresto, detenzione e deportazione saranno riformate. L’amministrazione Trump si è infatti distinta per logiche tanto repressive, quanto rivoluzionarie in un settore già fragile e lacerato, lasciando cicatrici profonde difficili da dimenticare. In questo scenario entra in gioco Immigration Nation che, attraverso un dettagliato racconto, si impegna a non lasciare nel dimenticatoio la realtà oltreoceano del XXI secolo, raccontando le pratiche diffuse in ambito migratorio durante l’amministrazione trumpiana.
Gli States si guardano allo specchio
La docu-serie firmata Netflix è il risultato del lavoro dei registi Christina Clusiau e Shaul Schwartz a stretto contatto con agenti di servizio dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement’s),immigrati clandestini, attivisti, avvocati e politici. Immigration Nation indaga e si interroga sull’inclusione dei migranti negli Stati Uniti del ventunesimo secolo, adottando una strategia narrativa fondata su rappresentanza e integrazione di plurime prospettive. Non è un programma che vuole rassicurare, né accusare, bensì raccontare l’operato dell’agenzia federale statunitense responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione. Il merito della serie, che si sviluppa in 6 episodi di circa un’ora, è l’apparente inconsapevolezza e neutralità dei registi, che hanno deciso di lasciar parlare la stessa realtà dei fatti. La telecamera segue silenziosamente le vicissitudini narrate e tale assenza di una voce fuori campo obbliga lo spettatore a seguire in modo vigile e critico scena dopo scena. Tuttavia, sarebbe un errore pensare che l’assenza di una voce narrante corrisponda all’assenza di un filo conduttore.
La mobilità umana verso gli USA tra tradizione e disincanto
Il titolo “Immigration Nation” accosta due termini tradizionalmente legati agli Stati Uniti in quanto “terra di immigrati” per eccellenza, rimandando a fenomeni culturali quali l’American Dream e alla romanticizzazione di luoghi come Little Italy. “Sogno americano ti sei rivelato essere falso e l’immigrazione mi tiene sotto sorveglianza” è ciò che canta un uomo in spagnolo come colonna sonora del secondo episodio, spingendo lo spettatore a rivalutare l’interpretazione più immediata del titolo. Nella realtà mostrata durante gli episodi, l’immigrazione non appare come un fenomeno strutturale e normalizzato da parte del tessuto sociale statunitense, bensì come un evento emergenziale che spesso contrasta e minaccia il concetto di nation e sovranità. Dall’11 Settembre 2001, l’immigrazione clandestina ha subito un processo di rivalutazione legale, giuridica, sociale ed amministrativa. La propaganda politica a stampo nazionalista ha ridisegnato i confini, soprattutto quello tra Stati Uniti e Messico, come luoghi tramite i quali masse di immigrati riescono ad infiltrarsi in territorio straniero, potenzialmente minacciando la sicurezza interna e destabilizzando gli equilibri etnico-culturali ed economici. Le politiche restrittive riguardanti l’immigrazione sono un elemento ricorrente nella storia politica americana e il ricercatore Mathew Coleman, in un articolo del 2007, individua due fasi cruciali nel processo di criminalizzazione della mobilità umana. In primis, dagli anni ‘90 il corpo legislativo di Washington ha vincolato i controlli dell’immigrazione al diritto penale, trasformando un’accusa criminale di qualsiasi grado in un motivo valido per la deportazione di un migrante, senza bisogno di appellare ulteriori revisioni giudiziarie e costituzionali. In secondo luogo, il corpo esecutivo delle leggi sull’immigrazione è stato gradualmente subordinato dalle agenzie federali ad agenzie delegate (come l’ICE). Il risultato è una politica sull’immigrazione che opera paradossalmente attraverso la legge, ma al contempo separatamente e al di fuori della stessa, statuendo uno stato di emergenza perenne.
