Intervista a Vasco Brondi

Dietro le quinte della battaglia

“Tra miracoli e cose normali” canta Vasco Brondi in Ci abbracciamo, singolo estrapolato dal suo ultimo album in uscita il 7 maggio. Con lo stesso verso potremmo riassumere la nostra chiacchierata con lui. Abbiamo parlato del valore della cultura, del potere della contaminazione di conoscenze, dei necessari interstizi di silenzi e riflessioni in un mondo che scorre troppo veloce. In altre parole, della vita di tutti i giorni, della quotidianità di cui non sempre sappiamo coglierne l’eccezionalità. In questa intervista, quindi, citando Deleuze, Picasso e Mercedes Sosa, ci si è interrogati su come sopravvivere a una società a rischio omologazione. Queste riflessioni non hanno fatto altro che seguire il discorso lasciato in sospeso dall’ascolto in anteprima di Paesaggio dopo la battaglia, è un album che saprà sicuramente offrire una colonna sonora a tutte quelle persone fiduciose, sensibilmente reali e stanche di una stanchezza esaustiva più che esauriente. In attesa dell’uscita, qui potrete leggere il percorso e le ispirazioni che hanno portato alla composizione di queste nuove dieci canzoni, caratterizzate dall’alternarsi di ritmi evocativi, incalzanti, in armonioso disaccordo e a tratti folkloristici. 

Da gennaio 2020 viviamo in un periodo di stallo, paragonabile al momento che segue lo scoppio di una bomba, in cui qualcosa di grosso ha interrotto le nostre vite, ma non sappiamo cosa abbia in serbo il divenire. Questa situazione di sospensione e incertezza sta colpendo particolarmente il settore della cultura. Il Tour estivo “Talismani per tempi incerti” ci ha portati in luoghi diversi, con capienze contingentate, a vivere la musica live con molta meno fisicità e molta più connessione intangibile. Un teatro della Pergola di Firenze vuoto, invece, fa da cornice a Gianmaria Borzillo e Giovanfrancesco Giannini che ballano nel video di “Ci Abbracciamo”. Infine, l’esibizione del Primo Maggio di fronte a un pubblico connesso dall’altra parte della videocamera. Quali emozioni e sensazioni si nascondono dietro questo modo di sperimentare la cultura? 

Una riflessione che mi viene in mente rispetto all’introduzione che hai fatto è che non credo in realtà che si possa chiamare un tempo sospeso quello che abbiamo vissuto, credo che questo non sia un tempo sospeso, che non siamo in stand-by, ma che anche questa è vita e che semplicemente cambia tutto. Cambia in modo incontrollato e non decidiamo noi come può cambiare. A volte mi si dice ‘questo tempo sospeso e irreale’, invece questa è proprio la realtà, più pura. Di irreale c’è solo la nostra proiezione di solidità sulle cose e di controllo, che invece è saltata completamente. Quindi questa realtà che viviamo in modo molto più intenso rispetto a prima, quando vivevamo nell’illusione che non sarebbe successo niente, che nonostante ogni secolo abbia avuto (da che ne abbiamo memoria scientifica) due gravi pandemie, noi credevamo che proprio a noi non sarebbe toccato. Viviamo, quindi, nella realtà più chiara, dove è più chiara questa “legge dell’universo”, un tema che ho messo anche nel disco (“Le leggi della città e le leggi dell’universo”), che tutto cambia – canta anche Mercedes Sosa in una bellissima canzone che si chiama Todo Cambia. Davanti a questa realtà, la musica –   dopo il primo lockdown è emerso il fatto che ci fossimo accorti che la cultura, la musica e l’arte in generale fosse fondamentale per la nostra società – anche se così poco funzionale invece era una grande possibilità di anticorpo, per vivere questo momento. La cultura è quello che ci fa davvero diventare saggi, non è la vecchiaia, come si dice: puoi invecchiare finché vuoi, ma è la cultura che ti fa fare grandi step. Poi certo anche le esperienze di vita, indubbiamente, però la cultura è fondamentale. E la musica può essere fondamentale- a me personalmente viene sempre da dire che le canzoni hanno rinforzato il mio sistema immunitario, almeno dell’anima, per vivere questo momento. Sia ascoltarle, che scriverle.

