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Intervista a Margherita Vicario
Tutte le direzioni di un'artista che sta oltrepassando i confini del pop
Era gennaio 2019 quando uscì Abaué, il primo singolo nato dalla collaborazione tra Margherita Vicario, attrice e cantautrice, e Dade, produttore e membro dello storico gruppo nu metal Linea 77. Quello che sembrava un esperimento – una litania ipnotica che univa archi ed elettronica, italiano e francese nel raccontare la scomparsa di un trapper – si è trasformato nel punto di partenza per una carrellata di brani sempre diversi, capaci ogni volta di spostare un po’ più in là i limiti del pop in Italia. Bingo, uscito il 14 maggio, è un album che raccoglie questi singoli insieme a 6 inediti, in un saliscendi spiazzante di sound e di liriche a volte taglienti e a volte toccanti, che attraversa il teatro canzone, l’art pop e l’elettronica. A tenere uniti i fili di tutto questo è il carisma istrionico della cantautrice romana, capace di raccontare con ironia e schiettezza un mondo fatto di religione e femminismo, di gelati aspri e confessioni al Pincio. In occasione dell’uscita dell’album, abbiamo parlato con Margherita Vicario del rapporto oggi tra musica e temi sociali, dell’alchimia in studio con Dade e dei luoghi che vengono citati nei suoi testi. Una chiacchierata tra passato e presente, per capire meglio la visione artistica e le sensazioni che l’hanno accompagnata durante la lavorazione di Bingo.
Hai parlato di “Bingo” come di una “raccolta della mia storia degli ultimi tempi” e in effetti è un album che sintetizza il tuo percorso iniziato nel 2019 con “Abaué”. Come hai vissuto questi due anni durante i quali la tua carriera musicale ha preso il decollo e come si sono riversati nell’album?
Ora che me ne rendo conto, guardando la copertina del disco, li ho vissuti esattamente così. Qualsiasi singolo che usciva dicevo “Sì ok va bene, ma quando facciamo il disco?”. Nel frattempo invece lo stavo proprio facendo il disco, ero impaziente di qualcosa che in realtà ancora non avevo sottomano. Piano piano ovviamente i singoli e il feedback che ho avuto dal lavoro mi hanno fatto sentire sempre un po’ più sicura di me. Pensavo “Ok allora sto prendendo una direzione, il disco sarà così.”. Noi pubblicavamo senza avere idea di cosa sarebbe venuto dopo, quindi l’abbiamo vissuta davvero come gli chef che preparano i piatti e poi devono aspettare il giudizio dalla sala. Quindi il disco me lo sono vissuto proprio come la copertina, cercando di afferrarlo il prima possibile. Sono contenta perché c’è stata molta aspettativa e ora dai primi feedback mi sembra che non sia stata delusa. Dopo quei grandi singoli e tutto il lavoro pensavo che mi avrebbero detto “E vabbè ma ci sono pochi pezzi nuovi!”, però anche se ci sono pochi inediti in realtà ognuno se avessi potuto trattarlo come singolo sarebbe stato comunque bello denso. Bingo poi già dal titolo è per me una realizzazione, vuol dire che ce l’ho fatta a prescindere dal mercato e dal pubblico, che quello che volevo fare l’ho fatto. Ho fatto veramente bingo a incontrare Dade perché sono stati due anni in cui io e lui siamo stati chiusi in studio a fare esperimenti, prima con Inri con i primi tre singoli e poi con Island che ha sostenuto totalmente questo modo di procedere. Per questo mi reputo molto fortunata.
Venendo proprio alle produzioni, nell’album tu e Dade vi siete mossi in tantissime direzioni diverse sia a livello sonoro che di scrittura, passando dalle sonorità latine al cantautorato, con anche qualche incursione nel rap. La sensazione all’ascolto è che l’incontro tra due personalità così poliedriche sia stata la miccia decisiva per declinare la tua vena teatrale in direzioni che non avevi mai sperimentato. Come avete lavorato in studio e come siete riusciti a trovare una sintesi tra le vostre due visioni?
