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Scavare nel desiderio: intervista ad André Aciman
Una fontana d’erba alle sue spalle, curve d’archi sulla testa e dietro rettangoli di vetri, riflettenti, come le sue parole. L’ho incontrato alla Casa delle Letterature, a Roma, in occasione del lancio del suo ultimo romanzo: Idillio sulla High Line, presentato al Festival Salerno Letteratura. Ci siamo visti nel giardino interno. Non l’ho scelto io, quel luogo, ma ero lì, di fatto proprio per quello, scoprire l’interno. André Aciman pronuncia le parole a voce bassa, quasi sussurrando.
Chi conosce il valore delle parole ne distribuisce bene i pesi. Nato in una famiglia ebraico-sefardita di origini turche, è cresciuto ad Alessandria d’Egitto, ha vissuto a Roma per un breve periodo e poi si è trasferito a New York, dove vive tuttora. La sua scrittura è lucida e la sua parola franca, di chi esita solo per affinare meglio il pensiero. André Aciman è un autore in cui si sprofonda senza accorgersene. Chiamami col tuo nome è stato il suo esordio. Subito dopo ha scritto Notti Bianche, nel 2017 Variazione su un tema originale, nel 2019 Cercami e infine Idillio sulla High Line.
Mentre discutevamo ho fatto caso agli spazi, alle pause e ai vuoti, tanti, perché tanti erano i pensieri. Timido e calmo, con la barba bianca, indice di saggezza. Mi ha stretto la mano e ha sorriso. Ho pensato: «Ha gli occhi di chi ha vissuto tanto».
Lei scrive d’amore e lo fa attraverso storie non convenzionali. Call me by your name è una storia queer. Idillio sulla high line una storia sul diritto all’amore, l’unica forma di resistenza possibile contro lo scorrere del tempo. Parla, dunque, di amori incompiuti, difficili, amori rimpianti. Da cosa nasce l’esigenza di raccontare l’altra faccia dell’amore?
Non so se è un’altra faccia, perché la gente si riconosce subito in quella faccia lì. Dunque significa che c’è qualcosa di molto candido, onesto, franco, nel descrivere le emozioni che una persona prova mentre desidera un’altra persona. Secondo me il desiderio non è mai una cosa immediata, non è una cosa semplice. C’è confusione. Vogliamo desiderare o non vogliamo desiderare? Ci piace il fatto di toccare un’altra persona o ci vergogniamo e non vogliamo veramente farlo? Questa è la domanda che si fa Elio (Call me by your name) e si fanno tutti i miei personaggi. C’è questa forma di riluttanza. Le cose che sembrano ovvie a tutti gli altri scrittori, non sempre sono ovvie. Ti amo, quindi ti voglio baciare… no, non è sempre così.
Dunque c’è un’attenta analisi della psicologia dei personaggi?
Sempre. Ed è quello che mi piace di più, indagare la psicologia dei personaggi. Ci sono più modi per farlo. L’amore è uno di questi, certamente, come la religione, la politica. Io ho scelto l’amore perché è quello che mi interessa di più.
In un’intervista ha dichiarato che l’unico amore che resiste è quello che non è ancora stato consumato.
È quello che continua ad esistere, sì. Perché se è stato consumato, qualcosa è già successo. Si può anche dire che l’abbiamo più o meno sistemato. In fondo l’amore che ci segue e ci prosegue è quello che non abbiamo vissuto o che non abbiamo vissuto completamente. È qualcosa di incompiuto. L’incompiuto è ciò che dura di più, come la nostalgia. Ogni volta che pensiamo a cose incompiute le reinventiamo. Ogni volta. Quello è il bello, come la gelosia. Di questo amore incompiuto, di fatto, non sappiamo cosa farcene ma continua ad esistere.
Come vede uno scrittore il suo primo adattamento cinematografico? Come è vedere la propria storia in immagini, dopo averla immaginata e scritta?
Quando ho conosciuto James Ivory, lo sceneggiatore e Luca Guadagnino, il regista di Chiamami col tuo nome, mi hanno detto che avrebbero cambiato un po’ di cose. Io ho risposto: «Va bene, io ho già scritto il libro. Voi fate quello che volete». Non mi sono mai intromesso. Quando ho visto il film, mi è piaciuto e sono stato contento di vedere che alcuni dialoghi erano stati riportati letteralmente, con le stesse parole. Il discorso finale del padre è quasi citato parola per parola. Quando lo recitava Michael Stuhlbarg, io dicevo: «Sono copiate, sono così come le ho scritte». Ero contento. E sono contento anche del finale del film, che non è il finale del romanzo, ma mi è piaciuto. E ho detto a Luca: «Il finale del tuo film è migliore del finale del mio romanzo. Cosa faccio adesso?».
Lei è uno dei maggiori esperti contemporanei di Proust. In che modo la sua figura influenza la sua letteratura, se la influenza?
Ovviamente la influenza, non vorrei ammetterlo, ma è impossibile non farlo. Molte cose in Proust mi interessano. La psicologia dei personaggi prima di tutto. La sua è senza tregua, continua a scavare, a scavare nelle loro soggettività. Cambia idea e continua. Non c’è niente di tangibile nei suoi personaggi. Non vengono mai conosciuti davvero. Come la gente che non viene mai amata per quello che è. Un’altra cosa è sicuramente lo stile. La lunghezza dei periodi lascia più spazio all’indagine, al contrario delle frasi brevi.
Quando scrive, lei sa già come finiranno le sue storie, o segue i personaggi nel loro farsi?
