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Abbonati AccediIn occasione dell’uscita su Netflix de L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, abbiamo posto alcune domande al regista e sceneggiatore Sydney Sibilia, già autore della fortunata trilogia di Smetto quando voglio. Il confronto con il suo ultimo film, scritto a quattro mani con Francesca Manieri, è maturato all’interno di un più vasto articolo – in uscita sul numero di Febbraio – sull’utilizzo delle fonti storiche da parte del medium cinematografico, sia esso il documentario, il biopic o (come in questo caso) l’adattamento di una vicenda storica. Ma la discussione con Sibilia ha preso, come il suo film d’altronde, tutt’altra piega rispetto al raffronto con la veridicità storica, riaffermando l’indipendenza di una sceneggiatura rispetto alla storia cui è ispirata. Ne è venuto fuori uno spaccato più ampio non solo sull’Isola delle Rose, ma sui retroscena del Cinema più in generale. Su tutti gli aspetti che scandiscono il lavoro di “quelli che fanno i film”, dalla fotografia alla sceneggiatura, dalla CGI alla colonna sonora.
La storia la intercetto per caso, al di là del romanzo. Mi sembrava molto interessante ma da quello a farci un film ne passa, non è che ogni cosa interessante che leggo posso farci un film o ne farei sei all’anno. Sarà stato perché non sono un autore molto geloso delle proprie storie e anzi ne parlo continuamente, ma un giorno Veltroni mi telefona e dice: “E’ vero che vuoi fare un film sull’Isola delle Rose? Io ci scritto un libro, se vuoi ti presento Giorgio Rosa”. Io nel frattempo l’avevo letto, lui come me si prende delle libertà rispetto ai fatti storici, io però me ne volevo prendere altre, sono due versioni molto diverse di una stessa storia insomma. Così mi porta a Bologna dove mi presenta Giorgio Rosa e alcune cose che si vedono nel film sono frutto di quell’incontro, come la scena della tempesta notturna: mi ha raccontato di questo mare fosforescente che chiamava il “Mare in Amore”, che sarebbero dovuti tornare la mattina dopo all’alba per l’arrivo della trivella e che per non fare avanti e indietro era rimasto sull’isola. E quella stessa sera arriva una mega tempesta. Lui era convinto di morire perché l’isola era già stata distrutta una volta da un’altra mareggiata. Purtroppo questo non sono riuscito a inserirlo nel film, spesso devi fare il riassunto del riassunto del riassunto. Poi a un certo punto mi sono allontanato volontariamente da tutte le fonti così da poter dare la mia versione per farci il film. In alcuni c’è una grande aderenza alla realtà storica, ma nella maggioranza di questi film tratti da storie vere si va a fare un riassunto, approfondendo solo alcuni snodi. Il documentario l’avevano già realizzato, quindi lo spirito voleva essere quello di qualcuno che te la racconta a cena, una storia così.
No no, Diabolik mi piaceva, ma tutto nasce dal mio studio sugli Anni ’60. E’ un periodo che io non ho neanche lontanamente vissuto, così mi sono chiesto: “Cos’era figo in quegli anni? Cosa avrei letto? Di cosa mi sarei appassionato?”. Un fumetto poteva essere un po’ un antesignano per un nerd, ed erano usciti Corto Maltese e Diabolik. Ma i successi editoriali in quegli anni andavano molto più lenti, adesso con internet va tutto alla velocità della luce. Quindi che uno di Bologna considerasse un fumetto di Milano come qualcosa di nuovo nel ’68, mi sembrava una chicchetta per contestualizzare, ma contestualizzare davvero. Ho cercato di creare un racconto a doppio strato, che oltre all’intrattenimento possa far apprendere delle cose del contesto storico. Insomma, sempre nel ’68 siamo, perché diciamocelo, lui ci ha messo un botto a costruirla e io ho dovuto riassumere, sennò dovevo star tre ore a raccontare di quando era crollata, di quando l’avevano ricostruita: la soglia dell’attenzione si è abbassata, vi sareste distratti subito. Avreste detto: “Oddio che rottura di palle!”. Vi sareste visti un altro film e avreste avuto ragione. Che so… che cazzo c’è su Netflix? Un’altra cosa… dicevate: “Vabbè, guardiamoci San Patrignano che è meglio!”.