Guardando la serie, lo spettatore non trova risposte assolute, ma un susseguirsi di prospettive talvolta contrastanti, ma pur sempre complementari. Infatti, da un lato, sembra che la vita degli agenti di polizia e quella degli immigrati clandestini, siano due facce della stessa medaglia. Se da un lato un agente dell’ICE afferma: “Ci siamo abituati ad essere chiamati ‘nazista’, ma io amo il mio lavoro, guadagno bene e mi garantisce una vita stabile”; dall’altro lato, una giovane coppia di immigrati in contrapposizione asserisce “non vogliamo avere figli da fuggitivi. Anche per questo non ne abbiamo mai avuti”. In queste testimonianze, la ricerca di una tranquillità permanente sembra essere ciò che accomuna anime distanti. Dall’altro lato, un senso di alienazione sociale allontana queste due facce della medaglia, sostituendo le persone al ruolo che rappresentano: “Di solito ci occupiamo della schedatura, quindi andare sul campo per noi è godimento”, nelle parole di questo agente echeggia un senso di indifferenza della condizione umana dei clandestini che li rende personaggi di un gioco, la cui vita rappresenta il “campo” di divertimento degli agenti dell’ICE. La logica sottostante alle attività condotte dall’ICE è presentata attraverso la ricorrenza di commenti riassumibili con le parole di un agente che afferma: 00“Non riesco proprio a capire perchè lo devono fare in maniera illegale”. Tale mancanza di compassione, legittimata da un comportamento ritenuto illecito, non trova fondamento nel diritto internazionale e dimostra quanto fluido e malleabile sia il concetto stesso di illegalità. Infatti, la Convenzione di Ginevra del 1951, il cui Protocollo del 1967 è stato ratificato dagli Stati Uniti, sancisce l’obbligo per gli Stati ratificanti di proteggere i rifugiati e vieta il respingimento dei suddetti verso i territori in cui loro vita o libertà possa essere minacciata per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o politico. Anche l’ordinamento interno statunitense riconosce il diritto a richiedere asilo e il conseguente obbligo dello stato ricevente di valutare ogni singola richiesta di protezione internazionale. Eppure, Immigration Nation mostra scene di persone in coda, respinte al confine o ammanettate e messe all’angolo da armi, trattamento destinato perfino a bambini di età infantile, come ripreso da un attivista nel quinto episodio.
Da un punto di vista sociale e culturale, le immagini e le interviste raccolte all’interno del centro di detenzione di El Paso (Texas) mostrano il processo di criminalizzazione dei migranti nella sua concretezza. Il responsabile del centro lo descrive come “molto diverso da una prigione”, ma le telecamere riprendono una realtà discordante da quanto proferito: pile di letti ammucchiati, divise asetticamente uguali e scioperi della fame al grido di libertà. Tra i più di 50,000 detenuti ogni anno a El Paso si presenta Berta, un’anziana signora scappata dal Messico, in seguito a minacce di morte, e la cui richiesta di asilo viene respinta, separandola definitivamente dalla nipote con cui era fuggita e che da quattordici anni rappresentava il suo intero nucleo famigliare. Sebbene la detenzione sia considerata dal diritto internazionale una decisione da prendere solamente in ultima istanza quando non si presentano alternative e per la sola durata necessaria a valutare la richiesta di protezione, al tempo delle riprese la signora Berta è detenuta da diciassette mesi in un manifesto stato di vulnerabilità emotiva, dettato anche dall’età avanzata che sembra essere passata del tutto inosservata.
