La legge di bilancio finanzia l’istruzione privata, ma lascia indietro quella pubblica

La manovra stanzia fondi contro la dispersione scolastica ma insiste sugli accorpamenti, senza cogliere l’opportunità per ridurre il numero di studenti per classe. E continua a puntare sul privato, anche per l’istruzione.

09/02/2023

Il 29 dicembre il Senato ha approvato definitivamente la legge di bilancio per il 2023. Secondo i sindacati però i fondi per l’istruzione sono pochi e mal distribuiti. Saranno aggiunti 70 milioni di Euro destinati alle scuole paritarie, che portano l’ammontare dei fondi per le scuole private stanziati in legge di bilancio a 626 milioni di euro. Alle scuole pubbliche invece, a parte il ripristino del taglio di 126 milioni e finanziamenti che riguardano solo i commissari d’esame, saranno riservati appena 150 milioni. Come se non bastasse, molte di queste saranno anche accorpate in altri istituti, con una conseguente riduzione del personale.

In Italia le scuole private si distinguono in due principali categorie, paritarie e non paritarie. Entrambe sono disciplinate e riconosciute dallo Stato, ma le paritarie sono equiparate a scuole statali e possono rilasciare diplomi, mentre per gli studenti delle scuole non paritarie è necessario rivolgersi a enti o scuole autorizzati. Le scuole paritarie fanno dunque parte del Sistema nazionale d’Istruzione e hanno gli stessi obblighi e doveri della scuola pubblica. 

In Italia sono circa 12mila, la maggior parte scuole dell’infanzia. Gli alunni invece sono circa 817 mila, poco più del 10% del totale. 

Dal 2015 i finanziamenti per le scuole paritarie non hanno fatto che crescere: il Governo Renzi nel 2016 ha portato il contributo complessivo a 500 milioni di euro, mentre il Governo Draghi a 556, lasciando in sospeso 70 milioni di euro che sono stati stanziati nella Legge di Bilancio 2023 dal governo Meloni. I precedenti esecutivi avevano riscontrato la necessità di abbassare i costi per le scuole paritaria, garantendo alla famiglie la possibilità di scegliere tra paritarie e statali senza ostacoli economici, e di raggiungere la parità tra scuole statali e paritarie, garantita sulla carta, ma non nella pratica. Anche l’attuale governo non ha fatto eccezione: il ministro Tajani, al congresso dell’Associazione italiana Maestri Cattolici ha ribadito che: «Il governo sostiene convintamente la libertà di scelta, aiutando anche le famiglie meno abbienti». 

Non esistono dati precisi sul costo medio delle rette delle scuole paritarie. Le cifre che vengono citate sono normalmente senza fonte. In generale però i numeri si aggirano sempre tra i 4000 mila euro e gli 8000, in base al grado di scuola preso in considerazione. Con l’aumento dei 70 milioni, il contributo statale per ogni studente per le paritarie viene portato così da 500 Euro a 765 Euro, mentre il costo medio per ogni studente (Cms) stimato dal Ministero corrisponde a circa 7000 Euro. Se nelle scuole statali la spesa è totalmente a carico dello Stato, nelle paritarie è la famiglia che paga la maggior parte. 

La spesa dello Stato per le paritarie, quindi, cresce per rimuovere lo scoglio dei costi e permettere alle famiglie di scegliere liberamente dove istruire i propri figli. Ma se l’obiettivo appare lontano, non è nemmeno sostenibile. A meno che non si accetti di proseguire nel ridimensionamento della scuola pubblica e di privatizzare l’istruzione. 

L’art. 555 quinquies della legge di bilancio dispone infatti degli accorpamenti tra istituti sulla base di un coefficiente numerico che indica il «contingente» dei dirigenti. Ossia, in termini pratici, la quantità di alunni e personale assegnati a ogni dirigente. Ciò significa che le scuole che non soddisfano questa soglia di organico saranno accorpate in altri istituti e che molte unità scolastiche verranno soppresse. Secondo quanto contenuto nell’Audizione della CGIL circa le criticità della legge, si stima la chiusura di 700 unità scolastiche solo nel prossimo biennio. Gli accorpamenti aumenteranno progressivamente di anno in anno portando, entro la fine del decennio, a un ridimensionamento drastico delle istituzioni scolastiche. Sempre la CGIL infatti sottolinea come nel 2031 le scuole (intese come istituti giuridici) saranno 6885, contro le attuali 8136 – ciò vuol dire che alcuni plessi scolastici saranno accorpati sotto un’unica dirigenza, senza però chiudere fisicamente alcuna scuola. Le misure verranno adottate dal Governo dal 31 maggio, termine che le Regioni hanno per regolamentare la materia.

Le motivazioni a sostegno delle misure di accorpamento sono perlopiù di natura demografica: a causa del crollo nel tasso di natalità, tra dieci anni, ci saranno circa un milione e mezzo di studenti in meno. La scelta solleva comunque delle perplessità. In primo luogo gli accorpamenti degli istituti sono previsti con una velocità superiore alla reale diminuzione degli iscritti, in secondo luogo le misure riguardano un fenomeno le cui caratteristiche sono mutevoli e dilazionate nel tempo.