Per me l’estate scorsa è stato importantissimo suonare, senza darlo più per scontato. Vivere quel momento al di là degli schermi diventa fondamentale. Anche quest’estate sarà rocambolesca con l’organizzazione dei concerti, ma non vedo l’ora. L’emozione che ho è solo quella di gratitudine nel non dare più per scontato quel momento e dell’intensità che può avere questo, che è proprio un nostro rito. E come ci sono state giustamente le chiese aperte, per molti di noi i teatri, i concerti, sono il nostro rito, la nostra Chiesa, quindi non posso che vedere le cose che abbiamo fatto fino ad adesso, dal Primo Maggio, con le persone al di là dello schermo, come un surrogato di sopravvivenza per questo periodo, ma che non è paragonabile. Io personalmente non ho guardato nessun concerto online in quest’anno, ho letto un libro piuttosto, per me il concerto è stare nello stesso posto nello stesso momento.

L’unione tra arti diverse è il filo conduttore che con dirompente leggerezza emerge tra Talismani per tempi incerti e Paesaggio dopo la tempesta. Infatti, quest’estate tra i luoghi più sperduti il tour ha spaziato dalla musica alla letteratura, ai canti religiosi. Nel nuovo album, invece, troviamo una particolare dedizione al connubio di arti performative: musica, balli folcloristici in un teatro, attori e cinema, poesia e letteratura. Questo percorso, è solo frutto di una personale attrazione verso la multidisciplinarietà (già nota nei lavori precedenti come ad esempio la collaborazione con l’illustratore Nicola Magrin durante il tour invernale del 2018) o è portatore di un messaggio più generale, nel quale la contaminazione di discipline è la luce in fondo al tunnel? Un messaggio su quanto la ripartenza della cultura dipenda dalla sua capacità di ricongiungersi e ‘assembrarsi’? 

Spesso quando prendo delle decisioni, dopo tanti anni che faccio questo lavoro, sia nello scrivere le canzoni, che nel prendere decisioni nel coinvolgere altri artisti, seguo quello che sento, la mia possibilità decisionale resta piuttosto bassa, faccio solo quello che mi è inevitabile in quel momento e che sento come autentico e coinvolgo le persone che ho attorno e che mi vengono in mente. 

Ad esempio con Elio Germano mi è venuto automatico, è forse la prima persone che ha sentito quella canzone quando l’ho finita. Mi sono immaginato in questa storia mia, in cui ho raccontato una cosa come per esprimerla, come per condividerla e come per liberarmene anche, e mi è venuto in mente lui. Anche lui si è ritrovato e abbiamo detto subito “ok possiamo inventarci qualcosa da fare assieme”. Dall’altra parte sì, c’è un mio interesse generale, soprattutto per quello che può circondare le canzoni perché non amo l’idea che tutti gli apparati che siano attorno alla canzone siano solo promozionali, cioè funzionali al dare visibilità, quindi mettere solo i cartelloni pubblicitari con la mia faccia, quindi per quello ho sempre collaborato con artisti o con disegnatori; mi piaceva che tutto il resto potesse dare un’altra dimensione alle canzoni, un’altra possibilità di interpretazione e arricchirla. Chitarra Nera credo sia diventata qualcosa a sé in quel video, c’è qualcosa che è al di là della canzone: è diventata un’opera che ha in sé l’interpretazione di Elio Germano, la regia di Vicari e la canzone, quindi, si è fusa assieme. Così nella performance del video di Ci Abbracciamo, dove addirittura la prima idea dello spettacolo mi è venuta guardando lo spettacolo di Sciarroni, che poi è stata la base portante del video Save the last dance for me. Quindi addirittura l’ispirazione mi è venuta da lì. Aggiungo che io me ne circondo perché poi sono una grande fonte di ispirazione. Quello che diceva Picasso, che l’arte nella più alta delle ipotesi ci serve per togliere la polvere dai giorni, per farci vedere davvero la parte misteriosa della vita, il nucleo incandescente del pianeta Terra, tenerci in contatto con queste cose qui, non solo con la superficie, Whatsapp e i Social Network e l’attualità di cinque minuti. Stare immerso nell’arte mi aiuta a essere sempre in contatto con un’altra dimensione.

