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IN ALTO MARE

Eni, fondi europei, progetti con le università:
l’offshore in bilico tra tutela ambientale e la realtà
delle estrazioni al largo delle coste italiane

di Edoardo Anziano e Marta Bernardi

Ogni sette anni, fin dal 1994, il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca promuove interventi finanziati dai Fondi Strutturali Europei, «al fine di rafforzare il sistema dell'istruzione e della formazione». Nel 2014 è partito il Programma Operativo Nazionale Ricerca e Innovazione (PON) per «favorire il riposizionamento competitivo delle regioni più svantaggiate». Si tratta di progetti molto importanti – la «dotazione finanziaria» ammonta a quasi 1,2 miliardi di euro – suddivisi in 12 «ambiti di applicazione», fra i quali spiccano la chimica verde, la mobilità sostenibile e l'economia del mare.

Riconvertirsi con poco


I progetti PON fanno gola a molte aziende, e fra queste c'è sicuramente Eni. La multinazionale italiana del petrolio è partner, insieme ad attori pubblici dell'università e della ricerca, del progetto PON PlaCE, finalizzato alla «Conversione di Piattaforme Off Shore per usi multipli eco-sostenibili». L'ammontare del contributo MIUR per l'intero progetto (della durata di 30 mesi) è 4.375.988,85 €: una cifra considerevole, che dovrebbe andare a finanziare l’ambizioso tentativo di «lasciare il fondale marino come è stato trovato», evitando di smantellare le piattaforme offshore in modo da preservare le comunità marine che prosperano intorno alle strutture di estrazione. La consapevolezza è che «le piattaforme [...] stanno terminando la loro fase operativa in molte aree del mondo»: in quest'ottica PlaCE, viene descritta come «un'importante opportunità per modificare l'approccio al mare e allo sfruttamento delle sue risorse “business as usual”». Quale miglior modo se non affidarsi a un «grande partner industriale del settore oil & gas»? E poco importa se, come ha denunciato Legambiente nel suo dossier «Enemy of the planet», il Cane a sei zampe è lanciato «verso un futuro di espansione delle estrazioni di petrolio e di gas, che riserva alla fonti pulite solo briciole di investimenti».


La presenza della compagnia petrolifera nazionale all'interno del progetto PlaCE sembra essere piuttosto ingombrante. Molti dei principali partner coinvolti, infatti, presentano rapporti con Eni. L'Alma Mater di Bologna ha firmato un accordo quadro triennale nel giugno 2017, dal valore totale di 5 milioni di euro. Anche l'Università degli Studi di Napoli Federico II, che con Eni aveva già «collaborato nell'ambito dell'estrazione petrolifera» ha siglato, nel 2018, un «accordo di collaborazione» della durata di tre anni. E ancora, un altro accordo quadro lega l'azienda dell'oil&gas a INSTM (Consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e Tecnologia dei Materiali) fino a settembre 2020. Questa rete di collaborazioni strategiche permetterà, a detta della stessa Eni, di «traguardare lo sviluppo sostenibile». Una così capillare pervasività dell'azienda guidata da Claudio Descalzi all'interno di un bando pubblico, finanziato con soldi pubblici, pone però forti dubbi sulla libertà della ricerca e sul beneficio collettivo di un tale progetto.

Molti dei principali partner coinvolti presentano rapporti con Eni. L'Alma Mater di Bologna ha firmato un accordo quadro triennale nel giugno 2017, dal valore totale di 5 milioni di euro


Nonostante tutto, PlaCE non sembra sollevare perplessità, al punto che alcuni media, come TeleAmbiente, magnificano il progetto come «programma [...] per trasformare i pozzi dismessi in oasi di biodiversità». In realtà la situazione, per l'ecosistema su cui l'estrazione in mare di gas va a impattare, è molto più preoccupante. Per quanto riguarda l'Emilia-Romagna, delle 47 trivelle entro 12 miglia dalla costa (la maggior parte delle quali di proprietà dell'azienda di San Donato Milanese) è preponderante il numero di impianti la cui concessione «arriverà a scadenza naturale l' 01/01/2027» o per i quali «è già stata richiesta una proroga». Segno che, comunque, c'è interesse a continuare lo sfruttamento dei giacimenti adriatici. Non importa se questo «numero enorme» di impianti estrattivi, come denuncia Legambiente, è la principale causa di «abbassamento del suolo dovuto alla perdita di volume del sedimento nel sottosuolo». Eni ha avviato un «piano di decommissionamento che riguarda 33 strutture per circa 150 milioni di euro in tre anni», ma si tratta di spiccioli per una multinazionale che nel 2019 ha fatturato 69,9 miliardi di euro; altro che «impegno non irrilevante».