Stupirà sapere che non è sempre tutto così ragionato, sennò si perderebbe il resto. Non so se renderli buffi aiuta o non aiuta. Uno lavora di pancia, per me ci si deve anche divertire. Mentre lo scrivevamo ci facevamo un sacco di risate e su molte scene non c’è stata neanche riscrittura. Il Consiglio dei Ministri? L’avete visto più o meno come l’avevamo scritto la prima volta, di getto. Più che creare un villain in senso classico volevo immaginare come potesse reagire un politico, padre costituente, a una notizia del genere. Anzi, non credo sia un film di buoni contro cattivi, del bene contro il male, è molto più sfumato, anche i politici hanno le loro ragioni alla fine. Risultano buffi perché la vicenda è un po’ sopra le righe e loro reagiscono sopra le righe. Mi piaceva che quelli realistici fossero i ragazzi, che invece venivano fatti passare per matti. Questa era l’idea iniziale. E poi da lì provare a farsi due risate, citando i veri nomi dei padri della patria.
Per me sono fondamentali. Quando per esempio si va a parlare di fotografia, di look del film, si pensa sempre che faccia tutto il direttore della fotografia, invece è un lavoro di squadra che va dai costumi alle scenografie, a tutto il resto. Abbiamo fatto vari provini non solo agli attori, ma anche per decidere i costumi, le ottiche, addirittura la macchina da presa. Provavamo varie combinazioni fra i pezzi, li facevamo interagire coi set. Questo lavoro l’ho fatto per tutti i miei film, ma per quanto riguarda i dettagli in questo ci tenevamo particolarmente. Devi starci attento quando rappresenti un’epoca perché ci sono contaminazioni ogni due metri. Io ho il trauma ormai, a ogni scorcio che vedo becco una parabola satellitare e dico: “Ecco, qua non si potrebbero fare gli Anni ‘60”. Mentre in un film contemporaneo non devi stare attento proprio a tutto, questo invece mi ha insegnato la cura maniacale del dettaglio, perché non c’è cosa più brutta degli anacronismi.
Però in quel caso dici: “Vabbè, l’orologio te lo perdono perché hai fatto Ben Hur”. Non avendo quella pretesa a me cagano più il cazzo invece, se non ci stavo attento mi avreste detto: “E che cazzo, pure l’orologio?”.
Erano d’epoca le macchine! Fatte con la computer grafica certo, finte quanto il sorriso di un ballerino di tiptap. Però tutte d’epoca. E poi c’è da considerare che in quegli anni erano ovunque, l’isola pedonale non era un valore comune, si parcheggiava alla selvaggia. Bologna l’abbiamo dovuta riempire.
Per quello è pieno di amatori in giro, che te le portano. Perché diciamocelo, che te ne fai di un’auto d’epoca? Noi siamo la scusa, siamo quelli che fanno i film: così fai vedere la scena agli amici e gli dimostri che l’acquisto a qualcosa è servito.
Assolutamente, funziona ancora se è per questo, ma non sapevamo proprio da dove partire per costruirla perché Rosa aveva buttato i progetti originali. Poi lui non aveva modificato un modello già esistente, tipo coattata alla Fast & Furious, ma l’aveva costruita da zero con tanto di divano, quello è tutto vero. Quindi con Tonino Zera, lo scenografo, l’abbiamo riprogettata da capo chiedendoci: “Se sono da solo, come la costruisco una macchina?”. Punto primo, non puoi piegare il ferro senza i macchinari, e lui le presse non le aveva. Poi da ingegnere non badi all’estetica, fai le cose nel modo più pratico possibile. Per questo è tutta squadrata. Dopo le riprese non l’abbiamo demolita, c’è ancora, l’unica cosa è che non ci puoi andare in autostrada ecco…
Il metodo di partenza è stato più o meno lo stesso: si cerca di immaginare un tipo di look che si vuol dare al film e poi lo si mette in pratica col direttore della fotografia. Ma con Vladan abbiamo fatto un discorso particolarissimo nato ormai nel 2013 e che si è anche dovuto evolvere nel corso dei capitoli di Smetto quando voglio, perché parliamo di una trilogia. In questo caso c’era la necessità di allontanarsi da quella fase, per portare invece gli Anni ’60 con una fotografia dedicata. Ovviamente bisogna stare molto attenti perché non si sta facendo un film degli Anni ’60 ma sugli Anni ’60, che poi esce nel 2020 su dispositivi e in formati estremamente definiti come quelli che usa Netflix: il dolby vision, il 4K-HDR-e-altre-otto-lettere o che so io. Il che non è facile da fare. Avevamo idee molto chiare rispetto a tre momenti del film, ognuno con la sua palette: Strasburgo, Rimini d’estate – che doveva essere colorata – e Roma con le stanze fumose della politica. In tutte e tre ci doveva essere una componente che richiamasse gli Anni ’60, ma che non fosse troppo marcata. Perché se vuoi andare a esasperare e scimmiottare quelle che poi sono le foto e i film degli Anni ’60, dettati dalla tecnologia dell’epoca, da un certo tipo di pellicola… li puoi richiamare ma non puoi andarci dritto per dritto. Avevamo anche fatto delle prove all’inizio, ma non ci convincevano per niente.
