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Intervista a Sydney Sibilia
Che tu sia un semplice cinefilo o il regista de L'isola delle rose, varrà sempre la stessa regola d'oro: ciò che crei cambia a seconda di quello che vivi, che guardi, che leggi.
In occasione dell’uscita su Netflix de L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, abbiamo posto alcune domande al regista e sceneggiatore Sydney Sibilia, già autore della fortunata trilogia di Smetto quando voglio. Il confronto con il suo ultimo film, scritto a quattro mani con Francesca Manieri, è maturato all’interno di un più vasto articolo – in uscita sul numero di Febbraio – sull’utilizzo delle fonti storiche da parte del medium cinematografico, sia esso il documentario, il biopic o (come in questo caso) l’adattamento di una vicenda storica. Ma la discussione con Sibilia ha preso, come il suo film d’altronde, tutt’altra piega rispetto al raffronto con la veridicità storica, riaffermando l’indipendenza di una sceneggiatura rispetto alla storia cui è ispirata. Ne è venuto fuori uno spaccato più ampio non solo sull’Isola delle Rose, ma sui retroscena del Cinema più in generale. Su tutti gli aspetti che scandiscono il lavoro di “quelli che fanno i film”, dalla fotografia alla sceneggiatura, dalla CGI alla colonna sonora.
Partiamo dalla fine, addirittura dai titoli di coda, dove si fa riferimento alla partecipazione di Walter Veltroni come consulente storico, che sappiamo essere anche l’autore de “L’isola e le rose”, romanzo del 2012 dedicato alla vicenda. Il film non ne è un adattamento, però questo ha avuto un ruolo nella scelta del tuo ultimo soggetto? E quanto ha giocato poi la consulenza di Veltroni sulla veridicità storica?
La storia la intercetto per caso, al di là del romanzo. Mi sembrava molto interessante ma da quello a farci un film ne passa, non è che ogni cosa interessante che leggo posso farci un film o ne farei sei all’anno. Sarà stato perché non sono un autore molto geloso delle proprie storie e anzi ne parlo continuamente, ma un giorno Veltroni mi telefona e dice: “E’ vero che vuoi fare un film sull’Isola delle Rose? Io ci scritto un libro, se vuoi ti presento Giorgio Rosa”. Io nel frattempo l’avevo letto, lui come me si prende delle libertà rispetto ai fatti storici, io però me ne volevo prendere altre, sono due versioni molto diverse di una stessa storia insomma. Così mi porta a Bologna dove mi presenta Giorgio Rosa e alcune cose che si vedono nel film sono frutto di quell’incontro, come la scena della tempesta notturna: mi ha raccontato di questo mare fosforescente che chiamava il “Mare in Amore”, che sarebbero dovuti tornare la mattina dopo all’alba per l’arrivo della trivella e che per non fare avanti e indietro era rimasto sull’isola. E quella stessa sera arriva una mega tempesta. Lui era convinto di morire perché l’isola era già stata distrutta una volta da un’altra mareggiata. Purtroppo questo non sono riuscito a inserirlo nel film, spesso devi fare il riassunto del riassunto del riassunto. Poi a un certo punto mi sono allontanato volontariamente da tutte le fonti così da poter dare la mia versione per farci il film. In alcuni c’è una grande aderenza alla realtà storica, ma nella maggioranza di questi film tratti da storie vere si va a fare un riassunto, approfondendo solo alcuni snodi. Il documentario l’avevano già realizzato, quindi lo spirito voleva essere quello di qualcuno che te la racconta a cena, una storia così.
Un’importante discrepanza, per esempio, si ritrova nell’arco temporale: la costruzione dell’isola richiese dieci anni, ma questi vanno poi condensati perché sempre di un film di due ore stiamo parlando. Eppure c’è un dettaglio minuscolo, a inizio film, che ci ha fatto pensare che la storia duri in realtà sei anni: Rosa cita di sfuggita il fumetto di Diabolik come una grande novità e il suo esordio, il primo albo, è del 1962. Era voluto a questo scopo?