Auguro a tutti di trovare un Dade lungo il loro percorso, perché trovare le persone giuste con cui lavorare è un po’ la svolta. Io mi presto un po’ a tutto, anche per la mia natura di attrice. Se Dade mi dice “Fai un pezzo rap” io gioco a fare un pezzo rap. È il mio regista, poi penso io ai testi anche se in molto mi ha aiutato lui, facendo un po’ da Socrate e punzecchiandomi ogni tanto. Dal punto di vista stilistico tutte le canzoni hanno avuto un lavoro di coppia. Io poi scrivo molto di più di quello che serve: di dieci strofe ne scelgo due e lui mi aiuta a selezionare. Pincio, per esempio, che era un brano piano e voce in 3/4, Dade l’ha completamente stravolto. Ci abbiamo messo tantissimi mesi a chiuderlo, non riuscivamo a trovare la veste adatta. Dade mi ha detto “O la fai col quartetto d’archi e la lasci così oppure bisogna farla a cassa dritta e stravolgerla” e io ho pensato ai The Blaze come reference. Lì per esempio ha insistito molto e l’ho lasciato fare visto che poi abbiamo trovato la quadra. Poi proprio perché mi mancava il pezzo piano e archi, che ci doveva essere perché è parte di me, abbiamo creato Come Noi: sono partita dal piano e voce e poi lui mi ha aiutato a trovare un ritornello quasi da musical. Carlo Pastore ha definito l’album caleidoscopico e io mi ci rivedo, anche perchè ho studiato e nasco principalmente come attrice, è un percorso che mi ha dato lo spunto per declinare la musica a seconda di quello che racconto. In quello sono caleidoscopica, cambio colore a seconda di quello che serve, che in pratica è quello che fanno gli attori. L’istinto teatrale lo ho da sempre, quando mi metto a scrivere una canzone sono soddisfatta e mi piace solo se ha quell’impronta lì. È una questione proprio di gusto, sono esigente con me stessa.
Nel 2014 avevi già realizzato un album, “Minimal Musical”, che come suggerisce il titolo era una collezione di scenette di vita quotidiana, una piccola pièce teatrale in musica. Era un disco che non aveva ancora la stessa ambizione di “Bingo”, anche se già spiccava il tuo occhio ironico e un po’ caustico nei testi. Che tipo di consapevolezza artistica hai sviluppato oggi rispetto ad allora?
La mia consapevolezza è cambiata perché sono proprio cambiata io come persona, prima avevo vent’anni e ora ne ho trenta. Ora che mi ci fai pensare è stata cruciale anche lì la figura del produttore. Minimal Musical è stato prodotto da Roberto Angelini, che con quel disco mi ha detto “Sai che c’è? Non ti cambierò neanche una virgola. Tu vuoi fare questa musica così di scenette teatrali? Va bene, io te l’arrangio, produco e basta”. Quell’inizio mi ha portato poi a lavorare così anche con Dade, lui per primo mi ha dato una sicurezza nel farmi fare come volevo. Forse una piccola consapevolezza ce l’avevo fin da subito perché ho avuto la fortuna di lavorare con qualcuno che mi ha detto “Chissenefrega di fare i ritornelli e del mercato”. Ovviamente poi crescendo ho detto “Beh, chissenefrega del mercato e dei ritornelli anche fino a un certo punto! Di esperimenti pazzi teatrali in cameretta ne ho fatti, ora troviamo un modo quantomeno di entrare nella scena”. Nel mio periodo di silenzio ho visto da vicino il cambiamento di leva, l’indie che diventa mainstream con i vari Calcutta, Frah Quintale e Carl Brave, la scena di cui ora faccio parte. Vedendola però da vicino in quel periodo di pausa ho detto “Devo trovare un modo di evolvermi, di fare musica anche io divertente” e in quello l’incontro con Dade e l’ingresso in Island me lo hanno permesso. La penna è rimasta la stessa, il mio modo di scrivere e di essere libera, però con un po’ più di struttura e un occhio verso il fuori.
Tra i testi e i video, in “Bingo” fai viaggiare l’ascoltatore dal Pincio a Piazza Vittorio, fino all’Idroscalo di Ostia: sono luoghi geograficamente agli antipodi, che raccontano anche periodi diversi della tua vita. Ti andrebbe di tracciare una piccola mappa dei posti che, anche se non hai citato, fanno parte del disco e ti hanno accompagnato durante la sua lavorazione?
Si parte dalla mia camera, per Abaué ero io da sola in camera con la mia tastiera. Quello è proprio il punto di partenza, ma lo è sempre. Poi è una mappa che si mischia, mischia anche i ricordi con i luoghi veri e propri. Sicuramente stando a Roma c’è molta Piazza Vittorio, che è un posto in cui ho vissuto, ci sono il Pincio e Via Del Corso che è dove vanno i quattordicenni e dove andavo a quell’età. Oltre a Roma c’è Ostia, perché c’è anche questa adolescenza in cui andavo con il mio cinquantino fino ad Ostia sulla Cristoforo Colombo in salita, non so davvero come ci arrivavo (ride). Però c’è anche Caserta perché c’è Speranza, mentre Roma torna con Elodie perché più romana di lei… E poi c’è moltissima Torino, perché tutto il lavoro con Dade è stato fatto a lì e Torino in generale mi ha accolto ed è la mia seconda città. C’è anche il fiume Dora in Come Va, ma anche nella stessa Mandela il video è stato girato a Torino, perché ogni grande città ha il suo quartiere multietnico e nonostante la canzone fosse nata all’Esquilino il video l’ho girato nel quartiere di Porta Palazzo. Bingo è un disco che mi ha portato un po’ ovunque.