L’ostracismo di Trump (e non solo) di fronte alla banalità del proprio male
Da un punto di vista tecnico e professionale, Immigration Nation è il risultato di lunghe negoziazioni avvenute tra i registi e l’amministrazione Trump riguardo alla possibilità di seguire l’operato dell’ICE dal 2017 al 2019. Agli occhi dell’ex-presidente USA, la serie si presentava come un ottimo potenziale veicolo per divulgare l’efficienza dell’agenzia che gestisce l’immigrazione e la risolutezza delle nuove leggi. Dopo tutto, la questione migratoria è stata il cavallo di battaglia dell’amministrazione Trump, perchè non esibire i risultati di questa apparente grande guerra e mostrare la potenzialità dell’ala repubblicana nel combattere “l’illegalità”? Il contratto firmato tra il governo e i registi assicurava un rilevante grado di indipendenza giornalistica, pur concedendo agli agenti ICE la possibilità di revisionare le scene prima della pubblicazione. Nonostante ciò, una volta terminate le riprese, l’ex amministrazione repubblicana ha fortemente osteggiato l’uscita della serie, chiedendo di posticipare l’uscita a dopo le elezioni o di eliminare alcune parti. Non si esclude che tale opposizione derivi dalla presa di consapevolezza di quanto sia scomoda e controversa la realtà che si intendeva non solo presentare, ma addirittura promuovere. Servendosi di minacce legali e della richiesta di censura, l’ostruzionismo di Trump ha avuto l’effetto contro-produttivo di avvalorare la tesi sostenuta dalla serie: i muri non sono solo fisici. Il 3 agosto 2020 la docu-serie è approdata finalmente su Netflix che, vedendo più di 180 milioni di abbonati ha portato la narrativa rivoluzionaria di Immigration Nation nelle case di moltissime persone. In particolare, la docu-serie ha sconvolto quella parte del pubblico di massa statunitense non abituata ad assistere alla decostruzione di ciò che fino a quel momento era visto solo come il risultato di desiderate promesse politiche. O per lo meno, non su piattaforme streaming di massa. Infine, per effetto della già citata coralità narrativa, i riflettori di Immigration Nation hanno messo in difficoltà anche attori cruciali, ma spesso esclusi dalla narrazione delle migrazioni. Il quarto episodio, ad esempio, ruota più o meno direttamente attorno a Tommy Hamm, commissario del primo distretto di Bay County e proprietario di Winterfell, una compagnia edile che opera a Panama City (Florida), area nota per l’alta domanda di lavoro stagionale dovuta alla frequente presenza di forti uragani che distruggono le costruzioni presenti. Tra cittadini statunitensi che desiderano avere una casa nuova con urgenza e immigrati clandestini disposti a lavorare senza tutele pur di riuscire a maturare sostanziose rimesse e vedere al più preso le famiglie che si sono lasciati alle spalle, la Winterfell opera in una dinamica iniqua e proficua. Dopo la pubblicazione, i registi sono diventati oggetto di accuse da parte di Hamm a causa delle scomode verità riportate che coinvolgono non solo l’imprenditore stesso, ma anche la Corte dinanzi alla quale viene portata la questione grazie al contributo di un’organizzazione che sostiene i diritti dei braccianti, Resilience Force.
La speranza appesa all’imprevedibile filo politico
Dalla recente decisione di Biden di statalizzare il business delle prigioni federali al respingimento dei veterani, dalla separazione forzata delle famiglie all’arbitrarietà dei criteri dei rimpatri, il filo conduttore degli avvenimenti mostrati in Immigration Nation è la costruzione di un sistema burocratico all’interno del quale ognuno è consapevole solo del piccolo impatto che produce, ma distante dalla paura e dal trauma prodotto dal sistema stesso. Siccome la genialità del male risiede nella sua istituzionalizzazione, è necessario un processo di ricontestualizzazione normativa e giuridica del fenomeno migratorio nel suo complesso. Tuttavia, nell’attesa che gli ostacoli più grandi siano valicati e un cambiamento effettivo prenda piede, ci si chiede se i già citati recenti ordini esecutivi, o il volto di Kamala Harris ripreso nel primo episodio tra una grandissima folla di manifestanti in protesta contro l’ICE, o ancora la presenza di democratici come Alexandria Ocasio-Cortez e Bernie Sanders, ma soprattutto la vasta fruizione di una serie come Immigration Nation, non siano forse i primi passi verso una de-politicizzazione e de-sloganizzazione della mobilità umana. Per ora non resta che aspettare e auspicare che in cambiamenti in corso vengano indirizzati verso percorsi maggiori.
Articolo di Federica Rossi e Aurora Grazioli