Quando si va a scrivere una sceneggiatura, tutto si riassume in un insieme di inquadrature e di scene, ciascuna con i suoi problemi di ordine molto pratico. E questa era complicatissima da realizzare, piena di “praticoni”. Ogni giorno ce n’era una: il motomondiale, la gara di scii nautico, la nave da guerra, il bombardamento. Quindi si prende ogni praticone e lo si analizza, cercando una soluzione su come girare materialmente la scena. Problema numero uno: metà film è ambientato su un’isola di cemento in mezzo al mare. Complicatissimo. Abbiamo valutato varie opzioni, passato in rassegna delle piattaforme preesistenti, ma sembrava impossibile. Quando ho iniziato a scrivere il film non pensavo di riuscire a realizzarlo così come l’avevamo immaginato, tant’è che ho cominciato a scriverne un altro, più fattibile, accantonando momentaneamente l’Isola delle Rose. Quando poi si è inserita Netflix siamo riusciti a renderlo più internazionale, abbiamo avuto accesso ai mezzi da grande produzione. Così siamo andati a Malta dove ci sono questi studi, gli Infinity Pool, che sono delle piscine gigantesche dove abbiamo fisicamente costruito l’Isola cercando di non tradirla troppo nei materiali di costruzione (mattoni e cemento) ma rendendola idonea per girarci un film, con la piazzola come fosse una piazza cittadina col chiosco delle bibite. Alla fine ci sarà voluto un annetto per risolvere tutti i praticoni, un annetto e mezzo. Uno pensa che girare un film sia solo quello che ti fanno vedere in backstage: “Motore! Azione! Entrino i cammelli!”. Lo pensavo anch’io da bambino, dicevo: “Dai, giriamo un film!”. Senza sapere che quella è la parte finale di un lungo processo e anche la meno interessante.
Certo, ci sono tantissimi effetti visivi. Su quasi due ore di film, c’è almeno un ora e mezzo di girato in VFX. C’è sempre un dettaglio da cancellare, uno da aggiungere, ma sempre di tecnica mista si parla. Io non ne avevo mai fatto un uso così massiccio e ho imparato tantissimo da questo film, ho capito come funziona davvero “fare i film con la CGI”. Il prossimo però lo faccio senza. Non perché la computer grafica risulti troppo invasiva, come se si stesse barando. E’ più complicato di così, è una cosa di pensiero, va usata con intelligenza. Persino nei film della Marvel, dove è tutto un effetto speciale dopo l’altro, quando si vanno ad analizzare non sono mai complessi, quanto piuttosto intelligentissimi. Vanno sempre pensati rispetto a ciò che ci si può permettere di fare con la tecnologia che si ha a disposizione. Ma anche lì, non è questione di macchine, lo strumento non è in sé limitante. E’ questione di… una questione intelligente ecco. Per dire, il secondo Terminator risale al ’91 e ha degli effetti speciali bellissimi, il T-1000 è credibile ancora oggi ed è fatto con un processore che adesso sta nei frullatori. E’ come fare qualcosa col chip del telecomando del televisore, solo che è pensato benissimo e quindi viene bene. E’ sempre una cosa di testa, i film sono sempre tutto ragionamento di un sacco di gente messa insieme.
Tutte tranne una, quella ambientata all’ONU a New York.
