Intervista a Marina Spadafora

Marina Spadafora è un’attivista che da sempre lotta per una moda più sostenibile, nonché coordinatrice nazionale di Fashion Revolution, un movimento globale che ha come obiettivo quello di incentivare un’industria della moda che sia trasparente e che metta al centro le persone, invece del profitto. Spadafora ha ricevuto a New York il premio delle Nazioni Unite “Women Together Award” per il lavoro svolto con le artigiane tessili nel mondo.

Il Fast Fashion è, infatti, uno degli argomenti che più è diventato comune nel dibattito pubblico. Con la proliferazione nel corso degli ultimi 20 anni di catene di abbigliamento che producono capi cosiddetti “usa e getta”, composti cioè da materiali di scarsa qualità la cui produzione non rispetta i termini di sostenibilità né ambientale né sociale, il tema è sempre più affrontato. I vari problemi che ne conseguono, tuttavia, non sono ancora stati compresi a pieno. Marina Spadafora, così come molte altre persone attive in questo ambito, si batte affinché questo avvenga. Una battaglia per fare in modo che i dipendenti di queste aziende, che spesso e volentieri sono donne e che lavorano in condizioni che non garantiscono la loro sicurezza, ricevano uno stipendio che non le costringa, come invece avviene in molti casi, a far impiegare anche i loro figli, minorenni per riuscire a sopravvivere economicamente. Al fine di rinnovare il nostro guardaroba, spesso non teniamo conto delle conseguenze ambientali dei nostri acquisti, e non ci poniamo il quesito di chi ci sia dietro la catena di produzione.

La redazione di Scomodo le ha rivolto alcune domande riguardo a questa industria, al consumo etico e all’impegno necessario per effettuare una rivoluzione del nostro modo di intendere gli acquisti.

Ritiene che poter acquistare etico sia un privilegio circoscritto alle persone che dispongono di un capitale economico nella media o superiore, o che si possa estendere anche a chi ha necessità più urgenti ma minori possibilità? Quali ritiene potrebbero essere le modalità per far avvicinare anche le persone in una posizione economica e sociale meno privilegiata alla moda sostenibile?

Dunque, questa è un’annosa domanda. Io credo fermamente che ci debba essere una moda etica democratica, ciò significa una moda che possa essere comprata da chi non dispone di mezzi copiosi. Per raggiungere questo obiettivo prima di tutto si necessita di leggi che impongano ai grandi brand di produrre i propri capi di abbigliamento secondo un’etica sia sociale che ambientale. Oggi vediamo un grande impegno da parte di questi marchi sul fronte ambientale, e questo è un bene, ma rimaniamo ancora delusi dal loro impegno a livello sociale. Tutti i brand oggi pagano minimum wage, che è la paga minima decretata dal governo. Da studi di settore però sappiamo che questa non è altro che un quarto della living wage, che consiste nella somma di denaro di cui ha concretamente bisogno una persona per vivere in maniera dignitosa. Vi è perciò una differenza tra salario minimo e salario dignitoso. Noi ci stiamo battendo, attraverso molte organizzazioni, affinché questo avvenga, ed è chiaro che quando ciò accade i capi di abbigliamento che prima venivano venduti ad un prezzo esiguo, diverranno più costosi. Io ritengo che questo costo extra necessario a produrre i capi in maniera sostenibile non dovrebbe pesare completamente sulle spalle dei consumatori, bensì essere assorbito in parte da una rivisitazione dei margini di profitto di un’azienda, e in parte dal prezzo finale. In questo modo si potrebbe ottenere una moda economica, democratica e sostenibile.

Secondo lei, come si potrebbe attuare una rivoluzione nel nostro modo di percepire e comportarci nei confronti del consumo, in generale, e dei capi di abbigliamento in particolare?

