Tra informazione mediatica e rappresentazione finzionale

Il circolo vizioso dei linguaggi nella società

I media, che nel tempo hanno acquisito un ruolo sempre più rilevante nella società e nell’interazione fra membri, sono di per sé dei processi tecnologici che permettono la comunicazione tra chi invia il messaggio e chi lo riceve. Il problema si pone nel momento in cui i mezzi di comunicazione diventano di massa – che per definizione si caratterizza per la sua staticità e per il comportamento uniforme degli individui che la compongono -, con una comunicazione che va “da uno a molti”, la maggior parte delle volte a favore dell’ “uno”. Ad esempio il comportamento aziendale che rivolge la propria attenzione a diversi target vulnerabili presenti nel mercato. Questo meccanismo riduce però la variabilità e il livello di corretta rappresentatività del contenuto, il che va a danno dei “molti” fruitori del prodotto, i quali rischiano di cadere senza troppa difficoltà nell’ “iper-realtà” – termine coniato dallo studioso Jean Baudrillard che sta a indicare la condizione per cui le rappresentazioni mediatiche del mondo si sostituiscono all’esperienza del mondo reale costituendo pensieri e atteggiamenti in modo artificiale, pur riflettendosi nel quotidiano e contribuendo a creare quella realtà empirica di cui le nostre idee hanno bisogno per fortificarsi. Il sociologo Kai Erikson afferma che “la ‘devianza’ non è una caratteristica ‘innata’ di un qualsiasi tipo di comportamento; è una proprietà ‘assegnata’ a un comportamento dalle persone che vengono a contatto diretto o indiretto con esso”, perché lo considerano tanto pericoloso o imbarazzante da richiedere particolari sanzioni. Il comportamento è deviante solo se viene etichettato come tale e la società quindi è la prima responsabile delle varie discriminazioni e rappresentazioni fuorvianti che produce. Ognuno di noi però ne è parte integrante e ha il potere di partecipare al suo cambiamento, il cui punto di partenza è da rintracciare necessariamente nel racconto e nella parola, mezzo d’eccezione con cui gli uomini, sin dall’età arcaica, costruiscono la propria cultura.

 

Ri-narrare la sofferenza psichica

Come per altri temi ritenuti tradizionalmente scomodi se non addirittura tabù (sesso, droga, identità di genere per citarne alcuni) il disagio mentale è stato investito di stigma per mancanza di conoscenza prima, per paura e vergogna poi. Dalla definizione dell’enciclopedia Treccani, stigma è in psicologia sociale il marchio, l’attribuzione di qualità negative a una persona o ad un gruppo di persone e alla loro condizione; è, dunque, la discriminazione basata sul pregiudizio che porta l’individuo all’isolamento. La stessa informazione mediatica, dai giornali alle televisioni, dalle radio ai canali istituzionali, ha trattato la sofferenza psicologica alimentandone lo stigma sociale e alternando rappresentazioni sensazionalistiche a romanticizzazioni, mescolando stereotipi e linguaggi discriminanti, in una parola: disinformando. Si è andato costruendo nel tempo un immaginario collettivo della sofferenza psichica come un qualcosa di immutabile e standardizzato, nella maggioranza dei casi incurabile: un immaginario che non tiene conto della vastità e della specificità delle patologie esistenti, tutte ugualmente meritevoli di cura. Secondo la giornalista e psicologa Fuani Marino – la quale, nel suo ultimo libro edito da Einaudi Svegliami a mezzanotte racconta del suo tentato suicidio scoperchiando pian piano la diagnosi della sua sofferenza – esiste attualmente un grande bisogno di letteratura che racconti i disturbi mentali «dal di dentro, attraverso memoir e opere autobiografiche di chi ne è portatore o le vive da vicino». Questo perché, per imparare a rapportarsi con tali sofferenze bisogna iniziare a raccontarle attraverso narrazioni che diano loro giustizia e dignità.

 

Mente, media e linguaggio tra ieri e oggi

Un osservatorio particolare in merito alla narrazione della salute mentale è stato istituito sul linguaggio di tv e giornali. Ciò che emerge è che le storie di sofferenze psichiche sono riportate frequentemente in termini di notiziabilità, dunque di impatto sul pubblico, con una conseguente scarsa accuratezza tematica e linguistica a livello di trattazione. “Psicoradio” testata radiofonica bolognese con una redazione formata da persone in cura presso il Dipartimento di Salute Mentale della città, ha condotto nel 2008 una ricerca su otto quotidiani nazionali selezionando 234 titoli, come ad esempio: “Cesano Boscone: Berlusconi aiuterà i malati di mente”, “Ceccano, terreno dell’ex manicomio diventa orto aperto ai malati” e così via. Il risultato ha evidenziato la tendenza dei giornalisti ad utilizzare termini come “paziente psichiatrico” al 10%, “malato mentale/psichico” al 19% e disabile mentale/psichico al 15%. Il vademecum pubblicato nel 2012 dal Dipartimento di Salute Mentale di Modena e da alcune associazioni cittadine, intitolato “Le parole della Salute mentale”,  ha invece mostrato come sugli articoli di carta stampata i termini con cui si fa riferimento ai disturbi mentali siano per lo più in negativo: “problemi psichici, disagio mentale, malattia mentale” nel 34% dei riferimenti, “follia, raptus, nevrosi” nel 33%, “pazzo, impazzito” nel 30%, “folle, matto” nel 24%. Compito dell’informazione dunque – dai mass media ai canali istituzionali – è quello di invertire le disinformazioni e diffondere un linguaggio che scinda la persona dalla sua sofferenza, la quale non è che un aspetto della persona, ma non la persona stessa. Negli ultimi anni, specialmente grazie a un ritorno d’attenzione sull’importanza della parola e ad un incremento delle narrazioni sulla salute mentale in vari ambiti sociali, artistici, scientifici e culturali, assistiamo ad un miglioramento. Anche l’emergenza pandemica ha operato da normalizzatrice della sofferenza psichica, diffondendosi quest’ultima a macchia d’olio su larga parte della popolazione tanto in forme lievi quanto in forme patologiche e facendo sentire le persone parte di un tutto comprensibile. Non solo necessario ma anche urgente, dunque, raccontare e ri-narrare la salute della mente, ripartendo dall’inclusività e dalla naturalezza di un linguaggio (quello psicologico) a cui solo fino a poco tempo fa si era decisamente poco avvezzi.