Non lo so mai. Non ho la minima idea di come andrà a finire. Però, verso la fine di un romanzo, vedo benissimo quali sono le vie che potrebbe prendere e quindi le voglio coltivare tutte. Poi comincio a scartare, mi rendo conto, a un certo punto, che una non andrà, l’altra neanche e allora proseguo con l’unica che mi convince. Non è mai il personaggio a dirmi dove andare, è piuttosto lo scrittore che è in me a decidere qual è la direzione che ha più senso, quella più naturale. Chiamami col tuo nome aveva molti finali, in fondo. Poi ne ho scelto solo uno.
C’è mai stato qualche personaggio che l’ha sorpreso, nel corso della storia, che cioè immaginava avrebbe agito in un modo e invece ha agito in un altro?
No, sa perché? Perché, in fondo, tutti i personaggi hanno un lato che è prima di tutto in me. I ragazzi, le ragazze, i vecchi, i giovani, sono tutti in me, fanno parte di quello che io ho proiettato in loro. Per questo i personaggi non mi sorprendono mai, perché già li conosco. Ma, dal momento che io, come gli altri, ho molte voci, molte maschere, tante personalità, se qualcuno dei personaggi fa qualcosa che io non farei, quando ci penso meglio, scopro che sarei in grado anch’io di fare quella stessa cosa.
Dieci anni dopo l’uscita di Call me by your name, esce Cercami. Il romanzo segue le vite di Samuel Perlman, suo figlio Elio Perlman e Oliver, personaggi introdotti nel romanzo Chiamami col tuo nome. C’era qualcosa di inesplorato o rimasto in sospeso che intendeva ancora indagare o sviscerare?
Sì, volevo capire meglio la figura del padre. Questo uomo che fa un discorso di quello spessore al figlio, che lo accetta senza esitare. Mi sono chiesto che vita avesse vissuto, che altro gli rimaneva. Come avrebbe potuto vivere un uomo così.
In Chiamami col tuo nome, ma forse più in Variazione sul tema originale, c’è la relazione tra padre e figlio che sembra una proiezione di uno nell’altro. Che cosa significa, per lei, la relazione paterna?
È una relazione di onestà tra due persone che hanno molto in comune, ma sono anche diverse. Il rapporto che ho con i miei figli è un rapporto immediato e di amicizia, di amore ovviamente, non un amore difficile, un amore facile. A me è sempre piaciuto il rapporto con mio padre, ma il rapporto con mia madre era molto più intenso. Amavo mia madre, molto più che mio padre. Però quando scrivo, scrivo di mio padre, non scrivo quasi mai di mia madre, perché è come andare oltre il limite che mi è permesso. Non scrivo mai di mio fratello, benché gli voglia un gran bene. Il rapporto col padre, per me, è un rapporto di intimità e ne scrivo perché mi riesce più facile, sebbene, ripeto, il rapporto d’intimità con mia madre è stato molto più intenso. Forse è immacolato. Ci sono stati momenti difficili, quando volevo che morisse (ride) perché non ne potevo più. Bisogna essere onesti. Mio padre non volevo che morisse, perché non lo amavo quanto amavo mia madre.
L’Italia torna sempre nei suoi romanzi. Che importanza ha e che influenza ha avuto nella sua scrittura o nella sua vita come scrittore?
L’Italia per me è sempre un modo per parlare di desiderio. Ho scoperto che bramavo certa gente quando ero in Italia. Avevo quindici anni, ero molto giovane. In Italia ho capito cosa volesse dire desiderare di toccare una persona, non solo amarla. Da quel momento in poi, quando scrivo di desiderio e di amore, di qualsiasi tipo di struggimento, torno sempre in Italia. Anche in Idillio sulla High Line; la storia è interamente svolta a New York, ma nel finale, quando cercavo il finale che faceva fatica ad arrivare, alla fine è arrivato, come un regalo, da una madre italiana, una madre napoletana.
Se il desiderio fosse una città italiana, quale sarebbe per lei?
Forse Roma, perché è qui che ho desiderato il più grande numero di persone nella mia vita, anche se ho vissuto a Roma solo per tre anni. Però è stato a Roma che ho scoperto, veramente, questa cosa che provo, che non ho mai provato prima.
Continuerà a scrivere d’amore? L’amore rimarrà il topos della sua letteratura?
Non posso rispondere a questa domanda in maniera categorica. Quello che posso dire è che sto scrivendo, sto terminando un romanzo sui miei anni in Italia, su cosa ho fatto e su cosa avrei voluto non fare. Scrivere di quel periodo significa scrivere di nuovo di amore.
Lei crede che la scrittura la prepari agli eventi della vita? Le permette di conoscersi, dopo aver scritto?
Non lo so. A volte penso che la scrittura concretizzi le cose. Ma le concretizza, e questo è il bello, solo per un po’ di tempo, non per sempre. Dopo tre giorni, il problema che pensavo di aver risolto, si ripresenta come irrisolto. Eccolo, che appare di nuovo, da capo. E bisogna ricominciare, riscrivere di nuovo la storia di un giovane che incontra un uomo che lo desidera, il padre lo sa, forse il padre è coinvolto in questa storia. Credevo di aver risolto questo problema, invece non l’ho risolto per niente. Il bello è che ogni volta che scrivo un’altra storia e penso di aver trovato il punto finale, alla fine non l’ho fatto. Uno dei problemi degli scrittori è evitare di ripetersi.
Articolo di Giulia Della Cioppa