Io ho appena pubblicato un libro intitolato “La Rivoluzione comincia dal tuo armadio”, sono coordinatrice nazionale di Fashion Revolution in Italia, e da anni facciamo divulgazione su come portare avanti uno stile di vita e di acquisto consapevole. Questo tipo di consumatore ci sarà nel momento in cui la conoscenza di ciò che significa acquistare sostenibile verrà distribuita su più larga scala. A mio parere, già durante le ore di educazione civica alle elementari, gli alunni dovrebbero usufruire di piccoli moduli che spieghino cosa significa acquistare e di quali sono le implicazioni di quando loro, o chi per loro, comprano qualcosa, poiché bisogna ricordare che nel momento in cui noi paghiamo, stiamo di fatto finanziando quella realtà. Ritengo che dovremmo essere un po’ più consapevoli di ciò davvero vogliamo finanziare.

Esistono due scuole di pensiero: c’è chi dice che il greenwashing, per quanto poco etico, sia comunque una presa di coscienza da parte delle aziende del fatto che la fetta di consumatori alla ricerca di alternative sostenibili sia in netta crescita; altri invece sostengono che vada condannato perché fuorviante e in qualche modo ancora più dannoso del fast fashion in sé. Lei cosa ne pensa?

Secondo me è necessario distinguere, lo spiego con un esempio: un’azienda che inizia un percorso di sostenibilità è come un bambino che sta imparando a camminare, chiaramente non con una maratona ma facendo dei piccoli passi. Bisogna accompagnare le aziende in questi primi piccoli step verso un cambiamento. L’unico modo di distinguere se questi sono davvero l’inizio di un percorso è la continuità: se un’azienda inizia a lanciare capsule collections o progetti green, è necessario che questi non solo siano duraturi, ma anche che aumentino man mano fino ad arrivare a modificare il modello stesso dell’azienda, divenendo sostenibile. È necessariamente un processo graduale: d’altronde la sostenibilità è molto demanding, se così non fosse la starebbero già praticando tutti.

Ritiene che nel sistema capitalistico nel quale volenti o nolenti ci troviamo, il consumo etico possa esistere, oppure, in quanto comunque appunto un consumo, sia un’utopia?

La sostenibilità si basa su tre pilastri: pianeta, persone e profitto. Un modello di business sostenibile non ha modo di stare in piedi se non produce profitto. La nostra società è basata sulla compravendita: almeno che in futuro non ci sia una tempesta solare che ci faccia tornare al modello di vita delle caverne, io prevedo che ormai il nostro modello rimarrà questo, e dunque all’interno di esso bisogna far sì che non distrugga l’umanità. Il pianeta va avanti, il problema è capire se va avanti con noi o senza.

L’impegno individuale può essere efficace o, senza un cambiamento radicale nei sistemi delle corporazioni, ha rilevanza minima?

È stato valutato che, se il 3,5% della popolazione mondiale si dà da fare attivamente, dunque diventa attivista, per una causa, questa viene realizzata. Sono stati fatti degli studi a riguardo sul movimento delle suffragette, sull’abolizione della schiavitù, sul Civil Rights Movement di Martin Luther King. Quello che le persone non capiscono è che impegnarci nel nostro piccolo aiuta comunque, perché tutto è utile, ma è necessario diventare più vocali. Dobbiamo pretendere dai governi che facciano leggi serie che regolamentino questo settore. Ad oggi, nell’ambito della moda, non ci sono ancora delle regolamentazioni: nell’industria alimentare e della cosmesi, ad esempio, vi sono numerose restrizioni e doveri, tra i quali l’obbligo di dichiarare la provenienza di un prodotto. Nel tessile questo non accade. Fashion Revolution, insieme a altre 70 organizzazioni non governative, ha presentato al Parlamento Europeo una proposta di legge, chiamata “Fair and Sustainable Textile”, che include sia l’ambito ambientale che quello sociale.

Il 3,5% di attivisti contro il Fast Fashion lo abbiamo già raggiunto?

Non ancora.

Sostiene sia corretto boicottare le aziende di fast fashion? C’è chi è dell’idea che, così facendo, si vada solo ad aggravare la situazione dei lavoratori coinvolti nella produzione, che spesso e volentieri non possono contare nemmeno sul minimum wage.