«A Ravenna, la cozza locale, nata e cresciuta sulle piattaforme Eni, tutelata dallo speciale sistema di protezione di questi siti, è divenuta una specialità culinaria a cui è dedicata una festa che si tiene ogni anno a fine giugno». Queste parole, tratte ancora dal sito d'informazione ambientalista TeleAmbiente, potrebbero facilmente pensare a uno scherzo. Basterebbe anche solo leggere la scheda informativa del progetto PlaCE per capire che «l'impatto delle attività di rimozione [dei siti offshore] è ancora sconosciuto» e che, di conseguenza, niente giustifica scientificamente la salubrità delle cozze "made in Eni".

Anzi, analizzando il rapporto di Greenpeace «Trivelle fuorilegge» (2016), si rimane sconcertati: «i sedimenti nei pressi delle piattaforme – si legge – sono spesso molto contaminati» e «l'analisi dei tessuti dei mitili prelevati presso le piattaforme» mette in evidenza i rischi per la catena alimentare umana. «I risultati mostrano che [...] per questi organismi (appartenenti alla specie Mytilus galloproncialis [la comune cozza appunto!, ndr]), circa l’86% del totale dei campioni analizzati nel corso del triennio 2012-2014 superava il limite di concentrazione di mercurio». Ma c'è di più: «circa l’82% dei campioni di mitili raccolti nei pressi delle piattaforme presenta valori più alti di cadmio rispetto a quelli misurati nei campioni presenti in letteratura; altrettanto accade per il selenio (77% circa) e lo zinco (63% circa)». I rischi per la salute sono evidenti, se pensiamo che «molti metalli, presenti nei tessuti dei mitili, possono raggiungere l’uomo risalendo la catena alimentare».

Formazione al largo

Nel 2015 Eni Corporate University inizia la sua collaborazione con l'Università di Bologna nella città di Ravenna nel campo della formazione nell'ambito dell'ingegneria offshore. Inizialmente viene istituita una winter school sul tema, poi nel 2016 arriva l'attivazione di un curriculum specifico all'interno della magistrale in Ingegneria energetica. Il percorso culmina nel 2018, con l'attivazione della laurea magistrale internazionale in Offshore Engineering, grazie all’accordo tra Eni corporate University e Alberto Montanari, direttore del dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali. Questa laurea diventa così un unicum nazionale e vede la partecipazione del maggior partner commerciale ravennate, Eni, al percorso di studi attraverso l'erogazione di lezioni, seminari, co-docenze, seminari, tirocini e analisi di casi. Eni non è l'unica azienda a fornire supporto al corso di studio ma è senza dubbio la più grande e la più indicativa.


Massimo Culcasi, vicepresidente per le relazioni con le istituzioni formative di Eni Corporate University sostiene che questa laurea «rappresenti per Eni un fattore strategico per garantire il presidio di competenze necessarie a gestire le sfide future del settore energetico»; nella descrizione del corso di laurea si parla di «formare professionalità indirizzate verso i settori industriali impegnati nella valorizzazione delle risorse energetiche convenzionali e rinnovabili [...] verso attività relative alla valorizzazione delle risorse biologiche in un contesto di sostenibilità ambientale». Tutte finalità molto nobili, che però non riguardano la formazione di ingegneri per l'ambiente e il territorio - corso di laurea magistrale offerto sempre da Unibo e che ha tra i suoi curricula «Climate change adaptation - Climate Kic» - ma piuttosto a un corso su come gestire l'estrazione di idrocarburi. L'istituzione di una collaborazione tra il colosso petrolifero e l'Università di Bologna comporta lo stanziamento di fondi, personale di ricerca e formazione sui temi al centro dell'accordo, provocando così uno sbilanciamento nella quantità di energie e soldi spesi per gestire la transizione energetica in modo sostenibile rispetto a quelli spesi per calmierare il consumo di petrolio importato attraverso l'estrazione di gas dal Mediterraneo.



