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Intervista a Elisa Cuter
Se il femminismo e la politica ripartissero dal desiderio
In occasione delle nuove uscite editoriali di Elisa Cuter (Ripartire dal desiderio, minimum fax, 2020), e di Silvia Federici (Caccia alle streghe, guerra alle donne, Nero editions, 2020) abbiamo riflettuto sull’apporto di questi testi al panorama femminista contemporaneo, attualmente permeato da un orientamento liberale e progressista che stenta a considerare le rivendicazioni femministe come ascrivibili alla dimensione politica. Queste nuove uscite, sia nei riferimenti che nelle istanze, rimandano ad una corrente che mette in evidenza la connotazione più politica del femminismo e fonda sul connubio tra questione di genere e di classe le sue premesse teoriche, ponendosi criticamente rispetto al sistema capitalista in quanto modello che accresce le disuguaglianze. In Ripartire dal desiderio l’autrice riflette su alcune di queste tematiche, suggerendo nuovi spunti sul rapporto con il desiderio in quanto dimensione non universalizzabile e non coniugabile con le categorie morali e con il binarismo di genere; oltre che, soprattutto, non colonizzabile dal capitalismo.
Abbiamo rivolto alcune domande in merito a Elisa Cuter, dottoranda e assistente di ricerca alla Filmuniversität Konrad Wolf di Babelsberg. Editor del Tascabile, si è occupata di critica cinematografica e questioni di genere per diverse testate. Ripartire dal desiderio è il suo primo libro.
Nel finale del libro parli di come ti sentissi, una volta chiuso e mandato in stampa il testo, non tanto soddisfatta come comunemente si sentono le persone alla fine di un lavoro di questo genere, ma anzi terrorizzata. Come sta andando ora, dopo qualche tempo dalla pubblicazione, la ricezione del libro?
Devo dire che sono ancora molto stressata e angosciata, non so bene come reagirei se ci fosse qualche stroncatura. Mi ha stupito il fatto che anche da contesti molto diversi il libro sia stato apprezzato e compreso, questo mi fa pensare che forse sono riuscita a racchiudere una serie di idee e pensieri comuni a molte persone, ma che magari all’interno di questa costante guerra ideologica e tra sessi non avevano il coraggio di esporli. C’è la costante sensazione di doversi sempre posizionare che spesso dissuade un po’ dall’esplicitare le proprie opinioni sincere rispetto ad alcune tematiche. Oltretutto è un peccato che queste forme di “sorellanza” debbano essere per forza pensate come un fronte compatto; abbiamo un’idea anche distorta a volte di come storicamente certe prassi fossero attuate, la pratica dell’autocoscienza femminista serviva anche per decostruire alcune immagini e autonarrazioni, si discuteva e venivano dati vari feedback in merito ai diversi temi, non si era tutte compatte su una stessa posizione. Adesso per ogni fatto che accade sembra debba costituirsi subito un fronte di difesa agguerrito di tutte le donne che difendono la “vittima” femminile, ed è avvilente come dinamica anche per le donne. Così la donna stessa non viene trattata da persona ma sempre da vittima da proteggere e tutelare.
In un altro testo uscito di recente, King Kong Théorie di Virginie Despentes, l’autrice faceva riferimento a come fosse stata per anni lontana anni luce dal femminismo, in quanto per lungo tempo la sua appartenenza sessuale non le aveva impedito granchè. Com’è stato invece il tuo avvicinamento a queste tematiche? Ci sei arrivata in seguito a un evento o un fattore scatenante, o è sorto come interesse spontaneo?
Mi sono sempre sentita, a partire dal liceo, piuttosto vicina a questi temi. Forse in parte perché ho vissuto un po’ con lo stigma di essere stata spesso considerata troppo libertina, e forse in parte anche perché sono stata cresciuta all’interno di una famiglia molto cattolica, questo ha scatenato in me il bisogno di ottenere il permesso di fare alcune cose e non soltanto di prendermele facendole di nascosto. Con il primo ragazzo ad esempio: non accettavo di andare a dormire da lui in segreto, magari coprendo il misfatto con qualche bugia, ma cercavo sempre il permesso dei miei nel poterlo fare e nel portare a galla queste cose. Poi in seguito ho iniziato a scrivere su Soft Revolution, in un tempo in cui ancora il dibattito femminista non era forte come adesso in Italia, è stato comunque un progetto a quel tempo molto significativo per il panorama nazionale e anche per me essendo il primo avvicinamento di questo genere alla scrittura.