Un altro aspetto che colpisce di “Bingo” è naturalezza con la quale riesci a trattare tematiche impegnative in maniera netta ma allo stesso tempo leggera. Mi viene da pensare a “Giubbottino”, che è un inno all’emancipazione sessuale femminile, oppure “Troppi preti troppe suore” nella quale la critica del mondo clericale è affidata a un coro di bambini. In un periodo nel quale gli artisti sono portati a esporsi quasi solo sui social o sui grandi palchi, trovi che mettere di nuovo i temi sociali e politici al centro della musica sia la chiave migliore per stimolare il dibattito?
Penso che la musica di per sé ha un potere incalcolabile: quando uno ascolta una canzone le note, la melodia, il tono in cui canti trova una via un po’ diversa da quella del testo e delle parole che dici. Se inserisco degli argomenti un po’ più politici, anche dei giudizi miei e dei miei punti di vista sulla società in musica, bene o male li aiuto ad arrivare alla meta in maniera un po’ più irrazionale e istintiva. Non mi scorderò mai un commento che un giorno mi fecero sotto il video di Mandela, una canzone che di base parla di accoglienza e che spera in una società più accogliente di natura, che diceva: “Stendiamo un velo pietoso sui contenuti ma la canzone è bellissima”. E allora vuol dire che sotto sotto quei contenuti non pensi che siano così incondivisibili, perché la canzone ti è piaciuta anche perché dice quello. La musica non deve per forza farsi portavoce di qualcosa, si parte sempre dal singolo cittadino. Se pensi a Fedez anche lui usa il suo potere artistico e mediatico, ma prima di tutto è un cittadino. Stessa identica cosa per me, perché anche io prima di essere una cantautrice e cantante partecipo alla vita del paese. La musica prima era più concentrata su temi sociali, c’erano le canzoni impegnate, mentre oggi mi sembrano più citazioniste proprio grazie ai social. In generale i politici sono diventati dei meme e dei personaggi pop: con i social si tendono a far passare dei messaggi violentissimi con leggerezza e tutto questo è molto grottesco. Io poi sono terrorizzata dal peso dei grandi temi e infatti una canzone aiuta molto in questo senso, perché puoi dire qualcosa in una maniera molto sintetica e usando immagini. Detesto quelli che detengono la verità e per questo porto sempre delle esperienze personali. Il tono ironico un po’ ce l’ho io per affrontare la vita – il Bingo poi di per sé è un posto un po’ tragico e cupo – però c’è anche il lato adrenalinico e divertente. Dade mi conosce e sa come sono nella vita: l’ironia è l’unico modo che conosco per affrontare degli argomenti giganti nel modo in cui mi va.
Quest’estate, Covid-19 permettendo, ricominceranno i live, anche se nella cornice anomala del distanziamento e del contingentamento del pubblico. L’anno scorso hai avuto l’occasione di fare un tour estivo e poco fa hai annunciato il “Bingo Tour”, con il quale porterai l’album in giro per l’Italia. Come vuoi affrontare queste date, anche rispetto all’esperienza del 2020?
Purtroppo la mia sfortuna è che mi porto in giro un live che è da vedere in piedi. Già l’anno scorso ho testato sulla mia pelle quanto può essere frustrante sia per me sia per chi guarda vedere un concerto come il mio da seduti. Mentre il mio primo repertorio era totalmente da guardare seduti, perché era teatro canzone puro e invece stavano tutti in piedi con le birre, adesso paradossalmente sono stata punita dal destino e ho un repertorio proprio da ballare, che fomenta. Però non ho intenzione di cambiarlo e di riadattarlo, voglio che sia un live esplosivo anche se fossi io l’unica insieme alla mia corista e ai musicisti a ballarlo. È proprio la sua natura, infatti spero che ci facciano vedere i concerti almeno in piedi, con la mascherina e distanziati. Se così non sarà pazienza, vuol dire che la gente “si ballerà sotto”.
Articolo di Jacopo Andrea Panno