La lampante discrepanza tra le dichiarazioni di volontà di sostenibilità, addirittura attraverso la citazione di 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell'ONU e lo stanziamento di fondi per la formazione di giovani in un settore energetico inquinante, viene risolta nella retorica aziendale con il riferimento alle dichiarazioni del Ministero dell'Economia e delle Finanze secondo cui «l'Italia avrà bisogno di gas metano per almeno 50 anni» e appoggiata dalla ROCA, associazione ravennate degli operatori del settore offshore, che lamenta la perdita di tecnologia per l'Italia quando il settore opera per commesse estere, come avviene nella maggior parte dei casi. Sulla necessità di trovare un'alternativa altrettanto valida al petrolio e al gas importato nessuno in Italia ha dubbi, ma sembra che Eni, nonostante le dichiarazioni di impegno per la conversione, creda che il passaggio dal petrolio al gas sia l'unica strada percorribile, programmando investimenti in questo campo fino al 2030, data che, nel 2015, era stata scelta dalla Conferenza di Parigi come ultimo spartiacque possibile per l'abbandono di modelli energetici non sostenibili dal punto di vista ambientale.


Eni opera nel settore offshore nel Mar Adriatico da moltissimi anni e la Camera di Commercio riporta che a «Ravenna si è creato il più importante distretto industriale dell'off-shore in Italia, con 22 piattaforme sulle 106 presenti in Italia». Ad oggi il settore si definisce in crisi dopo le dichiarazioni di Conte che fin dal discorso di apertura del governo "giallorosso" ha lanciato un piano di sospensione delle concessioni per le trivellazioni e per l'estrazione di gas naturale. L’obiettivo è investire sulle energie rinnovabili: nel programma di governo si leggeva infatti che è necessario «introdurre una normativa che non consenta, per il futuro, il rilascio di nuove concessioni di trivellazione per l'estrazione di idrocarburi. In proposito il Governo si impegna a promuovere accordi internazionali che vincolino anche i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo ad evitare quanto più possibile concessioni per trivellazione».


Nel gennaio 2019 è stata introdotta una moratoria, frutto di un accordo tra Lega e M5S, di 18 mesi riguardo lo sfruttamento di gas e petrolio solo per procedimenti attivi, relativi a prospezione e ricerca di idrocarburi Questa moratoria coinvolge Eni, Shell, Total, Edison e comporta danni per svariati miliardi di euro. Nel 2019 Eni a Ravenna produceva circa 45 mila barili al giorno, programmando nei quattro anni successivi di investire altri 2 miliardi euro per raddoppiare la produzione. Con l'arrivo della moratoria, Eni si è vista costretta a bloccare il progetto e a investire la più modica somma di 150 milioni di euro nei successivi 4 anni per le operazioni di decommissioning. Eni ha accordi attivi con il comune di Ravenna fin dal 1997 e nel 2019 si è vista costretta dalle misure NOTRIV a diminuire, con la stipulazione dell'ottavo accordo, la cifra erogata la comune da 12 a 3 milioni di euro e il tempo della collaborazione da quattro anni a uno. La maggior parte di questi fondi verranno stanziati per il monitoraggio ambientale delle coste, ovvero per calcolare e arginare anni e anni di danni causati da Eni stessa con la trivellazione; solo 300 mila euro potranno essere stanziati per l'area energia e sostenibilità.


Nel 2019 Eni a Ravenna produceva circa 45 mila barili al giorno, programmando nei quattro anni successivi di investire altri 2 miliardi euro per raddoppiare la produzione.

L'estrazione di gas attraverso tecnologie di estrazione offshore presenta, come evidenziato da WWF nel report del 2013 «Trivelle in vista», da Re:common, da Greenpeace, da Legambiente e da buona parte della comunità accademica internazionale, moltissimi rischi dal punto di vista della salvaguardia della biodiversità sui fondali del Mediterraneo e sulla condizione di vita degli animali marittimi, oltre che sull'impatto ambientale che il gas estratto ha una volta che viene utilizzato come combustibile. L'impegno di Eni per fornire formazione nel settore energetico si concretizza così nella formazione di giovani studenti universitari in un settore ritenuto poco sostenibile e senza futuro piuttosto che all'effettivo impegno per la creazione di un'infrastruttura energetica fondata su fonti rinnovabili e sostenibili.

Tarantelle

Fra i progetti attivi presso l’Università di Bologna, oltre a PlaCE, un altro PON finanziato con fondi europei cattura l’attenzione. Si tratta di TARANTO, una collaborazione fra grandi imprese, PMI e università per lo «sviluppo di processi di trattamento intensivi per la rimozione di inquinanti da siti contaminati e da acque di scarico dell’area di Taranto» e per la «bonifica di sedimenti contaminati presso il Mar piccolo di Taranto». Il contributo del Ministero al progetto, anche questo della durata di due anni e mezzo, è di € 4.828.999,96. Eni, che proprio nella città di Taranto possiede fin dal 1975 una delle sue raffinerie, non partecipa al progetto.