No no, Diabolik mi piaceva, ma tutto nasce dal mio studio sugli Anni ’60. E’ un periodo che io non ho neanche lontanamente vissuto, così mi sono chiesto: “Cos’era figo in quegli anni? Cosa avrei letto? Di cosa mi sarei appassionato?”. Un fumetto poteva essere un po’ un antesignano per un nerd, ed erano usciti Corto Maltese e Diabolik. Ma i successi editoriali in quegli anni andavano molto più lenti, adesso con internet va tutto alla velocità della luce. Quindi che uno di Bologna considerasse un fumetto di Milano come qualcosa di nuovo nel ’68, mi sembrava una chicchetta per contestualizzare, ma contestualizzare davvero. Ho cercato di creare un racconto a doppio strato, che oltre all’intrattenimento possa far apprendere delle cose del contesto storico. Insomma, sempre nel ’68 siamo, perché diciamocelo, lui ci ha messo un botto a costruirla e io ho dovuto riassumere, sennò dovevo star tre ore a raccontare di quando era crollata, di quando l’avevano ricostruita: la soglia dell’attenzione si è abbassata, vi sareste distratti subito. Avreste detto: “Oddio che rottura di palle!”. Vi sareste visti un altro film e avreste avuto ragione. Che so… che cazzo c’è su Netflix? Un’altra cosa… dicevate: “Vabbè, guardiamoci San Patrignano che è meglio!”.
Certo, l’impianto vuole essere da commedia, il che influenza anche i toni degli antagonisti. In questo le scene più esilaranti e le battute meglio scritte sono quelle che coinvolgono la classe politica dell’epoca. La caratterizzazione di Franco Restivo e Giovanni Leone. Ma anche la metafora del culo, era scivolosa da mettere in bocca a un cardinale in pieno Vaticano, eppure siete riusciti a reggerla per un minuto buono. Nell’atto della contestualizzazione storica, quando si va a toccare la politica bisogna farlo coi piedi di piombo. Non potrebbe essere quindi che la battuta, il valore della risata, permettano di schivare una caratterizzazione troppo inquisitoria? Rendere buffo il cattivo, se si tratta di un politico, può essere d’aiuto?
Stupirà sapere che non è sempre tutto così ragionato, sennò si perderebbe il resto. Non so se renderli buffi aiuta o non aiuta. Uno lavora di pancia, per me ci si deve anche divertire. Mentre lo scrivevamo ci facevamo un sacco di risate e su molte scene non c’è stata neanche riscrittura. Il Consiglio dei Ministri? L’avete visto più o meno come l’avevamo scritto la prima volta, di getto. Più che creare un villain in senso classico volevo immaginare come potesse reagire un politico, padre costituente, a una notizia del genere. Anzi, non credo sia un film di buoni contro cattivi, del bene contro il male, è molto più sfumato, anche i politici hanno le loro ragioni alla fine. Risultano buffi perché la vicenda è un po’ sopra le righe e loro reagiscono sopra le righe. Mi piaceva che quelli realistici fossero i ragazzi, che invece venivano fatti passare per matti. Questa era l’idea iniziale. E poi da lì provare a farsi due risate, citando i veri nomi dei padri della patria.
Andiamo sul comparto tecnico. Se parliamo di contestualizzazione, gli Anni ’60 segnano anche un boom del desing oltre a quello economico, ben noto. Vedi la rivoluzione nella moda e negli arredamenti. Due aspetti che nei film sono affidati rispettivamente a costumisti e scenografi e che abbiamo trovato molto ben curati, soprattutto gli arredi, fin dalla prima scena al Consiglio d’Europa, nell’ufficio di Cluzet. Nella tua idea di cinema – in generale, al di là della contestualizzazione storica dove ovviamente sono imprescindibili – che importanza ricoprono costumi e scenografie? Per alcuni registi sono di contorno, altri ci hanno costruito una carriera, uno stile riconoscibilissimo.