Le conseguenze delle previsioni sono invece immediate. Diminuendo il contingente dei dirigenti si stima la riduzione dei posti di organico di oltre 1.400 stipendi per Dirigenti Scolastici e Direttori dei servizi. La riduzione sarà anch’essa progressiva e riguarderà quindi un numero sempre più elevato di dirigenti con il trascorrere degli anni.

Se da un lato la legge di bilancio si occupa di ridurre il numero di scuole, non si occupa invece di limitare il caso delle classi pollaio e quindi di ridurre il numero di alunni per classe. Secondo il Presidente dell’Anief, associazione nazionale insegnanti e formatori, la mancanza di una tale previsione incide sulla qualità dell’insegnamento. A sostegno di queste ragioni lo stesso sindacato ha stilato una lista di quaranta emendamenti della legge di bilancio, affinché possano essere adottate misure adeguate. Secondo il sindacato Anief si dovevano «utilizzare i finanziamenti del Pnrr per ridurre il numero di alunni per classe, invece di continuare l’operazione di riduzione di spesa per l’Istruzione pubblica, con tutte le conseguenze negative a cui ha condotto» tra cui si nomina «la flessione di competenze dei nostri alunni e studenti».

Per quanto preoccupi l’ondata di chiusure, ancora più allarmante è la loro diffusione sul suolo nazionale. Gli accorpamenti, e di conseguenza le riduzioni dell’organico, riguarderanno infatti in modo capillare le regioni del Sud. Le regioni più colpite saranno Sardegna, Sicilia, Calabria, Basilicata e Campania. Si dovrà provvedere alla chiusura di tutte quelle scuole che non soddisfano i requisiti numerici della legge. Proprio queste regioni sono quelle in cui il tasso di dispersione scolastica è superiore rispetto alla media nazionale (12,7%). La Sicilia, ad esempio, la supera di quasi dieci punti percentuali, registrando una dispersione scolastica pari al 21,1%. Altre percentuali critiche si calcolano in Puglia (17,6%), Campania (16,4%) e Calabria (14%).

Al 2021, secondo i dati Eurostat la dispersione scolastica in Italia riguarda il 12,7% degli studenti, la quarta percentuale più alta tra i Paesi Ue. Si tratta di quasi 3 punti al di sopra del target che l’UE ha inserito nell’agenda 2020, cioè il 10% – obiettivo che l’Unione Europea è comunque riuscita a raggiungere se si fa la media tra tutti i Paesi comunitari.

Proprio alla riduzione della dispersione scolastica dovrebbe essere finalizzata una parte dei 150 milioni destinati alla scuola pubblica, con delle misure che però saranno decise solo entro i prossimi sei mesi, come viene scritto nella legge di bilancio. Al fine di poter diminuire l’abbandono scolastico si dovrebbero emanare misure relative anche al numero di studenti per classe. Lo stesso Ministro dell’istruzione e del merito ha dichiarato di voler diminuire il numero di alunni per classi, come misura strumentale alla riduzione della dispersione scolastica, riconoscendone quindi la correlazione. Tuttavia il provvedimento riguarderebbe solo 50 scuole campione, rendendo superflua la misura, almeno per il prossimo futuro. Sempre al fine di ridurre la dispersione si dovrebbe poi tener conto di contesti marginali in cui la facilità di accesso alle scuole è determinante per scongiurare l’abbandono precoce. Di questo, in base all’art.561 della legge di bilancio, potremo avere notizie nei prossimi mesi.

Oltre alle critiche relative alle classi pollaio, i sindacati hanno sollevato perplessità circa l’assenza ingiustificata di misure relative alla stabilizzazione dei docenti precari. Al contrario nei giorni scorsi è stato indetto l’ennesimo concorso per l’assunzione di 70 mila precari. La stabilizzazione dei precari oltre a essere necessaria data la situazione attuale – un docente su cinque è precario – è un obiettivo contenuto del PNRR e preoccupa quindi la sua assenza nella legge di bilancio.

Nella Legge di Bilancio non si fa quasi riferimento alle altre riforme del PNRR ancora da completare: oltre ai fondi per la dispersione scolastica, che devono ancora essere assegnati in maniera precisa, non vengono modificate le riforme già varate dal governo Draghi. Nessuna novità quindi, con l’Italia che continua a mantenersi al di sotto della media europea del 5% per spesa in istruzione in rapporto al PIL: insieme a Romania, Bulgaria e Irlanda si ferma sotto al 4,5%. Gli Stati che spendono maggiormente sono Svezia, Danimarca e Belgio, tutte sopra il 6%, mentre Francia e Germania si attestano rispettivamente al 5,3% e al 4,3%. 

 

A un mese dall’approvazione della legge di bilancio, i sindacati hanno espresso non poche perplessità riguardo le ripercussioni che le misure in essa contenute avranno sul sistema scolastico, consapevoli che i sei mesi successivi saranno cruciali per il futuro di un’istruzione che sia quantomeno accessibile e democratica. La manovra stanzia fondi contro la dispersione scolastica ma insiste sugli accorpamenti, senza cogliere l’opportunità per ridurre il numero di studenti per classe. E continua a puntare sul privato, anche per l’istruzione. 

Articolo di Mattia Amadei e Fabiola Catalano