Proprio come per il progetto PlaCe, però, molti dei partner (tranne le Piccole e medie imprese) coinvolti hanno stretti rapporti con il gigante dell’oil&gas: dell’Alma Mater di Bologna, col suo accordo quadro milionario, avevamo già parlato. Coordinatore di TARANTO è il CNR (sezione di Bari). Il rapporto tra Consiglio nazionale delle ricerche ed Eni è «iniziato nel 2009» rafforzandosi prima nel 2014, col rinnovo dell’accordo quadro triennale, e poi nel 2018, quando è stato siglato un protocollo d’intesa con l’obiettivo di «definire e sviluppare progetti di ricerca, eventualmente coinvolgendo anche altri soggetti interessati». L’altro partner universitario, insieme a UniBO, è l’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”. Fra gli «organismi associativi partecipati» dall’Ateneo barese troviamo, con una percentuale di partecipazione dell’1,38% il Cluster Tecnologico Nazionale Energia: giuridicamente è una associazione non riconosciuta, che si propone di riunire gli «attori nazionali interessati ai temi dell’energia». Anche in questo caso Eni S.p.A è presente, in qualità di socio partecipante. L’unica S.p.A che partecipa al PON tarantino è CISA, società tarantina che gestisce un inceneritore a Massafra.


Cisa S.p.A è di proprietà dell’imprenditore locale Antonio Albanese, indagato - come riporta Il Corriere del Giorno - nel 2019 per inquinamento di prove nell’ambito dell’inchiesta “Monnezzopoli”. Anche la società di trattamento rifiuti risulta aver avuto rapporti con Eni: dalle Tabelle riassuntive della produzione di rifiuti nella raffineria di Taranto emerge che, tra il 2001 e il 2006, l’impianto di gestione dei rifiuti ha ricevuto da Eni 745,230 kg di rifiuti solidi, tra cui lana di roccia, carta e cartone, e persino «alghe e mitili». Sulla scheda del progetto PlaCE, reperibile sul sito di UniBO, vengono indicate dieci partnership: università, piccole imprese e aziende. Sulla pagina dedicata del sito PON Ricerca e Innovazione 2014-2020, però, compare anche un «Comitato strategico di indirizzo», del quale risulta far parte anche Confindustria Taranto. Anche con l’associazione degli industriali Eni sembra avere rapporti privilegiati: come emerge dai documenti interni all’amministrazione della raffineria, nel 2017 è stato realizzato il convegno “I progetti di alternanza scuola-lavoro e di apprendistato di 1° livello di Eni”, «in collaborazione con Confindustria Taranto». Gli industriali tarantini hanno - e come potrebbe essere diversamente? - sostenuto in modo netto l’operato della multinazionale petrolifera nella città pugliese. Come riportato da Il Sole 24Ore (quotidiano di Confindustria, ndr), il presidente di Confindustria Taranto, Vincenzo Cesaro, ha guardato con molta soddisfazione allo sblocco del progetto Tempa Rossa, che prevede investimenti «per 300 milioni [...] da realizzare nella raffineria Eni per far arrivare a Taranto il petrolio della Basilicata».

Nel 2017, Cesaro affermava che finalmente la questione, «appannata da molteplici luoghi comuni e altrettanti pregiudizi», aveva avuto esito positivo, superando le «logiche restrittive di chi riteneva il progetto deleterio per il territorio (in quanto ritenuto inquinante) senza soffermarsi sul reale impatto e sugli effettivi benefici che ancora adesso [...] rimangono intatti nella loro evidenza».

Un giudizio, quello di Confindustria Taranto, che i fatti dimostrano essere troppo affrettato: «Raffineria Eni Taranto. Matrici inquinanti anche nelle aree del progetto Tempa Rossa» titolava, appena un anno dopo, il sito dell’Associazione PeaceLink: le analisi effettuate da Eni e da Arpa Puglia confermano infatti la presenza di «terreni e falda inquinati da metalli ed idrocarburi nell'area della Raffineria Eni di Taranto». Nel 2019, Eni corre ai ripari e sottoscrive, proprio nella sede di Confindustria Taranto un accordo che, per esplicita dichiarazione dell’azienda, riguarda «le compensazioni ambientali relative al progetto Tempa Rossa», insieme a Comune e Provincia di Taranto. Insieme ad altre big del petrolio (come Shell e Total) coinvolte nel progetto Tempa Rossa, Eni manifesta la disponibilità «a contribuire alla realizzazione di progetti di cooperazione economica, sociale e culturale [...] attraverso il contributo di 6 milioni di euro».