Dall’ideale al materiale. Dopo aver parlato della contaminazione delle arti come punto di forza e ripartenza della cultura, è giusto notare anche l’importanza dei sostegni economici a questo settore. Negli ultimi mesi si sono susseguite diverse iniziative e raccolte fondi per i lavoratori dello spettacolo, tra queste anche lo spettacolo del 9 ottobre in Piazza Fiume a Scandiano (Reggio Emilia) che ti ha visto protagonista insieme ad alcuni dei tuoi “talismani”. Cosa pensi riguardo alla situazione generale dei fondi destinati al mondo dello spettacolo? Quale balance si dovrebbe avere tra queste ‘iniziative dal basso’ e ‘il supporto dall’alto’? 

Da una parte sono contento che (io ho cercato di partecipare in prima persona più che potevo) abbiamo fatto anche una grande raccolta fondi, dove davvero ogni artista partecipava a creare un fondo facendo delle donazioni, oppure a fare concerti per il sostegno di altre casse comuni di un settore che non ha mai avuto un sostegno, quello della musica dal vivo, che è molto diverso dal teatro, seguito dal Ministero. Ci sono i bandi, cose di cui io non ho la benché minima conoscenza. Io ho iniziato a suonare e tu facevi e fai un concerto in base a quante persone vengono a pagare il biglietto, con lo Stato non hai niente a che fare, se non che gli paghi le tasse su quello che guadagni, e questo mi è sempre sembrato perfetto per come sono fatto io. Non voglio contributi da nessuno, anche quest’anno non me ne sono occupato, non ho chiesto contributi a niente e nessuno, un po’ perché me lo potevo permettere, un po’ perché non c’ho capito niente, quindi non ho capito come sono divisi, quando arrivano, a chi. Ho contatti con tutta la mia squadra di tecnici e la situazione è comunque un “si salvi chi può” davanti a tutte le dichiarazioni. Quindi non ho capito com’è. Secondo me tante cose sono state fatte, c’era però qualche questione che mi è sembrata molto ipocrita come operazione riguardo a tutto ciò. Perché da una parte la cultura non è stata per niente salvaguardata, parlando anche solo dei musei, che secondo me è la cosa più eclatante. Dall’altra, Tiger che vende soprammobili di plastica è sempre stato aperto, a Ferrara c’era la fila in zona rossa. I musei che puoi contingentare, puoi fare la prenotazione online, puoi far entrare in pochi, sono stati sempre chiusi, poi dopo un anno sono stati aperti solo quando si era in zona gialla. Cioè è questa cosa qua oltre a essere senza senso, è un chiaro sintomo e simbolo del fatto che non è importante la cultura. Pensavo che dal primo lockdown avessimo capito che invece anche la cultura potesse salvare la vita, poteva tenere la società più equilibrata, e più sana di mente anche, e invece non è stato salvaguardata minimamente. L’essere umano ha bisogno del cibo per il corpo e di fare la fila alla cassa del supermercato, ma ha bisogno anche del cibo per l’anima, per la mente, per il cuore, per lo spirito. Questa cosa non è stata salvaguardata. Poi hai voglia a buttare l’elemosina dall’alto, però il messaggio che è passato è chiarissimo: non hai lasciato lavorare tutta una serie di persone. Le chiese erano giustamente aperte e non ci sono state stragi in chiesa e per il teatro e i musei che potevano essere la mia Chiesa, non è stata neanche presa in considerazione la possibilità. E il motivo era che comunque il Ministro della cultura, per aderire alla sua scelta politica e calcolo politico da rigorista, non ha voluto minimamente mettere in discussione questa cosa, e adesso magari vorrebbe anche passare per quello che sta riaprendo tutto il più in fretta possibile e quando occupano un teatro dice “sono con voi”. È assurda come cosa.

