Intervista a Nadeesha D. Uyangoda

Come risolvere il problema della memoria pubblica in Italia

30/10/2020

In seguito alle proteste partite dagli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd si è aperto un acceso dibattito sul razzismo in varie aree del mondo. Nel corso delle manifestazioni organizzate dal movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti e da realtà affini in altri paesi sono stati distrutti numerosi monumenti dedicati a colonialisti e personaggi controversi del passato. In Italia nessun monumento è stato rimosso durante le proteste, ma da quel momento in poi si è dato il via ad un acceso dibattito (durato comunque non più di una settimana, come tutte le tempeste mediatiche) su cosa significhi per il nostro paese fare i conti con il passato e continuare a conservare un posto, nella memoria pubblica, per personaggi che sono oggi ricordati più che altro per episodi e fatti spiacevoli. Alle ribalte della cronaca in Italia è stato soprattutto il caso Montanelli, la cui statua situata negli omonimi giardini a Milano è stata imbrattata diverse volte nel corso della sua storia, l’ultima proprio a giugno, nel pieno delle proteste di Black Lives Matter.

Cos’è più giusto fare quindi con le tracce scomode del nostro passato? Rimuovere alcuni argomenti, temi e frammenti storici dal dibattito pubblico aiuta a superare i fatti controversi o ne amplifica la portata?

Abbiamo rivolto alcune di queste domande a Nadeesha Dilshani Uyangoda, autrice freelance, che ha collaborato con Al Jazeera English, Open Democracy, Rivista Studio, Vice, è ideatrice del podcast Sulla Razza e autrice per Not del pezzo L’unica persona nera nella stanza, che a breve diventerà un libro per 66thand2nd.

 

Pensi che oggi lo spazio pubblico sia ancora un punto chiave di incontro e interazione tra politica e cittadini?

I cambiamenti passano ancora attraverso lo spazio pubblico, il problema è relativo al fatto che rimane tutt’ora appannaggio esclusivo o quasi esclusivo della cultura dominante. Nel nostro caso, spesso questo si identifica nell’italiano, maschio, bianco, etero, mentre le altre etnie e persone di minoranze etniche, che effettivamente vogliono promuovere un cambiamento di pensiero intellettuale e culturale all’interno del paese, non riescono a trovare un posto all’interno del dibattito pubblico. È come se la loro esperienza non fosse rilevante e di conseguenza non riusciranno mai a portare un cambiamento. Dal mio punto di vista lo spazio pubblico è essenziale, ma attualmente è un concetto quasi esclusivo, di proprietà di una determinata classe e di una determinata tipologia di persone. Questo, come si nota osservando il dibattito sull’antirazzismo negli ultimi mesi, ha portato ad un dibattito in cui le persone nere per la prima volta hanno avuto una voce che è stata ascoltata ed è risuonata a lungo. Tuttavia è un dibattito che è andato scemando.

 

Io ho due esempi che mi hanno colpito particolarmente rispetto a questo tema, che ho anche raccontato nel libro che sto scrivendo, il primo è quello di Cecilia Sala, la giornalista italiana giovane e femminista che ha fatto un video su Instagram dicendo che le statue non dovevano essere abbattute. L’altro episodio che mi ha colpito particolarmente è stato quello di Chiara Tagliaferri che ha pubblicato una foto su Instagram tratta da “Via col vento” in cui riportava un paio di considerazioni affermando che lei ancora oggi non tifa per la schiava nera ma per la sudista razzista. In entrambi i casi queste sono considerazioni relative. Tuttavia arrivano entrambe da due donne bianche, femministe in un periodo in cui per la prima volta si tratta l’argomento del razzismo. Questo ti fa capire come sia facile impossessarsi di una tematica che fino a qualche tempo prima apparteneva, ed era portato avanti da persone appartenenti a minoranze etniche. In questo caso il tema è stato stravolto, l’hanno personalizzato e se ne sono appropriate.

 

Sarebbe stato meglio avere punti di vista più interni alla tematica?

La cosa un po’ paradossale è che io ero fondamentalmente d’accordo con entrambe. Non sono infatti né per la distruzione delle statue, né per la censura di “Via col vento”, non è questo il punto. Il punto è che loro hanno dato la loro opinione su un fatto che non necessitava la loro opinione, e facendolo hanno stravolto la questione.