Per me sono fondamentali. Quando per esempio si va a parlare di fotografia, di look del film, si pensa sempre che faccia tutto il direttore della fotografia, invece è un lavoro di squadra che va dai costumi alle scenografie, a tutto il resto. Abbiamo fatto vari provini non solo agli attori, ma anche per decidere i costumi, le ottiche, addirittura la macchina da presa. Provavamo varie combinazioni fra i pezzi, li facevamo interagire coi set. Questo lavoro l’ho fatto per tutti i miei film, ma per quanto riguarda i dettagli in questo ci tenevamo particolarmente. Devi starci attento quando rappresenti un’epoca perché ci sono contaminazioni ogni due metri. Io ho il trauma ormai, a ogni scorcio che vedo becco una parabola satellitare e dico: “Ecco, qua non si potrebbero fare gli Anni ‘60”. Mentre in un film contemporaneo non devi stare attento proprio a tutto, questo invece mi ha insegnato la cura maniacale del dettaglio, perché non c’è cosa più brutta degli anacronismi.
Un po’ come l’orologio da polso nella famosa scena di Ben Hur…
Però in quel caso dici: “Vabbè, l’orologio te lo perdono perché hai fatto Ben Hur”. Non avendo quella pretesa a me cagano più il cazzo invece, se non ci stavo attento mi avreste detto: “E che cazzo, pure l’orologio?”.
Ce ne siamo accorti nella brevissima inquadratura di Palazzo Chigi, con Via del Corso piena di macchine. Un battito di ciglia, poi con la panoramica aerea erano dei puntini quasi invisibili. Ma ci siamo soffermati apposta nella speranza di trovare un errore: “Vuoi vedere che…”. E invece.
Erano d’epoca le macchine! Fatte con la computer grafica certo, finte quanto il sorriso di un ballerino di tiptap. Però tutte d’epoca. E poi c’è da considerare che in quegli anni erano ovunque, l’isola pedonale non era un valore comune, si parcheggiava alla selvaggia. Bologna l’abbiamo dovuta riempire.
Avrete dovuto affittare un parco auto museale…
Per quello è pieno di amatori in giro, che te le portano. Perché diciamocelo, che te ne fai di un’auto d’epoca? Noi siamo la scusa, siamo quelli che fanno i film: così fai vedere la scena agli amici e gli dimostri che l’acquisto a qualcosa è servito.
E l’auto di Giorgio Rosa invece? Era funzionante?
Assolutamente, funziona ancora se è per questo, ma non sapevamo proprio da dove partire per costruirla perché Rosa aveva buttato i progetti originali. Poi lui non aveva modificato un modello già esistente, tipo coattata alla Fast & Furious, ma l’aveva costruita da zero con tanto di divano, quello è tutto vero. Quindi con Tonino Zera, lo scenografo, l’abbiamo riprogettata da capo chiedendoci: “Se sono da solo, come la costruisco una macchina?”. Punto primo, non puoi piegare il ferro senza i macchinari, e lui le presse non le aveva. Poi da ingegnere non badi all’estetica, fai le cose nel modo più pratico possibile. Per questo è tutta squadrata. Dopo le riprese non l’abbiamo demolita, c’è ancora, l’unica cosa è che non ci puoi andare in autostrada ecco…
Senza targa poi, si rischia come nel film… A proposito della fotografia, che hai citato: la contestualizzazione di un’epoca passa anche molto per i suoi colori. In questo, la palette cromatica del tuo ultimo film è ben bilanciata, perché fa emergere i colori spenti delle case italiane ma vi alterna quelli più vivaci nelle scene estive. Un filtro molto diverso rispetto a quello della tua trilogia di “Smetto quando voglio”, molto particolare in quella sua forte saturazione. Quanto ha giocato in questo la mano dei due diversi direttori della fotografia, e quindi il passaggio da Vladan Radovich a Valerio Azzali? Vi siete influenzati a vicenda nelle scelte di post-produzione?