In realtà mi riferivo alle riprese aeree della città… ma finalmente qualcuno che le nota ‘ste Torri Gemelle! Un dettaglio voluto, certo! Ma voi siete gli spettatori ideali, mi date certe soddisfazioni… anche su dettagli che non si è cagato nessuno. Grazie!
Intanto c’è da dire che roba come Jimi Hendrix è figa a prescindere, non ha età. Per come la vedo io gli Anni ’60 erano fighi per un sacco di cose. Di bruttissimo ci poteva essere giusto l’architettura, infatti quando vedi certi condomini dici: “Questa è brutta. Questa è Anni ‘60”. Per il resto era un periodo di grande fermento. Per quanto riguarda le musiche, mentre scrivo un film è mia abitudine buttare giù una playlist su Spotify che ascolto a raffica e che condivido con le tante persone che poi lavorano sulla colonna sonora: in questo caso Michele Braga appunto; il dj Roberto “Bob” Corsi che ci visionava il repertorio; il montatore Gianni Vezzosi che è bravissimo con la musica e l’ottanta percento del merito è sempre suo nei miei film; il music editor Laurence Greed, un pezzo grosso di Londra che ha lavorato anche con Danny Boyle o a serie tv come The Crown e The Terror. Lui ha contribuito nel dare una dimensione più internazionale alle musiche. Poi per vari motivi non tutte quelle in lizza finiscono nel film. Innanzitutto ci sono i diritti sul copyright da rispettare: nel migliore dei casi si devono versare un sacco di soldi alle case discografiche per utilizzare i brani, nel peggiore è l’autore stesso a negare l’utilizzo. Poi quando si va al montaggio audio con Gianni molte vengono scartate perché non funzionano con la scena. Nel finale per esempio avevamo pensato a tutt’altra canzone, ma non funzionava, così abbiamo inserito all’ultimo Eve of Destruction di Barry McGuire che avevo ascoltato per caso proprio il giorno prima ed era perfetta. Ovviamente bisogna starci attenti come con gli scorci per strada, evitando anacronismi, perché fa stranissimo mettere una canzone del ’69 in un film del ’68. Anche se tanto poi, che cazzo ne sa la gente di quando è uscita di preciso quella canzone? Tant’è che alcuni non se ne preoccupano, noi sì. Altra cosa molto interessante del repertorio dell’epoca è che era pieno di cover, la gente copiava senza pietà. Cover dichiarate, non dichiarate, facevano come gli pareva ed era una cosa bellissima, di fermento, perché è l’arte che si parla e si influenza a vicenda senza limiti di copyright. Per questo al posto della versione originale di California Dreamin’ dei The Mamas & The Papas abbiamo usato quella italiana. Da piccolo in realtà, pensavo che Sognando California dei Dik Dik fosse la canzone originale, non la cover. E come quella ce ne sono un miliardo.
Obiezione giustissima, soprattutto se si parla di Rimini in estate, che è una cosa super pop e poco avanguardistica, dove si ascoltava solo geghegé italiano al massimo. Cioè le cover pop rock di cui parlavamo prima. Quando invece la parola la prendevo io come autore potevo seguire i miei gusti più internazionali senza rischiare di cadere nell’anacronismo, perché la musica non è materialmente presente sulla scena, non viene riprodotta da una radio, ma serve da accompagno fuori campo per il solo spettatore. I gusti e le abitudini di ascolto dei personaggi invece, si vedono in scene come quella che introduce Rudy Neumann, col concerto di Edoardo Vianello. Quella scena è bellissima perché abbiamo chiamato personalmente Vianello che è venuto a cantare appositamente per noi. Anche la voce che a un certo punto chiama Rudy è la sua, mentre la canzone è registrata in studio e l’attore che si vede canta in playback.
A più di ottant’anni fa ancora le tournee! Per la scena in questione, che poi è stata la prima che abbiamo girato in assoluto, ci siamo dovuti organizzare con lui, che fra una serata e l’altra non poteva mai.
