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Slowtempo – Unknown Pleasures
In teoria musicale, gli “slow tempos” sono i tipi di andatura ritmica delle battute più lente: proprio il ritmo che pensiamo serva per capire e godere appieno della musica. Contro la frenesia degli algoritmi di Spotify o Apple Music, Slowtempo è una guida musicale più a misura d’uomo, che racconterà alcuni degli album più significativi della storia recente, e l’impatto che essi hanno avuto sulla cultura giovanile. Il terzo che abbiamo deciso di raccontare è Unknown Pleasures dei Joy Division.
Sono sulla metro B, è sera. Il ronzio dei neon sembra perforare i timpani come uno spillo. La luce fredda si rifrange sulle pareti bianche ed irrita i miei occhi, già arrossati dalla lunga giornata. Mi accoccolo sul sedile blu e socchiudo gli occhi, cercando di limitare al minimo gli input. Il mio tentativo fallisce non appena le porte si aprono, col caratteristico fischio, a stazione Termini: una comitiva di ragazzi in piena pubertà, tra i 14 e i 16 anni, fa irruzione nel vagone. Nello squadrone di schiamazzi un particolare cattura subito la mia attenzione. Una ragazza, le punte dei capelli tinte di viola, indossa una maglietta tagliata all’altezza dell’ombelico, che si lascia intravedere. Su di essa spicca l’iconico artwork della copertina di Unknown Pleasures, dei Joy Division: quelle linee ondulate bianche che si stagliano sul nero. Immagini-simbolo del genere, volenti o nolenti, diventano proprietà collettiva e riverberano in una sorta di rielaborazione continua open-source. Quell’icona è diventato materiale plasmato in mille forme, dalla moda, ai tatuaggi, alla street art, fino ai mash-up più o meno ironici sui social. Se queste immagini continuano a parlare, è perché attraverso esse pulsa un mistero che non si esaurisce, anzi si accresce col passare del tempo; è perché quella dei Joy Division, è musica che viene dalle profondità, dagli abissi. Proverò a tuffarmici. Tanto mancano ancora dieci fermate.
Ascolto consigliato: Shadowplay
La storia dei Joy Division inizia come quella di decine di altri gruppi nati in Inghilterra a cavallo dell’esplosione del punk: ovvero, quattro ragazzi mettono su un gruppo senza nemmeno saper suonare. Terminerà lontanissimo da queste premesse, nel giro di neanche quattro anni. Una parabola inaspettata: d’altronde allo stesso modo nessuno si sarebbe figurato che quel gruppo sarebbe finito, 40 anni dopo, sulla maglietta di un’adolescente spensierata. A colpirmi infatti è proprio l’effetto di contrasto tra le risatine sguaiate della suddetta ragazza e la visione tetra che nella mia testa ho dei Joy Division. A partire dal nome: deriva da La casa delle bambole, romanzo del 1965 scritto da un sopravvissuto ai campi di concentramento che aveva assunto lo pseudonimo di Ka-Tzetnik 135633, dal numero marcatogli sul braccio. La storia è scritta dal punto di vista di una quattordicenne mandata alla “Divisione della Gioia” di Auschwitz, baracche in cui femmine giovani venivano tenute come schiave sessuali per i soldati tedeschi in licenza dal fronte russo. Il primo nome del gruppo era stato “Warsaw”, città che affascinava per i suoi richiami alla Seconda Guerra Mondiale: la rivolta del ghetto ebraico, la distruzione della Città Vecchia e la desolazione di una città frettolosamente ricostruita dopo la guerra, tutta palazzi severi e edifici ministeriali alla 1984 di Orwell, con le sue ampie e inquietanti strade progettate per far passare i carri armati sovietici. Nel 1978 i Warsaw autoprodussero l’EP di debutto An Ideal For Living. Sulla copertina, la fotografia di un biondino della Gioventù Hitleriana che punta un fucile contro un bambino ebreo polacco. Ian Curtis, frontman della band, era ossessionato dalla Germania. Secondo la moglie, Deborah, alle loro nozze era stato eseguito un canto costruito sulla melodia dell’inno nazionale tedesco. Ciò era dovuto in parte all’aura berlinese dei suoi idoli, Lou Reed, Iggy Pop e David Bowie. Ma ad incuriosirlo era anche la psicologia di massa del fascismo: il modo in cui bastasse un leader carismatico per convincere la gente a fare o accettare le cose più irrazionali e turpi. Il bassista Peter Hook e il chitarrista Bernard Sumner riconoscevano l’attrattiva di «una certa sensazione fisica derivante dal flirtare con una cosa del genere… per noi era un’emozione forte, molto forte.» L’uso dell’immaginario nazista da parte dei Joy Division non era mera provocazione per i benpensanti, come le svastiche sulle giacche dei punk; né, come suggeriva qualcuno, un’identificazione con le vittime, con gli oppressi, anziché con i carnefici. Nasceva piuttosto da un fascino morboso per i meandri più oscuri dell’uomo. Ma tutto ciò veniva facilmente frainteso. Numerose furono le accuse mediatiche che il gruppo ricevette di «tenere nascosto Eichmann in cantina». Qualunque ambiguità ideologica veniva considerata irresponsabile, specie in giorni in cui i neonazisti marciavano per le strade delle maggiori città inglesi. Con l’uscita di Unknown Pleasures, siamo nel giugno 1979: in quell’anno, in Italia, si concludeva il processo per la Strage di Piazza Fontana. Condannati all’ergastolo i neofascisti Freda, Ventura e Giannettini. Un commando neofascista irrompeva negli studi di Radio Città Futura ferendo i conduttori a colpi di pistola e bruciando i locali; il giorno dopo assaltavano una sede della DC.