 

Finzione narrativa: uno strumento potente da adoperare con cura

La tematica dei disturbi mentali ha trovato la propria rappresentazione anche nell’ambito finzionale della cinematografia e della scrittura. Diviene necessario, per una lettura critica delle produzioni culturali circostanti, individuare quali sono i sentieri più battuti nelle rappresentazioni dei disturbi mentali, perché indubbia è la responsabilità di chi tenta una narrazione della questione.

Il primo e più noto processo descrittivo da sottoporre a critica è quello della stigmatizzazione, la cui forma più ricorrente è forse quella che presenta il disturbo mentale come quasi univocamente e insitamente connesso alla violenza e al crimine, raffigurando personaggi che sembrano inesorabilmente destinati a compiere atti “malvagi”, in una lunga storia che emerge in filigrana, attraversando i decenni, tra grandi cult e pellicole mainstream. Seppur indubbia è l’importanza di analizzare nel dettaglio caso per caso, poiché molto dipende dal contesto e dalla trama che ruota attorno all’evento violento, esso rimane comunque il fulcro e l’apice di queste rappresentazioni che hanno talvolta largamente influenzato le percezioni della collettività.

Si presenta inoltre una serie di approcci narrativi più sottili, ma non per questo meno dannosi ai fini di una rappresentazione non mistificante: in primis la minimizzazione e banalizzazione delle problematiche e delle difficoltà a cui deve far fronte chi vive il disturbo mentale; in secundis i casi di errata narrazione a livello terminologico e scientifico per i quali si tende a creare calderoni di sintomi e patologie tutte afferenti allo stesso individuo con effetti decisamente confusionari. Un esempio lampante di quest’ultima casistica che ha suscitato dibattiti piuttosto accesi è Io, me & Irene (2000), film nel quale il protagonista Charlie, pur presentato come affetto da una forma avanzata di schizofrenia, manifesta sintomi legati al disturbo di personalità multipla (è infatti dissociato tra un ego gentile e pacato e un alter ego violento e aggressivo); è dunque evidente la vena approssimativa con cui si tratta la questione, non differenziando sintomi diversi per patologie diverse. A un processo non dissimile appartiene anche la banalizzazione di alcune patologie, ridotte spesso ad una serie di immagini comunemente note e divenute quasi cliché riprodotti in serie, senza che abbia luogo alcuna rappresentazione di cosa sta oltre la superficie; questo è quanto ad esempio avviene in Viaggio verso la libertà (2014) in cui il disturbo ossessivo-compulsivo e l’anoressia, pur essendo disturbi complessi ed elementi centrali della trama, diventano poi spunti per episodi che strappano un sorriso e momenti drammatici senza spessore.

 

Il memoir come punto di partenza

Al polo opposto rispetto alle rappresentazioni fin qui descritte, la “buona” narrazione si caratterizza non solo per l’assenza di componenti stigmatizzanti e minimizzanti, ma soprattutto per l’affacciarsi di due elementi strettamente interconnessi: complessità e umanità. Per cercare di rendere al meglio l’essenza si prenda come esempio Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli (2020), il cui racconto, ispirato a un’esperienza autobiografica, si incentra su una settimana trascorsa dal protagonista all’interno di un ospedale psichiatrico a seguito di un episodio di rabbia violenta. Quello che l’autore offre è il ritratto di un’umanità sofferente e appunto complessa: ogni paziente che incontra e con il quale stringe un legame è presentato mediante uno sguardo aperto, che di lui coglie non solo il disturbo da cui è affetto (bipolarismo, depressione, catatonia, psicosi) e le sue conseguenze, ma anche infiniti altri aspetti che si rifanno a qualità, desideri e pensieri dell’Altro che non è ridotto alla sua patologia. Non c’è stereotipo o stigma perché non esiste giudizio nello sguardo di chi narra, nessuna mistificazione o riduzione: tutto è raccontato semplicemente per quello che è, in un linguaggio semplice e diretto che conduce il lettore comune a interrogarsi sull’essenza e sul valore dei concetti di sanità e malattia. Forza intrinseca a tutta la narrazione è certamente il fatto che chi scrive ha come riferimento un’esperienza personale e mediante questa, con grande coraggio, permette a chi legge di avvicinarsi ad un nucleo di verità che raramente una fiction può arrivare a rappresentare. Emerge dunque in modo chiaro l’importanza dell’auto-narrazione, di chi raccontando di sé offre un punto di partenza, una sorta di chiave d’accesso a questo mondo; è infatti attraverso il vissuto, proprio o altrui, che si può arrivare a cogliere la complessità e la molteplicità dell’infinito mondo spesso nascosto dietro l’espressione di “disturbo mentale”. 

 

Emerge chiaramente l’urgenza di riflettere in modo critico sui processi, tanto intricati quanto fondamentali, che attraversano e plasmano non solo il vivere collettivo e la realtà circostante ma anche l’esperienza del singolo individuo in relazione al tema della sanità mentale.

Articolo di Gina Maria Marano, Gaia Del Bosco e Francesca Asia Cinone Ha collaborato Emma Sangalli Moretti