Su alcuni temi poi c’era un po’ di chiusura che con il tempo mi ha portato ad allontanarmi, come il fatto di non far scrivere i ragazzi di argomenti femministi. Questo mi dava particolarmente fastidio perché poi finisce per costituire quell’ennesimo lavoro di cura che ci si sobbarca, come se fosse sempre il nostro tema, perpetuando quella divisione del lavoro in base al genere. Una divisione che comunque anche nel giornalismo e nell’ambito editoriale io sento ancora molto forte: gli uomini tendenzialmente sono preponderanti quando si tratta di inchieste, geopolitica e argomenti di questo tipo, e le donne si trovano sempre su altri fronti, soprattutto, come nel mio caso, a scrivere di tematiche di genere. E di questo un po’ mi dispiaccio infatti, si ricrea poi anche un po’ quel confirmation bias che continua ad alimentare queste prassi.
Il femminismo nella maggior parte dei casi viene difficilmente percepito come riflessione e discorso politico, viene sempre considerato un po’ a parte. La prima cosa a cui normalmente si approda con l’interessamento per queste tematiche è naturalmente il femminismo più mainstream, più liberale, che lascia, appunto, l’ambito politico da parte ed estrapola soltanto alcuni concetti femministi, spesso strumentalizzandoli. Pensi che oggi sia possibile arrivare ad avvicinarsi a questi temi senza “passare” per questo tipo di visione del femminismo?
C’è indubbiamente un’intersezione tra la questione di classe e quella femminista, seppure restino comunque due ambiti separati. Secondo me il punto è che, per come vengono affrontati i temi femministi da tutta una serie di realtà e piattaforme, suscitano spesso quel bisogno di conferma di idee e convinzioni che sono già insite in chi si interfaccia con i loro contenuti. Questo però purtroppo non significa che da questo genere di percorsi si possa fare un passaggio successivo e che alcune di queste riflessioni e convinzioni diventino realmente politiche. Detto questo, come si dice anche di altre esperienze, questo genere di femminismo ha fatto anche cose buone.
Anche perché in generale in Italia è difficile trovare una rappresentanza politica vera e propria che sia di sinistra, e forse questo aiuterebbe anche nel dibattito femminista, perché manca una vera e propria alternativa a progetti come Freeda, Bossy e simili, quindi poi la maggior parte delle persone finiscono per avvicinarsi a prospettive più liberali perché il discorso femminista viene sempre trattato come una cosa a parte dalla politica, e va a finire che poi ti ritrovi soltanto con un sacco di smalti che ti ha consigliato Freeda e nient’altro.
Rispetto al fatto che un certo tipo di femminismo abbia “fatto anche cose buone”: nel libro esprimi una certa criticità nei confronti delle insistenze sul tema del consenso, della cura di sé e dello scardinamento di una serie di stereotipi di genere. Pensi che la possibilità di desiderare come lo facciamo ora sarebbe stata altrettanto libera senza questi processi portati avanti da un femminismo più liberale ed essenzialista?
No, assolutamente, sono molto convinta che la normalizzazione di queste tematiche aiuti moltissimo. Al tempo stesso mi dispiace che soprattutto per quanto riguarda alcuni progetti interessanti da questo punto di vista si fatichi a fare il passo successivo e spesso si scivoli nel “prenditi cura di te”, “cura la tua immagine”. Diventano cose che portano un po’ al fatto che tu debba necessariamente avere una sessualità libera e disinibita perché questo ti rende più forte e poi invece nella maggior parte dei casi il peso che continuiamo a dare alle relazioni di coppia, anche tossiche, è enorme. Io stessa mi sono ritenuta una persona ormai libera e emancipata per anni, anche all’interno di una relazione tossica in cui poi mi sono resa conto solo dopo di quanto dipendessi di fatto da questo tipo di rapporto. Il desiderio però è anche questo, è creare una relazione con una persona pur rimanendo due individui separati, vedendo come il desiderio possa però cambiare entrambi, e di questo si parla sempre pochissimo.
Tu in questo genere di dibattito vedi differenze tra il panorama tedesco (in particolare berlinese) e quello italiano?