Persino nell’immagine i Joy Division – camicie grigie, capelli corti, cravatte sottili – possedeva una monocromaticità e una disciplina che sapevano di totalitarismo.
Ma il grigiore e l’austerità erano assorbiti dal loro ambiente di appartenenza: non potevano che provenire dalla Manchester degli anni ’70.
Ascolto Consigliato: Day of the Lords
«Inverosimilmente orrenda» è questa la prima impressione che ebbe di Manchester Jon Savage, giornalista e conduttore radio, quando vi si trasferì nel 1978.
In Industrial Estate – brano dei Fall, una band che condivise i palchi con i Joy Division – la città veniva descritta con le parole «The crap of the air will fuck up your face» («La merda nell’aria ti rovinerà la faccia»).
Ancora oggi, nonostante gli sgargianti e avveniristici uffici del centro, permangono sacche di squallore del secolo scorso. Edifici tetri e imponenti, monumenti alla superbia dei magnati industriali, self made men. I mattoni rosso scuro sembrano asciugare la flebile luce che emana dai cieli grigio ardesia, sempre coperti. Fuori dal centro, le tracce della capitale mondiale dell’industria meccanizzata del cotone si fanno più evidenti. Viadotti ferroviari, canali color piombo, magazzini e fabbriche, lotti di terreno sgombrati e cosparsi di muratura e rifiuti. Come in altre città del Regno Unito, gli urbanisti rasero al suolo le vecchie villette vittoriane a schiera. Longeve comunità operaie dei “bassifondi” vennero rialloggiate in quelli che presto si sarebbero rivelati laboratori di segregazione sociale: i primi palazzi e case popolari. Per Una Baines, moglie del cantante dei Fall, la riprogettazione rappresentò una sorta di trauma primordiale: «Ricordo mia madre che piangeva all’angolo della strada mentre abbattevano la nostra fila di case […] Quegli urbanisti, dovrebbero impiccarli per ciò che hanno fatto. Hanno provocato più danni a Manchester che i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale: e tutto sotto la maschera di una generosa democrazia sociale».
Negli anni ’70, la prima città industriale del mondo era diventata la prima a entrare nell’era postindustriale. Prima culla del capitalismo, e poi la sua tomba. Il benessere era evaporato con la recessione e la disoccupazione, ma rimaneva l’ambiente desolato e snaturato.
Nel ’79, l’anno di Unknown Pleasures, Margaret Thatcher divenne la prima donna inglese a occupare la carica di primo ministro, come leader del partito conservatore.
La sua linea intransigente le valse l’appellativo di Iron Lady: fece deregolamentare la finanza e il mercato del lavoro; privatizzò le aziende statali e ridusse l’influenza dei sindacati. Lodata da alcuni come uno dei più influenti politici della storia britannica, odiata da altri per l’incapacità di dialogo, la politica economica improntata a un liberismo selvaggio, la mancanza di sensibilità sociale verso le fasce più deboli.
La cupa decadenza della loro città e della loro epoca sembrava in qualche modo penetrare a fondo nel tessuto dei suoni dei Joy Division. Ventenni, spesso si incrociavano al mattino, diretti a lavoro al complesso industriale Trafford Park, con lo stesso giaccone da operaio. Sumner era addetto alle spedizioni, Hook e Curtis impiegati comunali.
Prima del punk, a Manchester non succedeva nulla. C’erano tutti gli aspetti negativi della vita urbana – inquinamento, mostruosità architettoniche, bruttura generalizzata – ma nessuna delle sue compensazioni sottoculturali. Nel ’78 il punk si era esaurito e così le fameliche anime di Manchester furono costrette a inventarsi qualcosa, aggrappandosi a qualunque stimolo gli capitasse fra le mani. Droghe, libri e, per fortuna, musica.