In “Ci abbracciamo” dici “questo Paese ha bisogno di gente piena di dubbi”, eppure viviamo in periodo storico in cui siamo costantemente stimolati a dover prendere una posizione, a dover commentare l’ultimo fatto accaduto, a dover arrivare nel posto giusto con l’intervento giusto e al momento giusto. Nell’album abbiamo trovato altri riferimenti a questa condizione di ‘precarietà’ materiale e intangibile nella quale i giovani di oggi crescono: “siamo diventati adulti per tentativi” o “cambieranno le mode, cambieranno i lavori, ti faremo sapere”, o “hai preso due lauree e altre strade”. Sembra quasi che l’iperconnettività in cui siamo immersi non conceda spazio per i dubbi e le pause di riflessione. Secondo te, come possono i giovani oggi dare valore alla curiosità e a momenti di silenzio consapevoli anziché parole non ragionate frutto di ragionamenti non metabolizzati? In altre parole, come trovare un equilibrio tra il mondo che scorre veloce, la voglia di rimanere al passo, ma gambe troppo umane per non cedere in questa corsa sfrenata e ininterrotta?

Secondo me, questo disco è pieno di battaglie che sono intime e collettive, che sono personali e universali, ed è anche pieno di fine della battaglia. Cioè uno può anche decidere di far cessare questa battaglia, che è una corsa senza fine e senza senso nello stare ai ritmi allucinanti di quello che ci circonda. Deleuze diceva molto prima dei social network che le persone non hanno bisogno di altri spazi in cui esprimersi: non abbiamo bisogno di esprimerci di più, ma quello di cui abbiamo bisogno sono interstizi di silenzio in cui fermarci e riflettere, in cui, eventualmente, emergere con qualcosa da condividere. Qualcosa che viene molto dopo la possibilità (che descrivevi bene tu), sembra di essere in un gioco a premi dove vince chi dice prima, battendo il pulsante rosso per dire la sua, senza che ancora si sia connesso il cervello alla bocca. E sembra indispensabile soprattutto dire, non cosa dici, sembra proprio il primo che lo dice la cosa importante, senza un momento di riflessione che è assolutamente fuori tempo, controproducente, bisogna solo avere il coraggio di farlo. L’unico consiglio che uno si può dare è di avere il coraggio di lasciar correre chi vuole correre, fermarsi, farsi la propria riflessione e poi eventualmente condividerla. Io credo in questo, non so se sia la cosa giusta, ma io non per niente anche nei dischi ho dei tempi biblici, credo di essere l’unico che ha fatto il disco precedente di inediti quattro anni fa, ed è una cosa (come si dice “non fatelo a casa!”) che non consiglio a nessuno perché non è sostenibile, né economicamente, né da altri punti di vista, ma a me è inevitabile, perché non saprei fare altrimenti. Chi è più veloce a scrivere, ad assimilare la realtà e non ha bisogno del silenzio per poi fare musica, quasi quasi ogni tanto lo invidio anche, però per me non c’è alternativa. 