Il metodo di partenza è stato più o meno lo stesso: si cerca di immaginare un tipo di look che si vuol dare al film e poi lo si mette in pratica col direttore della fotografia. Ma con Vladan abbiamo fatto un discorso particolarissimo nato ormai nel 2013 e che si è anche dovuto evolvere nel corso dei capitoli di Smetto quando voglio, perché parliamo di una trilogia. In questo caso c’era la necessità di allontanarsi da quella fase, per portare invece gli Anni ’60 con una fotografia dedicata. Ovviamente bisogna stare molto attenti perché non si sta facendo un film degli Anni ’60 ma sugli Anni ’60, che poi esce nel 2020 su dispositivi e in formati estremamente definiti come quelli che usa Netflix: il dolby vision, il 4K-HDR-e-altre-otto-lettere o che so io. Il che non è facile da fare. Avevamo idee molto chiare rispetto a tre momenti del film, ognuno con la sua palette: Strasburgo, Rimini d’estate – che doveva essere colorata – e Roma con le stanze fumose della politica. In tutte e tre ci doveva essere una componente che richiamasse gli Anni ’60, ma che non fosse troppo marcata. Perché se vuoi andare a esasperare e scimmiottare quelle che poi sono le foto e i film degli Anni ’60, dettati dalla tecnologia dell’epoca, da un certo tipo di pellicola… li puoi richiamare ma non puoi andarci dritto per dritto. Avevamo anche fatto delle prove all’inizio, ma non ci convincevano per niente.
E per quanto riguarda il set? Già in fase di pre-produzione, durante la stesura della sceneggiatura, vi eravate posti il problema di dove sareste andati a rimediare, fisicamente, la vostra Isola delle Rose?
Quando si va a scrivere una sceneggiatura, tutto si riassume in un insieme di inquadrature e di scene, ciascuna con i suoi problemi di ordine molto pratico. E questa era complicatissima da realizzare, piena di “praticoni”. Ogni giorno ce n’era una: il motomondiale, la gara di scii nautico, la nave da guerra, il bombardamento. Quindi si prende ogni praticone e lo si analizza, cercando una soluzione su come girare materialmente la scena. Problema numero uno: metà film è ambientato su un’isola di cemento in mezzo al mare. Complicatissimo. Abbiamo valutato varie opzioni, passato in rassegna delle piattaforme preesistenti, ma sembrava impossibile. Quando ho iniziato a scrivere il film non pensavo di riuscire a realizzarlo così come l’avevamo immaginato, tant’è che ho cominciato a scriverne un altro, più fattibile, accantonando momentaneamente l’Isola delle Rose. Quando poi si è inserita Netflix siamo riusciti a renderlo più internazionale, abbiamo avuto accesso ai mezzi da grande produzione. Così siamo andati a Malta dove ci sono questi studi, gli Infinity Pool, che sono delle piscine gigantesche dove abbiamo fisicamente costruito l’Isola cercando di non tradirla troppo nei materiali di costruzione (mattoni e cemento) ma rendendola idonea per girarci un film, con la piazzola come fosse una piazza cittadina col chiosco delle bibite. Alla fine ci sarà voluto un annetto per risolvere tutti i praticoni, un annetto e mezzo. Uno pensa che girare un film sia solo quello che ti fanno vedere in backstage: “Motore! Azione! Entrino i cammelli!”. Lo pensavo anch’io da bambino, dicevo: “Dai, giriamo un film!”. Senza sapere che quella è la parte finale di un lungo processo e anche la meno interessante.
Insomma, se vuoi i cammelli il difficile è procurarteli. La CGI ha aiutato in questo, nel risolvere certi “praticoni”?
