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Intervista a Folcast
Daniele Folcarelli, cantautore giovane, bello e bravo classe ’92
L’ultima edizione del Festival di Sanremo ha cambiato toni e sembra essersi mossa, attraverso le scelte della direzione artistica, verso i giovani. “Abbiamo svecchiato il Festival”, così Amadeus ha commentato la prima serata e i dati d’ascolto sembrano confermare che – nonostante le difficoltà create dai protocolli Covid – Sanremo 2021 ha ottenuto uno degli obiettivi prefissati: abbassare drasticamente l’età media del suo pubblico. Questa operazione si riscontra negli ascoltatori che la selezione dei Big e degli ospiti ha trascinato davanti allo schermo: ragazzi fra i 14 e i 24 anni. Sanremo Giovani ha beneficiato della nuova linea comunicativa: le scelte di quest’anno hanno infatti avvantaggiato le Nuove Proposte, fornendo loro un’ottima vetrina, soprattutto nel momento in cui i live sono fermi. Infatti, pur rivolgendosi allo stesso pubblico dei Big, i giovani artisti si trovano a dialogare con un una fascia demografica ricettiva verso un’offerta musicale nuova, trasformando questa competizione in un’efficace cartina tornasole della musica emergente. Quello che nessun dato d’ascolto può però chiarire è l’impatto che Sanremo ha sulla carriera dei giovani musicisti.
Ne abbiamo parlato, ripercorrendo il backstage di Sanremo, con il terzo classificato nella categoria Nuove Proposte: Folcast. Questo pseudonimo nasconde Daniele Folcarelli, cantautore giovane, bello e bravo classe ’92 che, a partire dal 2015, si è imposto sulla scena romana con un omonimo EP. Con questo esordio ha subito chiarito la natura camaleontica della sua musica, che fatica a collocarsi in un solo genere: spaziando dal pop al funk, passando per l’R&B e il soul, la sua produzione lo ha condotto a Scopriti, il brano portato in gara.
La musica proposta attraverso i Big ha tagliato in molti casi con la tradizione e la vittoria dei Maneskin conferma un pubblico under 25; che linea ha seguito, invece, Sanremo Giovani? Secondo la tua esperienza, il Festival si è davvero svecchiato a partire da quest’anno?
Sì ed è una figata. Non me ne vogliano i direttori, però anche diversi big meno giovani provengono, di fatto, da un ambiente giovanile, underground, indipendente. Il Festival si è aperto a un mondo che prima non vedeva. Tu accendi la tv e, invece di trovare sempre gli stessi artisti, vedi Willie Peyote che fa un pezzo rap, senza comunque snaturarsi tra i big di Sanremo. Anche per le Nuove Proposte è una scelta artistica incredibile, per me è stato super positivo. Spero che mantengano questa linea fresca e, perché no, invece di far competere i quattro finalisti di Sanremo Giovani tra loro, in futuro si potrebbe mandarli direttamente in gara coi Big.
Sanremo è comunque storia, 71 anni di Festival. Sarebbe un’esperienza formativa in ogni caso, anche alla vecchia maniera. È una delle poche realtà che ti dà la possibilità di suonare con dei musicisti incredibili. L’ambiente mi è parso super tranquillo. Mi è sembrato pulito il modo in cui si arriva sul palco, noi Nuove Proposte abbiamo partecipato a un vero concorso. A prescindere dall’aspetto televisivo, che è la cosa che fa meno bene alla musica – anzi distrae molto -, è formativo l’aspetto umano: dietro a quel palco ci sta un mondo di gente che lavora. La direzione artistica sta facendo un bel lavoro e non parlo solo di Amadeus: ci sono tante altre persone che lavorano dietro al Festival, a livello artistico.
Parliamo della direzione artistica. In quest’ultima edizione si è contrapposta una direzione che cerca di svecchiare l’ascolto a quel pubblico che ha gusti tradizionali, nazional-popolari. Pensi che sia il pubblico a condizionare la direzione artistica o viceversa?
Questa è una domanda di economia…Chiaro che, per chi guarda tradizionalmente Sanremo, la musica è necessariamente veicolata dalle scelte della direzione artistica. Ma per il pubblico che compie scelte musicali attive, la musica non verrà mai realmente da selezionata da Sanremo.