 

Quindi a tuo avviso si sono esposte su argomenti che non le riguardavano in maniera diretta?

Esatto, tra l’altro sotto al video di Cecilia Sala, aveva risposto una deejay di origini peruviane, Sonia Garcia. Così ho deciso di intervistarla su questo argomento. Lei ha sostanzialmente sostenuto che la cosa non le riguardasse in quanto la loro vita non era mai stata influenzata direttamente dal fenomeno coloniale, e che la decolonizzazione è una cosa che non andrà mai a toccare le loro vite. Ha inoltre ricordato che il loro punto di vista è comunque di persone privilegiate.

 

Cosa ne pensi della cancel culture? Quali risvolti positivi o negativi può avere un fenomeno di questo tipo?

A livello negativo rischia di censurare elementi e ideologie senza il necessario esame di queste ultime. È come se si decidesse di togliere la parola ‘razza’ dal vocabolario; ma non è che togliendola si risolve il problema relativo al razzismo. Allo stesso modo ad esempio, togliere la statua di Indro Montanelli dal parco di Porta Venezia a Milano non cambia le cose. Gli episodi vandalici non hanno portato ad una riflessione seria del passato coloniale italiano, né tanto meno sulla figura di montanelli, abbiamo semplicemente deciso di definire Montanelli un razzista, addirittura un pedofilo se vogliamo, ma non abbiamo introdotto lo studio o l’approfondimento dell’epoca coloniale nei programmi scolastici. È un metodo fine a se stesso che non risolve nulla.

Dall’altro lato c’è la contestualizzazione della statua, io personalmente sono a favore, ad esempio porre una targa per spiegare il contesto politico e storico della statua. Tuttavia allo stesso tempo ritengo che anche quell’operazione non risolva molto. Una targa per delle persone afrodiscendenti o che hanno subito il postcolonialismo è davvero un gesto minimo, quasi insufficiente. Il tema è molto complesso, si potrebbe lasciare la statua imbrattata o aggiungere una seconda opera che la contestualizzi. Non so quale sia la soluzione migliore, ma di sicuro non penso sia la rimozione.

Non ho neanche idea se in Italia abbiamo consapevolezza di cosa sia il fenomeno della cancel culture, ho visto alcuni giornalisti che l’hanno tradotta malamente. Come gran parte delle parole legate al fenomeno razziale è nata negli Stati Uniti e a causa delle differenze innate, non so fino a che punto sia applicabile qui.

 

Credi quindi che il dibattito sulle opere d’arte e sui monumenti scaturito dall’omicidio di George Floyd non trovi un corrispettivo troppo evidente nella cultura e nella società italiana?

Esatto, negli Stati Uniti hanno abbattuto delle statue senza farsi particolari problemi. Molti dei moti che hanno portato all’abbattimento di statue si sono fermati lì, non hanno portato a una riflessione più strutturata su questa questione. In Italia questo è più complesso da fare, perché siamo una società diversa. La stessa composizione della popolazione è molto diversa, ora, non avendo dati alla mano è difficile essere precisi, ma è logico dedurre che non ci siano numerose persone afrodiscendenti o straniere all’interno di università Italiane, da questo si deduce che le università in Italia non sono il luogo in cui una riflessione multiculturale o multirazziale sia possibile. Per quanto anche negli Stati Uniti siano in minoranza nelle università o nei luoghi di cultura, sono comunque molto rappresentati. È molto difficile, quasi impossibile, che eventi simili si vedano anche in Italia. C’è un passato storico totalmente diverso.

 

Pensi che una possibile soluzione sia quella di creare una nuova interazione con la memoria pubblica in modo da restituire un valore che in molti casi ha perso?

Sicuramente è utile per impostare una discussione critica sulla nostra storia. Tuttavia non deve esser considerato un rimedio per far fronte alla propria coscienza, non deve arrivare dalla cultura dominante che per essere a posto con sé stessa pone una targa o crea una nuova interazione con questi monumenti. Soluzioni di questo tipo devono nascere da un dibattito che parta da prospettive di persone non caucasiche italiane, che abbiano una prospettiva diversa rispetto alla propria storia. Deve essere il prodotto di una riflessione che sia trasversale e che comprenda altre etnie. Altrimenti si continuerà ad avere lo stesso tipo di problema.

 

Articolo di Arianna Preite