Io sono assolutamente d’accordo sul fatto che queste persone che oggi vivono del loro lavoro nel fast fashion debbano continuare a guadagnare. Infatti, ora, per via del Covid, ci sono stati vari problemi poiché molte catene non hanno ritirato la merce che avevano ordinato e fatto produrre, e dunque stanno mandando in malora moltissime fabbriche situate in questi paesi del Sud-Est Asiatico, nonché le persone che ci lavoravano, che si ritrovano ora senza vitto e alloggio. Da questo era nata la campagna “Pay Up”, ora rinominata “Pay your workers”, e tutti noi ci stiamo battendo in nome di questi valori. Siamo tutti d’accordo sul fatto che queste persone debbano continuare a guadagnare, ma non sul fatto che debbano lavorare in condizioni pericolose, vedi la strage di Rana Plaza in Bangladesh, nel 2013, che è stata anche causa della nascita di Fashion Revolution. Sono morte 1138 persone, ferite 2500. Tante volte, chi lavora nel fast fashion, è pagato talmente poco da essere costretto a mandare a lavorare anche i propri figli. È ora che iniziamo, tutti, a indignarci e a pretendere da queste aziende un cambiamento radicale dei loro modelli di produzione.

Ha notato delle peculiarità legate all’Italia nell’ambito del fast Fashion? Ha identificato un cambiamento nei comportamenti dei consumatori italiani durante la pandemia?

I giovani, al giorno d’oggi, vedo che hanno una tendenza a vestirsi vintage, ad avere un’identità propria. Noto che voi ragazzi avete questi caratteri ben spiccati e che siete molto individualisti, non avete nessuna voglia di andare in giro tutti con gli stessi capi. Questa tendenza io la trovo molto incoraggiante, perché non solo si evita un problema di inquinamento, dando nuova vita a capi che altrimenti sarebbero stati buttati, ma diventa anche un modo per essere più interessanti.

Detto ciò, io so che molte catene hanno dovuto chiudere parecchi negozi, quindi forse una leggera brezza inizia a soffiare, ma prima di chiamarla vento, aspettiamo un po’.

Quanto incide, secondo lei, la pubblicità (cartelloni, sui social, in tv, online ecc.) sull’industria del fast fashion e sul consumatore? L’avvento dei social media ha peggiorato la situazione?

La pubblicità, dopotutto, fa il suo mestiere: pubblicizzare. Io credo che le generazioni attuali siano un po’ più consapevoli delle favole che le pubblicità propone. Mi pare sia nata una cultura di “fake news”, ci sono addirittura programmi interi che trattano di questo tema, dunque se davvero si sta diffondendo questa mentalità più critica riguardo ai contenuti che vengono proposti dai canali televisivi, allora forse la gente sta iniziando a rendersi conto del fatto che “non è tutto oro ciò che luccica”.

Lei quindi ritiene che si possa pretendere che la pubblicità si muova in maniera più etica?

Ma certo, si può pretendere da tutti. dobbiamo arrivare a un punto in cui ogni attività sia svolta in maniera etica, non se ne può più di questa situazione. Dobbiamo diventare molto più consapevoli e soprattutto più proattivi.

E il Black Friday? Cosa ne pensa? Ci sono stati, negli anni passati, dei dati significativi riguardo alle conseguenze sull’ambiente dovute al consumo spropositato di questo periodo? Quali sono le sue aspettative per quest’anno?

Il Black Friday è come lo specchietto per le allodole: tutti ne vogliono approfittare. Ovviamente noi siamo contro, io tra l’altro ho appena fatto parte di un’iniziativa dell’ONU, il “Green Friday”: stiamo promuovendo l’uso di questa applicazione, AWorld, che appunto supporta l’iniziativa “act Now” delle Nazioni Unite. In questa app vengono dati consigli su come diminuire la propria impronta sul pianeta, e si possono registrare ogni giorno fino a 10 azioni volte alla protezione dell’ambiente.

Per quanto riguarda le aspettative per quest’anno, ogni anno noi consumatori consapevoli siamo sempre di più: me ne rendo conto dalla quantità esponenziale di richieste di interventi, conferenze zoom, interviste. Stiamo andando avanti, e lo stiamo facendo bene e forte. Bisogna continuare a lottare: se dobbiamo soccombere, soccombiamo lottando!

 

Articolo di Brigitta Mariuzzo