Certo, ci sono tantissimi effetti visivi. Su quasi due ore di film, c’è almeno un ora e mezzo di girato in VFX. C’è sempre un dettaglio da cancellare, uno da aggiungere, ma sempre di tecnica mista si parla. Io non ne avevo mai fatto un uso così massiccio e ho imparato tantissimo da questo film, ho capito come funziona davvero “fare i film con la CGI”. Il prossimo però lo faccio senza. Non perché la computer grafica risulti troppo invasiva, come se si stesse barando. E’ più complicato di così, è una cosa di pensiero, va usata con intelligenza. Persino nei film della Marvel, dove è tutto un effetto speciale dopo l’altro, quando si vanno ad analizzare non sono mai complessi, quanto piuttosto intelligentissimi. Vanno sempre pensati rispetto a ciò che ci si può permettere di fare con la tecnologia che si ha a disposizione. Ma anche lì, non è questione di macchine, lo strumento non è in sé limitante. E’ questione di… una questione intelligente ecco. Per dire, il secondo Terminator risale al ’91 e ha degli effetti speciali bellissimi, il T-1000 è credibile ancora oggi ed è fatto con un processore che adesso sta nei frullatori. E’ come fare qualcosa col chip del telecomando del televisore, solo che è pensato benissimo e quindi viene bene. E’ sempre una cosa di testa, i film sono sempre tutto ragionamento di un sacco di gente messa insieme.
Sicuramente quello della CGI è un settore in espansione, soprattutto in questo periodo viste le notizie che arrivano dai set dopo lo stop imposto dal Covid. Sembra che si stia ovviando ai problemi logistici derivanti dalla pandemia – dallo spostamento delle troupe in varie locations agli assembramenti in caso di scene con folle – con un utilizzo mai visto della computer grafica. Ne abbiamo parlato proprio sul cartaceo di Gennaio. Ma forse sono problematiche che ti hanno riguardato solo in post-produzione se – come immaginiamo – hai concluso tutte le riprese prima della chiusura dei set…
Tutte tranne una, quella ambientata all’ONU a New York.
Quella con la finestra che dà sul World Trade Center? Mettendo in fermo immagine e facendo attenzione si notano le gru sulla Torre Nord, la cui costruzione fu avviata proprio nel ’69. L’ennesimo dettaglio storico?
In realtà mi riferivo alle riprese aeree della città… ma finalmente qualcuno che le nota ‘ste Torri Gemelle! Un dettaglio voluto, certo! Ma voi siete gli spettatori ideali, mi date certe soddisfazioni… anche su dettagli che non si è cagato nessuno. Grazie!
Se andiamo a parlare degli Anni ’60, ciò che fa più contesto nell’immaginario degli appassionati è senz’altro la musica, che vive una vera esplosione durante tutta la decade e viene coronata dal Festival di Woodstock nel ’69. E i brani di quel periodo infatti fanno non solo da colonna sonora, ma da vera e propria colonna portante di molte scene. Sono protagonisti. Oltre alle musiche originali composte da Michele Braga, la scelta delle restanti è ricaduta su di te? Il fatto è che hai trentanove anni, come hai detto tu stesso sei un ragazzetto rispetto a quell’epoca. E’ forse una specie di nostalgia di seconda generazione quindi? Erano le canzoni dei tuoi genitori, con le quali ti hanno cresciuto? E’ così persino per alcuni ventenni, noi compresi…
Intanto c’è da dire che roba come Jimi Hendrix è figa a prescindere, non ha età. Per come la vedo io gli Anni ’60 erano fighi per un sacco di cose. Di bruttissimo ci poteva essere giusto l’architettura, infatti quando vedi certi condomini dici: “Questa è brutta. Questa è Anni ‘60”. Per il resto era un periodo di grande fermento. Per quanto riguarda le musiche, mentre scrivo un film è mia abitudine buttare giù una playlist su Spotify che ascolto a raffica e che condivido con le tante persone che poi lavorano sulla colonna sonora: in questo caso Michele Braga appunto; il dj Roberto “Bob” Corsi che ci visionava il repertorio; il montatore Gianni Vezzosi che è bravissimo con la musica e l’ottanta percento del