Penso che sì, se l’impostazione è giovane, nuova (mi fa un po’ strano definirla giovane, forse più opportuno underground), questo può condizionare anche gli spettatori. Ma di fatto quello che arriva all’Ariston non è così giovane. Pensate all’hip hop e il rap, che in America vanno da trent’anni: da noi hanno avuto un exploit qualche anno fa. Poi Neffa faceva rap già dagli anni ’90, ma Sanremo se ne accorge dopo.
Nonostante la ricerca di un pubblico giovane, certi generi restano più difficili: il brano di Ghemon è molto figo, ma il telespettatore abituato alla storia del Festival fatica ad apprezzarlo. Allora si va incontro al gusto dell’ascoltatore medio, si cerca comunque un compromesso con l’ascolto facile da recepire, anche quando l’intenzione sarebbe quella di rivederlo. Qualcosa sta cambiando: pensiamo al fatto che in finale fra le Nuove Proposte ci fosse Davide Shorty, che fa una roba diversa dai classici di Sanremo.
Va detto che nessuno di noi ha fatto una scelta super azzardata. Se vuoi lavorare come cantautore, questo palco è un’esperienza importante, che va presa com’è. Il mio obiettivo è questo, campare di musica. Nel momento in cui fai questo, suonare con l’orchestra di Sanremo è già un successo. Poi avere un impatto mediatico importante, vuoi o non vuoi, è necessario. È una necessità che condiziona un po’ tutto, tranne la scrittura in sé delle canzoni. Ecco, non scrivo una canzone pe campà, la scrivo in funzione della mia musica.
I tuoi testi prima del Festival erano tendenzialmente irriverenti. Invece, durante le semifinali, Barbarossa ti “avrebbe preferito un po’ più serio”. Dal momento che Scopriti non ha nulla di volgare, come hai percepito questa osservazione? Come ti sei trovato con la giuria?
L’altro ieri sono stato a Radio2 per la terza volta. Con Luca si è instaurato un rapporto di stima. Lui era preso bene e io manco a dirvelo. Suonare tre pezzi da lui fa intuire che questa cosa l’ha digerita. Io sinceramente non s
o che cavolo direi a un ragazzo che mi sta facendo sentire per la prima volta una sua canzone, è un ruolo difficilissimo. Stai lavorando e il contesto vuole che siano dati subito giudizi e commenti. Alcune cose possono essere chiare già dal primo ascolto, altri giudizi sono affrettati. Quindi un commento del genere lo capisco, ci può stare. Lui intendeva dirmi: mi stai facendo entrare in un clima molto intimo, poi a ‘na certa usi la parola “mutande”.
A me questa scelta non aveva fatto storcere il naso, però sicuramente Scopriti è un brano più intimo che irriverente. Ad esempio Cafù, che ho scritto nel 2019, era un pezzo più ironico, ma in questo caso capisco che avevo un altro tono.
Più in generale, la commissione televisiva era figa. Purtroppo in finale Morgan non c’era più; era stato entusiasta della mia canzone, io me ne volevo andare quando mi ha fatto quella sfilza di complimenti: ha messo in mezzo Baroni, Battiato, John Lennon. Mi son detto “Morgan, ma chi ti manda?”. Infatti poi in finale non c’è stato. [ride] A parte questo, era una giuria fatta bene. Hanno dato buone dritte. Alcune volte mi ritrovavo in quello che dicevano, altre volte meno, ma è inevitabile. Morgan, poi, mi piace anche perché va sempre oltre il mero ambito dell’esibizione, riesce a scavare. Mi sono piaciute un botto le analisi che ha fatto. Ma se penso al caso di Davide Shorty, che è stato giudicato come quello che porta una cosa difficile, che rende la canzone un esercizio, credo che ci sia stato un problema di comunicazione. Si vede che c’è un vizio di forma, dovuto probabilmente alle regole del gioco e al giudizio lapidario.
Cercare di indirizzare le canzoni verso un grande pubblico richiede certamente un linguaggio specifico, quanto senti di aver dovuto adattare il tuo stile musicale per il palco di Sanremo? La scelta di Scopriti è stata influenzata da questi fattori?
Ho scritto Scopriti a casa al pianoforte tre anni fa, quando Sanremo ancora non mi passava neanche lontanamente per la testa. La canzone è nata perché volevo veramente esprimere uno stato emotivo, quello che stavo vivendo, senza un secondo fine.