Quindi non è che faccio un grande sforzo per prendermi questi spazi, semplicemente ho bisogno di tre ore da solo al giorno, ormai ho 37 anni, ho quantificato i miei ritmi. Non faccio male a nessuno, ma ho bisogno di essere lasciato in pace, di stare da solo, di meditare, di leggere, di studiare. Semplicemente per stare bene, non per migliorare me stesso o per rendere più bello quello che faccio, semplicemente è il mio modo di stare al mondo, ed è possibile. Tutti i giorni abbiamo la possibilità di scegliere come esseri umani, abbiamo la libertà di scegliere a cosa prestare attenzione, è il dono più grande che abbiamo. Non sono i soldi che abbiamo guadagnato, l’attenzione è la più grande cosa che abbiamo, la possiamo portare all’interno, sentire le sensazioni del corpo, le leggi dell’universo dentro il nostro corpo, il respiro che si muove da solo, come le maree, come il vento; i movimenti involontari, quelli della vita, che ci tengono in vita indipendentemente da noi, il battito del cuore. Questa cosa da secoli, sia gli antichi greci che le filosofie orientali ti dicono che ti racconta molto di più del mondo e dell’universo, sentire il respiro che va da solo, il battito del cuore che va da solo indipendentemente dalla tua volontà, più che leggere biblioteche intere. Poi puoi leggere anche biblioteche intere e avere a che fare, invece che con l’ultimo tweet, con l’ultimo post di instagram, con le più grandi menti delle donne e degli uomini degli ultimi secoli e possiamo così averli nella nostra stanza per confrontarci. C’è questa possibilità enorme. Basta solo fermarsi e pensare e uscire da questa trappola che è spesso il telefono. Le applicazioni sono fatte apposta perché sono basate sulla nostra compulsione umana, quindi addirittura la chimica che ci trascina lì ad avere una novità costante. Sono state sviluppate da psicologi comportamentali per darci assuefazione. Quindi delle volte avere uno sprazzo di lucidità, fermare questa cosa, prendersi il tempo e maturare di conseguenza una riflessione diversa. Secondo me viviamo in un’epoca di omologazione assoluta anche se le esperienze sembrano tantissime.

Io onestamente, sembro mega snob, ma non guardo le serie televisive, non ho la televisione, non uso i videogiochi, tutte robe che poi sembrano molto antipatiche da dire, però a me fa impressione il fatto che tutti, di fronte a milioni di possibilità, hanno letto tutti gli stessi quattro libri, stanno guardando tutti le stesse serie televisive, stanno andando tutti negli stessi posti in vacanza. Cioè, questa roba qua è terrificante. E per forza poi anche quello che esce artisticamente spesso è tutta la stessa roba, perché devi fare comunque esperienze diverse. Abbiamo bisogno di persone che vivano per noi anche vite diverse per portarci qualcosa di diverso. E quelli che lo fanno sono delle cattedrali nel deserto in questo momento, infatti poi ci piacciono tantissimo. Però è importante seguire dei percorsi personali, seguire la strada che nessuno ti indica. 

La precarietà economica, lavorativa e di riflessione esistenziale dei giovani adulti è una cifra contenutistica già presente durante la tua discografia precedente in brani come “L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici”, “Destini Generali”, “Questo scontro tranquillo”, “Fare i camerieri”, “Padre nostro dei satelliti” … . Più in generale, guardando allo scenario musicale indie italiano di fine ‘00, questi temi ritornavano abbastanza, invece questa riflessione è diventata più rara negli ultimi anni. Come detto prima, in questo nuovo album ritorni a parlare di questa realtà sociale composta da persone con titoli di studio e carriere avviate, apparentemente realizzate a livello pratico e di persone traballanti, che si muovono tra futuri incerti, tutti e tutte accomunate da un costante stato di languore, mancanza di gioia e di appagamento emotivo.  Quanto è importante parlare di questi argomenti nelle canzoni, soprattutto oggi, dopo un periodo in cui la precarietà è ancora più dilagante? 