Ascolto consigliato: Interzone
Agli occhi dei contemporanei, i Joy Division erano un gruppo hard rock come tanti, con qualche influenza punk. In effetti erano debitori della loro stessa nascita al punk: la molla che li spinse a unirsi fu un concerto dei Sex Pistols insieme ai Buzzcocks, gruppo leggendario della scena di Manchester. Il punk aveva dimostrato che la scarsa capacità tecnica con gli strumenti non era un problema, anzi poteva diventare un punto di forza. Così si moltiplicavano i ragazzi che sperimentavano e speravano di sfondare, puntando sull’incoscienza dei principianti. Ma il punk era morto di overdose assieme al suo alfiere, Sid Vicious, sempre nel ’79. Un grido troppo forte che si era strozzato da solo, bruciando nel giro di pochi anni. Così, di quei ragazzi che tentarono di imitarlo, passarono alla storia del rock solo quelli che ebbero il coraggio di superarlo. In Interzone si fanno sentire gli echi della loro formazione punk, ma se si ascolta attentamente, si coglie una nota dissonante, qualcosa che non va. La chitarra non è più carica e satura, ma contorta, deformata. Il ritmi frenetici ed esaltanti diventano convulsi ed ansiogeni. Nel testo, non c’è più ribellione e rifiuto dell’autorità ma solo scenari sinistri e frustranti: «Giù per le strade buie, le case sembrano tutte uguali / ho girato e rigirato, inchiodami a un treno / cercando una traccia, cercando una via per uscire».
L’originalità dei Joy Division infatti, viene davvero alla luce quando rallentano il passo.
Ascolto Consigliato: New Dawn Fades
Archiviando il sound energico e iperdistorto del punk, la musica si fa austera e rarefatta. I testi di Curtis si fanno sempre più introspettivi, desolati e deprimenti. I suoi canti straziati vengono accompagnati dal martellare oscuro del basso di Hook, la chitarra di Sumner lascia vuoti più che riempire inutilmente le tracce di chiassosi riff, e la batteria di Morris sembra scandire il passo di una marcia funebre che circumnaviga l’orlo di un cratere. E Curtis canta da un luogo solitario al centro di quella distesa vuota. Tutto quello “spazio vuoto” fu notato dai critici: Curtis stesso aveva disseminato indizi, come il titolo Interzone (“Frammezzo”) o i riferimenti alla “terra di nessuno” nei testi.
Martin Hannett, produttore interno alla Factory, l’etichetta dei Joy Division, si dedicò a catturare l’inquietante spazialità del loro sound. Tony Wilson, della Factory, ricorre alla sinestesia per descrivere il suo genio: «Lui vedeva il suono, lo plasmava, lo ricostruiva… aveva quella sensibilità visiva che gran parte della gente non ha».
Hannett infatti adorava la psicogeografia dello spazio urbano. «I luoghi pubblici deserti, gli uffici vuoti nei palazzi… mi esaltano», diceva.
I dischi punk simulavano il sound angusto e aggressivo dei concerti nei piccoli locali. I tempi veloci e le chitarre caotiche erano adatti al formato metallico e bidimensionale del singolo a sette pollici. Musica per ragazzini con una radio o un mangiacassette economici: nel ‘79 veniva commercializzato in Giappone il primo Walkman. Insomma, non roba per adulti con uno stereo serio. Hannett invece voleva sfruttare la possibilità di creare spazio offerta da un moderno studio di registrazione.
Usava il suo giocattolo preferito, il delay digitale, per avvolgere una canzone, o un singolo strumento, in una particolare “aura” spaziale, come se il suono arrivasse da un’altra stanza o da una dimensione immaginaria. Ad esempio applicava un microsecondo di delay alla batteria, appena percettibile ma che creava un senso di chiuso; un suono ovattato, come se fosse registrato dentro un mausoleo. Intrecciò poi perle subliminali nei recessi del disco: microfonò lo sferragliare di un antico ascensore per Insight, inserì un rumore di vetro infranto in I Remember Nothing e fece registrare a Morris il disturbante e ossessivo “psst-psst” di uno spray per insetti in She’s Lost Control.