L’inizio della collaborazione con un produttore come Tommaso Colliva – iniziata a marzo 2020 – ha cambiato anche i brani, lavorati in modo diverso da come avrei fatto io. Fortunatamente, aggiungerei, perché probabilmente l’arrangiamento per come l’avevo pensato inizialmente avrebbe annoiato tutti – me in primis – dopo trenta secondi. Condividere il lavoro con dei professionisti ha rafforzato, in termini chiaramente musicali, il concetto che volevo esprimere.
Tra tutti i brani su cui stavamo lavorando, non so perché abbiamo scelto proprio Scopriti per Sanremo. Non che io sia pentito della scelta, penso che questo sia un brano con cui si tende ad empatizzare subito, che arriva in maniera diretta. Uno dei pezzi che uscirà prossimamente forse non avrebbe superato le prime selezioni, ma Scopriti l’abbiamo un po’ vestita ed è stata efficace. Non ne farei neanche un discorso del tipo “è giusta per Sanremo”, anche perché né io né Tommaso faremmo una canzone appositamente per arrivare da qualche parte. Proprio per questo, ci tengo a sottolineare che tutto questo lavoro sarebbe stato portato avanti indipendentemente da Sanremo e questa cosa mi ha lasciato piacevolmente colpito. Anche l’orchestrazione è stata fatta da un personaggio come Rodrigo D’Erasmo, con cui lavorerei a prescindere da Sanremo.
Anche se hai detto che è stata una cosa naturale, l’arrangiamento ha un sound diverso dalla tua produzione precedente: da funk, R&B, soul, pop rock, blues, hai scelto di portare una canzone prettamente pop sul palco di Sanremo. Anche se si tratta del genere in cui ti sei laureato in conservatorio, pensi di aver lasciato fuori altre influenze un po’ meno convenzionali?
È indubbiamente un brano pop, però c’è tutto quello che ho ascoltato negli anni. Ci sono tutti i tratti della mia produzione precedente, in particolare del disco Quess: chitarra molto poco presente, quasi oggetto di scena, tendente a un funk molto tranquillo, il soul di Vai Via, etc.
Fondamentalmente non penso a Scopriti come a un pezzo pop: è semplicemente un brano mio e non riesco mai a vederlo come un esercizio di stile. Quindi se piano e voce tirano fuori qualcosa di pop, soul o una ballad, il brano resta quello. L’importante è che piaccia a me e alle persone con cui lavoro e che sia al servizio della musica, inteso come bellezza della musica. Se un brano è bello, può essere pop, jazz, funk. Senza considerare che il pop racchiude un sacco di cose, anche se chiaramente non è free jazz o funk spinto. È vero che al conservatorio ho studiato chitarra elettrica pop ma, in realtà, al laboratorio studiavamo i pezzi di Stevie Wonder, Jimi Hendrix, Charlie Parker. Quello che c’è nella mia musica viene anche molto dalla black music, nonostante io scriva in italiano. Ho provato anche qualche brano col testo in inglese ma non me la cavo benissimo. Le prossime cose saranno quindi in italiano: ci sarà il funk, l’R&B, ci sarà anche un po’ di parlato, un lieve accenno al rap stile Daniele Silvestri.
Il cambio di sound quindi è riconducibile, piuttosto che a Sanremo, alla produzione, che fa veramente tantissimo: dall’ep – prodotto da bodacious collective – sono passato a Quess – disco prodotto solo da me, Andrea Fusacchia (tastiere e sax), Stefano Mazzucca (batteria) e Massimo Ricciardi (basso) – in una dimensione molto corale, di gruppo. Già la produzione di Frank Peex in Cafu fa sentire uno stile diverso: lui sta in fissa con la musica dance e funk francese, che è fighissima e accompagna effettivamente molto bene questo brano. Adesso, con Tommaso, stiamo prendendo una direzione diversa che a me piace molto perché sulla musicalità, sul come concepire la musica, ci intendiamo. Pensiamo entrambi che ci debba essere sempre il groove, la parte suonata, fondamentalmente un po’ di sostanza sotto una canzone. Un produttore bravo come Tommaso riesce a rafforzare questi aspetti, quelli che invece da solo non riusciresti a mettere a fuoco.
Che rapporto si è creato con gli altri artisti? Qualche collaborazione è stata presa in considerazione?
È stato uno scambio continuo. Forse conoscere queste persone è stata la cosa più preziosa del festival. Tante sono state eliminate in quella prima fase, ma essendo impostata come una competizione era giusto così. Tanti sono usciti e non dovevano, mi viene in mente Sissi. Il suo lavoro mi ha colpito.