Tante cose assieme.. nelle canzoni non è mai importante parlare di niente se non di quello che ti viene da dire. Non mi metto mai a tavolino a dire “ah in quest’epoca c’è bisogno di fare una canzone sulla mafia, c’è bisogno di fare una canzone sull’ambiente”. Sicuramente ci sarebbe bisogno, però io per riuscire a fare una canzone che vale non riesco a dirmi ‘in questo parlo del lavoro, in quello parlo di quell’altra cosa’. Per me proprio guardarmi dentro e attorno e poi la regola è solo “quel che arriva, arriva”, non è niente di diverso. Poi non sono convinto che nel disco ci siano persone che vivono senza gioia o cose del genere. Anzi, tutte le persone che ci sono nel disco sono storie di persone molto fiduciose, in ricerca. Una ricerca di evolversi, che guardano in faccia le cose della vita, la sofferenza inevitabile che è l’unica possibilità, quella sensibilità che ti fa sentire quella sofferenza inevitabile anche per farti sentire la gioia e la preziosità. Appunto di questi 26000 giorni che abbiamo a disposizione, pensarli così anche quello è semplicemente un modo per renderli più preziosi. Non è una cosa drammatica, in quella canzone c’è anche la frase “siamo qui per rivelarci e non per nasconderci”. Se pensiamo che abbiamo 26000 giorni, come pensano quasi tutti i personaggi in questo disco , viviamo in modo più pieno la vita, facendo i viaggi interiori ed esteriori che vogliano fare, seguendo quella strada che nessuno ci indica pienamente. Poi sicuramente possono essere tormentati, però credo si sia pieni di gioia per poter fare queste esperienze, sennò non ce la fai a uscire, a metterti in gioco. Ci vuole una grande fede nell’Universo e se stessi per vivere come vivono i personaggi che ci sono nelle storie di questo disco. Poi come dicevo sono uscite delle battaglie che sono intime e sociali. Le canzoni sono dei documenti storici ma lirici, quindi dentro ci sono i rider che corrono in bicicletta tra le macchine in missione per una multinazionale, ci sono nella stessa canzone i partigiani di Fenoglio di decenni prima che scendono dalla montagna senza divisa fra gli spari e anche lì per me è importante mettere quello che mi circonda, ma lasciare spazio in ogni canzone, anche a una briciola di eternità. Quindi non essere mai troppo stretto sull’attualità. É importante che le canzoni possano essere canzoni di trent’anni prima, forse di trent’anni dopo, in questo senso non mi concentro sul tema sociale, a un certo punto esce, esce da solo, perché appunto è un guardarsi dentro e un guardarsi attorno e quindi escono quelle cose lì perché sono basate sulla realtà.

Com’è stato tornare in studio dopo il periodo di pausa? Prendendo ad esempio molti danzatori si sono trovati in sala prove a creare, senza però avere un obiettivo, perché non hanno spettacoli in programma o se ci sono non hanno comunque spettatori. Nella musica il discorso è ancora diverso, perché oltre che al live si pensa all’incisione. Come è stato creare un album con la prospettiva che in programmazione praticamente non c’erano concerti? Quanto ha influito questo sul pensiero e sulla creazione del suono? Come sono cambiate, se sono cambiate, le sessioni in studio? Hanno assunto un valore diverso? 

Lo studio l’ho vissuto tanto da subito, perché non ne sono mai uscito praticamente. Ho uno studio mio a Ferrara quindi ho fatto il lockdown lì dentro anche dormendo lì, quindi praticamente non è che ci sono tornato, è che proprio non ci sono mai uscito quest’anno sostanzialmente. Per me è stato importante perché mi ha proprio riavvicinato all’importanza della musica, averla a disposizione per passare quei mesi in cui ero proprio da solo ‘mi ha salvato la vita’ – lo si dice banalmente da ragazzino, ma mi ha dato una direzione e un senso, per esprimermi e pensare di condividere qualcosa anche in quel tempo lì. Io credo che sia buono, a me capita di scrivere senza pensare che tutto quello che faccio debba uscire e arrivare a un pubblico. Quindi per me, per un artista è molto importante scrivere senza pensare che ci sarà un pubblico, ma essere motivato da altre cose oltre al pensare a qualcuno che ti debba applaudire e ti debba dire che sei bravo. Credo sia molto importante tenersi questo come un processo proprio, intimo, personale di crescita, di conoscenza di se stessi, di conoscenza del mondo indipendentemente dalla possibilità che ci sia o non ci sia un pubblico. Quindi, devo dire che io questa parte me la sono anche goduta: l’essere io solo con la musica ed esprimermi con quello.

Articolo di Erika Ravot, Aurora Grazioli e Daniela Ionita