Qui indubbiamente esistono una serie di ambienti più radicali molto interessanti, al tempo stesso ho spesso l’impressione che la Germania sia in una condizione anche peggiore rispetto all’Italia dal momento in cui vivono in uno stato incredibile di sudditanza nei confronti degli Stati Uniti. Il panorama di sinistra qui è completamente filo-sionista per dire, e ci sono anche moltissime persone vicine all’ambiente universitario che non hanno minimamente idea e considerazione del discorso marxista e di classe. Poi io personalmente al tempo stesso fatico molto a trovarmi con gli ambienti di attivismo, sicuramente sono anche io che sono molto rigida su alcuni fronti.
Il testo passa dal macro al micro, dai mutamenti sociali e femminilizzazione della società al “rimosso” delle singole, ossia il desiderio. Ma questa dimensione del desiderio come si concilia con la lotta di classe/la rivoluzione?
La verità è che una risposta vera e propria non ce l’ho. Io sono dell’idea che certe cose ci sembrino comunque sempre incontrollabili, quindi quello che mi sento di poter fare è controllare quegli spazi che posso effettivamente controllare: la sessualità, il rapporto con l’altro, etc., su altri fronti invece sappiamo tutti che il capitale finanziario va avanti per la sua strada mentre invece noi ci concentriamo su discussioni relativamente sterili. Per me comunque su alcune cose ci si dovrebbe mettere d’accordo in modo razionale, penso che il comunismo sia anche una fiducia nel fatto che le persone collettivamente possano fare di più di ciò che possono fare i singoli ognuno per sé. Mentre il genere e la razza sono costrutti sociali la questione materiale e di classe è qualcosa che devi constatare ogni volta che apri il tuo estratto conto, e noti che hai meno risorse di altri, noti che il potere e le risorse sono sempre sproporzionate. Se ci concentrassimo più spesso su questo piuttosto che sulle questioni etiche magari potremmo scoprire anche nuovi desideri. Poi magari invece scopriremmo che siamo tutti mossi dal desiderio sadico di sfruttare gli altri, ma questo non possiamo saperlo comunque, quello che possiamo sapere sono cose invece più limitate e semplici: tipo decidere per una redistribuzione delle risorse. Ma sembra più spesso sia importante stabilire prima quali sono gli hard and soft limits che ci si vuole porre nelle relazioni sessuali, mentre secondo me quello viene di conseguenza, sono cose che non puoi decidere a priori ma che scopri con il desiderio. Quello che posso sapere a priori è che voglio delle tutele sul lavoro e voglio l’aborto, per dire. So che di fatto poi nel pratico l’applicazione di questo genere di desideri è molto meno semplice e immediata, ma penso sia importante concentrarsi su questo genere di approccio.
La forza del libro sta, secondo noi, nella capacità che hai avuto di declinare una serie di tematiche tipicamente care ad alcune correnti del femminismo rendendole con delle riflessioni molto legate a riferimenti attuali. Questo è un punto di forza potente anche per avvicinare a questa corrente di pensiero, leggendone appunto delle declinazioni che siano calate in una dimensione vicina. Qual è stato l’intento da cui sei partita con la scrittura di questo testo?
Io penso che sia a suo modo un libro divulgativo, anche se diverse amiche mi hanno fatto notare che è forse rispetto troppo complesso in alcuni passaggi rispetto a questo intento. Il mio obiettivo era sicuramente quello di rifiutare programmaticamente quella postura materna e maestrina molto diffusa in un certo femminismo, che tende a dire cosa devi fare e com’è giusto farlo, al tempo stesso credo non sia un libro inaccessibile. Quando è uscito ero così spaventata perché mi sembrava di camminare nuda per strada: contiene tutti i miei dubbi, le mie insicurezze, oltre agli aneddoti personali, e spero in questo risulti accessibile proprio perché dà la misura di una ricerca fortemente personale e spero inviti alla riflessione e alla ricerca appunto personale, senza delle indicazioni programmatiche.
I titoli dei capitoli richiamano a vari altri testi sia di narrativa che di saggistica, l’ultimo capitolo è dedicato a Fisher e tocca anche alcune sue riflessioni, soprattutto rispetto alla sinistra intesa come moralizing left, credi che la sinistra oggi dovrebbe ripartire dal desiderio?
Certo, indubbiamente, per me la sinistra riparta dal desiderio! Mi piacerebbe anche riconoscermi di più in certi spazi e movimenti. Mi viene in mente il Sinistralibro, spesso lì ci si scanna anche se resta uno spazio dove c’è una visione del mondo comune, ma in cui comunque si può anche litigare, poi certo, purtroppo restano spazi unicamente digitali, è fantascienza pensare da lì possa nascere un partito e forse anche uno spazio reale.
Articolo di Arianna Preite