Con altri abbiamo condiviso poco. Però devo dire che il clima era friendly, in alcuni momenti la competizione non si sentiva minimamente, a volte nemmeno nella finale. L’idea di entrare in un clima competitivo era proprio uno schiaffo morale verso chi adesso non sta facendo nulla e non può fare nulla. In generale si è costruito clima produttivo, di amicizia. Siamo in contatto, ci sentiamo. Abbiamo capito che dovevamo stare zitti e farci il Festival positivamente, perché era un’occasione unica, resa ancora più unica dal periodo.
Quanto alle collaborazioni, avoja. Io ho pensato a tante cose. Abbiamo anche un gruppo whatsapp con gli undici della finale del 17 dicembre. Avevo proposto di fare qualcosa tutti insieme, ma potrebbe essere un po’ banale e, forse, infattibile. Sognando, anche per scherzare, uscivano queste cose (ora si sono un po’ spente). Per dire, ci sono artisti con cui mi sento più affine musicalmente, con altri anche umanamente. Le cose non vanno sempre di pari passo. Ma a volte accade, ad esempio con Davide mi piacerebbe collaborare. Lui è più un rapper, io meno. Mi piace tanto il rap, però lo concepisco più come farebbe Daniele Silvestri. Anche Davide non penso si definisca rapper, non sfocia nel rap, ma ci si avvicina più di me.
E con Marco, Wrongonyou, delle cose fighe potrebbero uscire. C’era anche questa ragazza che è stata esclusa, fortissima, che si chiama Sissi, sarebbe bello lavorare con lei. È un campo figo esplorare, siamo tutti pischelli e potrebbe nascere molto. Mo’ vediamo.
Hai cambiato i tuoi piani sulla base della difficoltà a programmare live in questo periodo? È frustrante viversi questo momento con il Covid?
La situazione purtroppo è questa. Io ho anche avuto il privilegio di fare Sanremo e, in quello che si può ancora fare, tocca spigne. Io continuerò a spingere, come ognuno nel suo ambito. Per questo non abbiamo congelato nulla: si programma a distanza nel tempo, ma non ci si ferma. Dovrebbe uscire una canzone a fine aprile e ci sarà un tour questo autunno. Partiremo da Milano, con sei date, per finire a Roma. Niente è fermo e, per quello che mi riguarda, penso di essere stato davvero fortunato in questa pandemia: sono riuscito a fare quello che tanti non hanno potuto fare. C’è un botto di gente che non sta proprio lavorando. Ora abbiamo più mezzi per gestire questa situazione e quindi mi auguro che i concerti possano essere garantiti e che anche le date possano aumentare. Poi vorrei proprio andarmi a sentire un concerto anche io! Probabilmente i live saranno diversi, per tornare a come erano un paio di anni fa ci vorrà tempo. Ma, anche per quanto riguarda teatro e cinema, vorrei un botto andare a vedere un film, amo passare il tempo così, non per forza stando sul palco.
La tua partecipazione a Sanremo Giovani ha cambiato qualcosa nella tua percezione di te stesso come artista?
Forse la percezione cambiata è quella sulla mia canzone, Scopriti. Questa esperienza ha sbloccato tanti gradi di coscienza su questo pezzo, come mai mi era successo. Questo è dovuto al fatto che tantissime persone l’hanno ascoltata, facendo arrivare tantissimi feedback. Tanti la stanno reinterpretando e ho l’opportunità di vedere tutte queste cover tramite i social. Oggi, per esempio, ho visto il video di una ragazza che la canta nella penombra; questo tipo di cose mi portano anche ad associare la mia canzone ad un ambiente visivo, quasi cinematografico, che prima non ho mai approfondito. Le canzoni precedenti non avevano mai avuto questo seguito e quello che ricevo tutti i giorni dà linfa vitale nuova a questa canzone, che non mi annoia mai. È stato fighissimo vedere il pezzo evolvere negli altri. Il coinvolgimento è stato un crescendo, la canzone è cambiata passando per i vari palchi e, una volta lanciata, mi è tornata sempre in un modo diverso. Scusate se non lo esprimo in modo chiaro, ma è un aspetto che sto “scoprendo” anch’io adesso.
Articolo di Veronica Poggi e Claudia Esposito