merito è sempre suo nei miei film; il music editor Laurence Greed, un pezzo grosso di Londra che ha lavorato anche con Danny Boyle o a serie tv come The Crown e The Terror. Lui ha contribuito nel dare una dimensione più internazionale alle musiche. Poi per vari motivi non tutte quelle in lizza finiscono nel film. Innanzitutto ci sono i diritti sul copyright da rispettare: nel migliore dei casi si devono versare un sacco di soldi alle case discografiche per utilizzare i brani, nel peggiore è l’autore stesso a negare l’utilizzo. Poi quando si va al montaggio audio con Gianni molte vengono scartate perché non funzionano con la scena. Nel finale per esempio avevamo pensato a tutt’altra canzone, ma non funzionava, così abbiamo inserito all’ultimo Eve of Destruction di Barry McGuire che avevo ascoltato per caso proprio il giorno prima ed era perfetta. Ovviamente bisogna starci attenti come con gli scorci per strada, evitando anacronismi, perché fa stranissimo mettere una canzone del ’69 in un film del ’68. Anche se tanto poi, che cazzo ne sa la gente di quando è uscita di preciso quella canzone? Tant’è che alcuni non se ne preoccupano, noi sì. Altra cosa molto interessante del repertorio dell’epoca è che era pieno di cover, la gente copiava senza pietà. Cover dichiarate, non dichiarate, facevano come gli pareva ed era una cosa bellissima, di fermento, perché è l’arte che si parla e si influenza a vicenda senza limiti di copyright. Per questo al posto della versione originale di California Dreamin’ dei The Mamas & The Papas abbiamo usato quella italiana. Da piccolo in realtà, pensavo che Sognando California dei Dik Dik fosse la canzone originale, non la cover. E come quella ce ne sono un miliardo.
Proprio su questo ci è venuto qualche dubbio. Perché ci sono cover italiane o comunque canzoni nostrane, ma ci sono anche molti artisti conosciutissimi oltreoceano: Jimi Hendrix, Shocking Blue, The Kinks. Il problema è che se questi nomi questi molto noti nell’America del ‘68, non si può dire lo stesso per il panorama italiano, decisamente più arretrato e cattolico, dove avrebbero fatto breccia in anni successivi. Vale un po’ quello che dicevi per Diabolik, ma all’ennesima potenza: ciò che è nuovo per qualcuno di Bologna nel ’68 magari ci ha messo sei anni per arrivare da Milano. Eppure tu decidi di rappresentare comunque l’Isola delle Rose con quella musica. Abbandonata quindi la veridicità storica, l’obiettivo era idealizzare l’esperienza culturale dell’Isola? Di fare una sorta di trasposizione della Woodstock americana in mezzo all’Adriatico?
Obiezione giustissima, soprattutto se si parla di Rimini in estate, che è una cosa super pop e poco avanguardistica, dove si ascoltava solo geghegé italiano al massimo. Cioè le cover pop rock di cui parlavamo prima. Quando invece la parola la prendevo io come autore potevo seguire i miei gusti più internazionali senza rischiare di cadere nell’anacronismo, perché la musica non è materialmente presente sulla scena, non viene riprodotta da una radio, ma serve da accompagno fuori campo per il solo spettatore. I gusti e le abitudini di ascolto dei personaggi invece, si vedono in scene come quella che introduce Rudy Neumann, col concerto di Edoardo Vianello. Quella scena è bellissima perché abbiamo chiamato personalmente Vianello che è venuto a cantare appositamente per noi. Anche la voce che a un certo punto chiama Rudy è la sua, mentre la canzone è registrata in studio e l’attore che si vede canta in playback.
Ma Vianello è una macchina da guerra, ha ancora una voce quell’uomo… Se parliamo di spiagge estive poi, basta pensare a quell’episodio iconico dei “Mostri” di Dino Risi, accompagnato per intero da “Abbronzatissima” di Vianello. Ed era il ’63!
A più di ottant’anni fa ancora le tournee! Per la scena in questione, che poi è stata la prima che abbiamo girato in assoluto, ci siamo dovuti organizzare con lui, che fra una serata e l’altra non poteva mai.