Sono due casi molto diversi. Cluzet aveva una parte da recitare in francese, per la quale si pensa a un attore apposito: lo si chiama, gli si fa leggere la sceneggiatura e se gli piace accetta la parte. Poi essendo così piccola può anche fregarsene altamente, perché non si sente un granché coinvolto nel film. Lui invece era entusiasta, lavorare insieme è stato divertentissimo – anche se non parlavo una parola di francese. Si è speso tantissimo, ogni giorno arrivava con un’idea nuova, il suo entusiasmo è stato contagiosissimo soprattutto perché erano le prime settimane di riprese. Il caso di Tom era più spinoso e richiedeva apparentemente un lavoro molto complesso, perché avrebbe dovuto imparare la lingua per recitare in modo fluido. Ma soprattutto doveva riuscire a fare un tipo di commedia all’italiana con dei tempi comici molto particolari, che sono innati, o li hai o non li hai. Invece ha dato prova dell’attore straordinario che è, da noi se ne parla troppo poco perché non è molto conosciuto: si è presentato di sua sponte al provino – che era in italiano – senza sapere una parola d’italiano, con dei tempi comici perfetti. Quando l’ho visto gli ho detto: “Tom, qui ti chiameranno tutti. Da adesso devi fare solo commedia italiana, tutti i film con Checco Zalone!”. Quindi che dire, sono grandi professionisti, non è più difficile ma persino più facile, considerando anche il gap della lingua.
Tom parla in presa diretta, sì. Non c’è stato bisogno di doppiarlo in post-produzione. Anzi, è stato lui stesso a doppiarsi per la versione inglese e quella tedesca. Cluzet invece tutto contentone, molto fomentato perché era da tempo che non faceva commedie e voleva divertirsi. E’ stato strano perché per un’intera settimana abbiamo girato solo in francese e io non capivo una mazza. Per quel che ne sapevo potevano aver detto quello che gli pareva: “Avranno detto giusto? Speriamo…”.
Se Maurizio l’ha visto? Grazie della stima ma no, non sono così bravo, però ripensandoci mi sarebbe tanto piaciuto. E’ un po’ che non vedo il Dr. Stranamore, ma tornando indietro lo citerei solo per tornare qui e dire: “Grazie ragazzi, che l’avete notato”. Scherzi a parte, non siete i soli. Ogni volta mi chiedono se quella cosa l’ho riferita a quell’altra, se tizio somiglia a caio. Ma siete i soli ad averla posta in questo modo: “Che film vedeva Sydney prima di mettersi a girarli?”. Questa è La Domanda, la più importante di tutte. Ciò che crei cambia a seconda di quello che vivi, che guardi, che leggi. E spesso oltre ai riferimenti consci ne fai molti altri inconsci, questo potrebbe essere uno di quelli. Ma in generale i miei riferimenti sono sempre molto più beceri, quindi prima dovreste chiedervi: “Se il film è troppo alto, come in questo caso, possibile che fosse voluto?”. Io cito solo cose terribili…
Qui è ovviamente conscio, perché I love Radio Rock l’ho rivisto anche mentre scrivevamo la sceneggiatura. Io poi non ho problemi a fare sciacallaggio da altri film, se una cosa mi piace attingo a piene mani. Anche se più che la scena delle barche, è stato il modo in cui Richard Curtis tratteggiava la politica che mi ha ispirato di più. Poi quel film ha tantissimi fuochi, apre una sequela di parentesi narrative che solo un genio come Curtis poteva gestire tutte assieme. Si prende certe libertà, è talmente anarchico che i suoi film diventano quasi “a-tramatici” e non sempre vengono capiti subito. Infatti Radio Rock non andò benissimo quando uscì, ma ora lo conoscono tutti.
Meglio così, che diventi un cult postumo, piuttosto che lo vedano in tanti e poi se ne scordino dopo pochi mesi. Che dire, fare film è molto difficile ragazzi. Perché da un lato c’è il mito che la soglia d’attenzione si stia abbassando, soprattutto fra i giovani, ma poi ci siete voi che analizzate i film con tanta attenzione e io devo essere all’altezza! Voglio ringraziarvi, perché abbiamo bisogno di spettatori come voi. Quando vi pare torno e ne parliamo ancora.
L’intervista mi è piaciuta ma non iniziamo a far ‘ste cose… In realtà non ne ho la più pallida idea, magari mi viene in mente qualcosa di originale con la computer grafica pesante. Posso scriverci una bella roba tipo… che so, coi dinosauri!
Articolo di Carlo Giuliano e Alessandro Mason