Le analisi effettuate da Eni e da Arpa Puglia confermano infatti la presenza di «terreni e falda inquinati da metalli ed idrocarburi nell'area della Raffineria Eni di Taranto».


Il tentativo di Eni di porre rimedio ai danni ambientali provocati viene immediatamente criticato dalle associazioni civiche del territorio tarantino, come Giustizia per Taranto, che denuncia la strategia di «greenwashing» operata dal Cane a sei zampe per «distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività». Nel lontano 2012 la Gazzetta del Mezzogiorno riportava come lo «stabilimento Eni a Taranto» fosse un «megasito fra i più inquinanti d’Europa»: a distanza di otto anni, i problemi ambientali non sembrano essere stati risolti. L'Italia così, a differenza della maggior parte delle altre nazioni europee, forma i giovani che esprimono interesse per quel settore dell'ingegneria energetica che si occupa della costruzione di piattaforme per la produzione e l'estrazione di energia in mare, non in Offshore Renewable Energy: probabile settore di sbocco per tutti gli ingegneri interessati alla materia in un futuro molto prossimo necessariamente decarbonizzato e sostenibile, ma bensì nella gestione dell'estrazione di gas e petrolio in modo tradizionale, tradizione che è scientificamente dimostrato essere senza futuro.


Coloro che frequentano l'Alma Mater bolognese si sono riuniti nel collettivo "Studenti per l'Ambiente Bologna" e si sono mostrati molto critici nei confronti dell'accordo tra Eni e l'Ateneo, lamentando nei loro comunicati pubblici il mancato riconoscimento di esami in ambito green conversion sostenuti in Erasmus per gli iscritti alla laurea magistrale di Ingegneria energetica ad indirizzo offshore, oltre all'evidente strumentalità dell'accordo con Eni che, talvolta in modo miope, fa coincidere la collaborazione con un'azienda da parte di un ateneo con un aumento del livello dell'offerta formativa. E se il gas non è una soluzione sostenibile a medio-lungo termine, bisogna iniziare a lavorare ad una soluzione nelle aule universitarie.

E le fonti?

A sostenere l'importanza delle fonti da cui proviene l'idrogeno protagonista della conversione energetica a base gas naturale è anche la bozza di progetto della Commissione Europea, che dà direttive tecniche per definire i prossimi passi per l'ambizioso obiettivo sostenuto dal segretariato di Ursula Von Der Leyen di raggiungere la neutralità ambientale dal punto di vista energetico attraverso il Green Deal in Europa entro il 2050. I passi dell'UE in materia appaiono però spesso incerti e contraddittori: a fine gennaio erano stati approvati dal Parlamento Europeo ben 32 progetti a finanziamento in parte europeo che si concentravano sulla produzione di Gas non da fonti rinnovabili e che avevano già ricevuto in passato una netta bocciatura da parte degli ambientalisti, come la TAP e il condotto Gela-Malta. Eppure nella bozza del documento tecnico, come è stato raccontato dalle indiscrezioni di Euractivism, la definizione di gas naturale si fa molto più stringente e arriva a comprendere solo l'idrogeno proveniente da elettrolisi ottenuta da fonti eoliche o solari escludendo di fatto la maggior parte dei progetti portati avanti da Eni in Italia. A questa stretta della Commissione Confindustria e le lobby del petrolio rispondono con una lettera che vede trai suoi firmatari anche Eni e in cui viene affermata la non praticabilità di questa svolta radicale, chiaramente sottintendendo la necessità di mantenere i tradizionali livelli di consumo e di spreco di energia, oltre al consueto margine di profitto.


A questa stretta della Commissione Confindustria e le lobby del petrolio rispondono con una lettera che vede trai suoi firmatari anche Eni e in cui viene affermata la non praticabilità di questa svolta radicale

La lettera riconferma quindi che, se si vuole mantenere tutto così com'è, ci si metterà molto più di 30 anni a passare ad un gas ottenuto esclusivamente da fonti naturali. Se fosse altrimenti bisogna agire ora e bisogna farlo partendo dalle scuole, quelle pubbliche, dove le aziende in teoria dovrebbero entrare poco.

di Edoardo Anziano e Marta Bernardi

illustrazioni di Luogo Comune