Ci hai detto che una volta salita a bordo, Netflix ha permesso di aprirsi a un panorama più internazionale, sia per pubblico che per addetti ai lavori. Questo si vede anche nel cast, che può contare su ottimi nomi (Elio Germano, Fabrizio Bentivoglio, Luca Zingaretti e non ultimo la nascente Matilda De Angelis), ma non solo del panorama attoriale italiano. C’è François Cluzet, attualmente uno dei volti francesi più noti. Ma mentre il suo è un ruolo da comprimario, ben altro peso ha il personaggio di Rudy Neumann interpretato da Tom Wlaschiha, attore che ha lavorato con registi del calibro di Steven Spielberg, Ron Howard e Bryan Singer, nonché in quella che è considerata la serie del decennio: “Game of Thrones”. Come siete venuti in contatto? Com’è stato lavorare con loro?
Sono due casi molto diversi. Cluzet aveva una parte da recitare in francese, per la quale si pensa a un attore apposito: lo si chiama, gli si fa leggere la sceneggiatura e se gli piace accetta la parte. Poi essendo così piccola può anche fregarsene altamente, perché non si sente un granché coinvolto nel film. Lui invece era entusiasta, lavorare insieme è stato divertentissimo – anche se non parlavo una parola di francese. Si è speso tantissimo, ogni giorno arrivava con un’idea nuova, il suo entusiasmo è stato contagiosissimo soprattutto perché erano le prime settimane di riprese. Il caso di Tom era più spinoso e richiedeva apparentemente un lavoro molto complesso, perché avrebbe dovuto imparare la lingua per recitare in modo fluido. Ma soprattutto doveva riuscire a fare un tipo di commedia all’italiana con dei tempi comici molto particolari, che sono innati, o li hai o non li hai. Invece ha dato prova dell’attore straordinario che è, da noi se ne parla troppo poco perché non è molto conosciuto: si è presentato di sua sponte al provino – che era in italiano – senza sapere una parola d’italiano, con dei tempi comici perfetti. Quando l’ho visto gli ho detto: “Tom, qui ti chiameranno tutti. Da adesso devi fare solo commedia italiana, tutti i film con Checco Zalone!”. Quindi che dire, sono grandi professionisti, non è più difficile ma persino più facile, considerando anche il gap della lingua.
Per cui la voce di Wlaschiha è proprio la sua? E poi fa specie come descrivi Cluzet perché sembra perfettamente calato nella parte, sul set si comportava esattamente come il suo personaggio: un pezzo grosso che viene a sapere di una storia “di nicchia” e ci si appassiona, vuole che sfondi…
Tom parla in presa diretta, sì. Non c’è stato bisogno di doppiarlo in post-produzione. Anzi, è stato lui stesso a doppiarsi per la versione inglese e quella tedesca. Cluzet invece tutto contentone, molto fomentato perché era da tempo che non faceva commedie e voleva divertirsi. E’ stato strano perché per un’intera settimana abbiamo girato solo in francese e io non capivo una mazza. Per quel che ne sapevo potevano aver detto quello che gli pareva: “Avranno detto giusto? Speriamo…”.
Con l’ultima domanda cercheremo di dare sfogo a quella caccia al riferimento, alla citazione, degna di ogni cinefilo che si rispetti. Parafrasando le tue parole: “I registi copiano senza pietà: è l’arte che si parla e si influenza a vicenda”. Spesso lo spettatore coglie riferimenti in realtà inesistenti, perché se si attinge dal proprio bagaglio cinematografico si potranno sempre trovare rassomiglianze, anche forzandole. Nel nostro caso, per esempio, la scena in cui Maurizio fa il verso dell’indiano mentre cavalca il pilastro che affonda, ci ha ricordato quella del “Dr. Stranamore” di Stanley Kubrick in cui il Maggiore Kong fa il cowboy sulla bomba atomica. Te ne faranno a migliaia di domande così, ma per noi la questione è più profonda: ci chiediamo sempre “Che cosa starà girando Sydney?” ma mai “Che cosa starà guardando Sydney?”. Perché prima del regista viene il fruitore, con i suoi gusti, e questo ci sembra determinante. Poi il film di Kubrick è del ’64 quindi la domanda poteva essere non tanto se l’avessi visto tu, ma se fosse lo stesso Maurizio ad averlo visto. Se fosse insomma l’ultimo dettaglio di contesto culturale degli Anni ’60…
Se Maurizio l’ha visto? Grazie della stima ma no, non sono così bravo, però ripensandoci mi sarebbe tanto piaciuto. E’ un po’ che non vedo il Dr. Stranamore, ma tornando indietro lo citerei solo per tornare qui e dire: “Grazie ragazzi, che l’avete notato”. Scherzi a parte, non siete i soli. Ogni volta mi chiedono se quella cosa l’ho riferita a quell’altra, se tizio somiglia a caio. Ma siete i soli ad averla posta in questo modo: “Che film vedeva Sydney prima di mettersi a girarli?”. Questa è La Domanda, la più importante di tutte. Ciò che crei cambia a seconda di quello che vivi, che guardi, che leggi. E spesso oltre ai riferimenti consci ne fai molti altri inconsci, questo potrebbe essere uno di quelli. Ma in generale i miei riferimenti sono sempre molto più beceri, quindi prima dovreste chiedervi: “Se il film è troppo alto, come in questo caso, possibile che fosse voluto?”. Io cito solo cose terribili…
Allora per rimanere su cose più becere: è possibile che l’Isola delle Rose di Sydney Sibilia sia un po’ la Radio Rock di Richard Curtis? Saranno le somiglianze fra i Consigli dei Ministri, sarà Fabrizio Bentivoglio truccato e acconciato molto simile a Kenneth Branagh, sarà la scena delle barche che vengono in soccorso nel finale – stile esodo di Dunkirk, roba da “arrivano i nostri”.
Qui è ovviamente conscio, perché I love Radio Rock l’ho rivisto anche mentre scrivevamo la sceneggiatura. Io poi non ho problemi a fare sciacallaggio da altri film, se una cosa mi piace attingo a piene mani. Anche se più che la scena delle barche, è stato il modo in cui Richard Curtis tratteggiava la politica che mi ha ispirato di più. Poi quel film ha tantissimi fuochi, apre una sequela di parentesi narrative che solo un genio come Curtis poteva gestire tutte assieme. Si prende certe libertà, è talmente anarchico che i suoi film diventano quasi “a-tramatici” e non sempre vengono capiti subito. Infatti Radio Rock non andò benissimo quando uscì, ma ora lo conoscono tutti.
Con i cult inizia sempre così…
Meglio così, che diventi un cult postumo, piuttosto che lo vedano in tanti e poi se ne scordino dopo pochi mesi. Che dire, fare film è molto difficile ragazzi. Perché da un lato c’è il mito che la soglia d’attenzione si stia abbassando, soprattutto fra i giovani, ma poi ci siete voi che analizzate i film con tanta attenzione e io devo essere all’altezza! Voglio ringraziarvi, perché abbiamo bisogno di spettatori come voi. Quando vi pare torno e ne parliamo ancora.
Attento a quello che desideri: siamo stati così attenti da segnarci la tua promessa. Che il prossimo film lo girerai senza CGI. Se non sarà così, appena esce ti portiamo alla sbarra…
L’intervista mi è piaciuta ma non iniziamo a far ‘ste cose… In realtà non ne ho la più pallida idea, magari mi viene in mente qualcosa di originale con la computer grafica pesante. Posso scriverci una bella roba tipo… che so, coi dinosauri!
E fu così che Sydney Sibilia ci regalò l’indiscrezione dell’anno: girerà il prossimo capitolo di Jurassic Park… o adesso si chiama Jurassic World?
Articolo di Carlo Giuliano e Alessandro Mason