I gruppi punk spesso venivano registrati mentre suonavano insieme. Hannett invece richiese una totale e limpida separazione dei suoni, persino per ciascun elemento della batteria. «Mi faceva registrare un tamburo alla volta per evitare che il suono filtrasse» sospira Morris «prima la grancassa, poi il rullante, poi il charleston… il modo naturale è suonare la batteria tutta insieme». Il sistema era tedioso e interminabile. Il trattamento disumanizzante – Morris era trasformato in una batteria elettronica – era tipico dell’atteggiamento autoritario in studio di Hannett. Ma l’effetto meccanico della disarticolazione contribuì all’atmosfera alienata caratteristica di Unknown Pleasures. Sostenendo che facesse bene al tecnico, Hannett accendeva al massimo il condizionatore. «Rabbridivamo», ricorda Morris. Voleva dissuadere i musicisti dal trattenersi dopo aver inciso le proprie parti, per avere libertà d’azione sul materiale. Ma la temperatura artica dello studio sembra filtrata nella musica dei Joy Division: si ha l’impressione di vedere il fiato di Curtis che si condensa nell’aria. Alle loro orecchie, l’album sembrava prosciugato e smunto. Avrebbero preferito qualcosa di più vicino alla loro aggressività dal vivo. Le chitarre e gli altri strumenti erano soffocati. «Sembrava che i suoni fossero rimpiccioliti». Eppure, senza quella produzione spoglia, l’album non avrebbe avuto il suo suono gelido, che si infila fin sotto la pelle.
Ascolto consigliato: She’s Lost Control
Lo spazio dei Joy Division riesce ad essere aperto, eppure claustrofobico. Questa contrazione che non lascia via di scampo avviene grazie alle parole di Ian Curtis, che si insinuano come liquido velenoso nelle geometrie sonore perfette dell’album. Parole che dipingono una tragedia esistenziale, basta guardare alle espressioni ricorrenti nei testi: freddo, pressione, oscurità, crisi, fallimento, crollo, perdita del controllo. Scenari di sforzi vani, mentre il destino avverso incombe. Quanto rimane è abbandonarsi alla fine: gli “end” ed i “final” non si contano.
Deborah Curtis, moglie di Ian, osserva nella sua biografia (Così vicino, così lontano: la storia di Ian Curtis e dei Joy Division): «Mi colpiva il fatto che Ian passasse tutto il tempo libero a leggere e riflettere sulla sofferenza umana». Era interessato ai disturbi psichiatrici. Per un breve periodo aveva lavorato in un centro di riabilitazione per persone con handicap fisici e mentali. Lì fece amicizia con una ragazza epilettica. Fu lei a ispirare She’s Lost Control, che racconta il crescendo di terrore di un attacco, probabilmente quello in cui la ragazza perse la vita. Ma il canto di Ian non conosce il dramma né la tragedia. Le sue parole solitarie e annichilite dalla sfiducia non si piangono mai addosso. Ian accetta la sua sconfitta come qualcosa di logico, necessario e naturale, la sua voce non ha la furia della disperazione, ma la freddezza, la distanza dall’analisi clinica. Da questo scaturisce una forza interiore devastante, capace di abbattere ogni difesa emotiva di chi ascolta. Emozioni raggelate, quasi annullate, eppure sconvolgenti.
Curtis si fa profeta: il suo dolore personale funge da prisma attraverso cui passa quello universale, rifrangendo il malessere della Gran Bretagna al volgere del decennio.
Ma la sua vicenda personale era quanto mai concreta: un matrimonio in crisi, l’adulterio. Ian si staccò dalla moglie proprio quando stava nascendo il loro primo figlio. Poi la malattia. Curtis era epilettico, come la ragazza di She’s Lost Control, che quindi è anche un pezzo autobiografico. Da tempo sul palco Ian si lanciava in balli spasmodici e convulsi, a imitare un attacco epilettico, forse per esorcizzare quello che lui chiamava il suo «grande male». Quello vero, il primo, arrivò nel 1978. Tre concerti londinesi di fila sono troppi per le sue condizioni di salute: Ian cade a terra in preda alle convulsioni sul palco. Gli vennero prescritti pesanti sedativi. Da inglesi riservati, né Hannett né i compagni gli chiesero mai nulla. Ma mette i brividi come sembrano aver assorbito il suo male, ricreandolo nel suono. Dopo aver scritto tutto d’un fiato Closer, loro secondo ed ultimo album, Sumner racconta che Ian gli disse senza mezzi termini: «mi sento come se ci fosse un grosso vortice che mi risucchia e io non posso farci nulla». Gli psicofarmaci che Ian prendeva lo pietrificavano dall’interno, perdeva il senso della realtà, che si allontanava sempre di più. L’ultimo testo da lui terminato, In a Lonley Place, contiene un lugubre riferimento all’accarezzare marmo e pietra.
Il primo tour americano era alle porte. Il medico impose a Curtis di prendersi un periodo di riposo, ma di fronte ai compagni Ian si fingeva entusiasta per non deluderli.
Il punto di non ritorno fu il 18 maggio 1980. Fece visita alla moglie separata, pregandola invano di rinunciare al divorzio. Quella notte Ian rimase sveglio, e prima che spuntasse «that awful daylight» (“l’orribile luce del giorno” – In a Lonley Place), si impiccò. Aveva 23 anni. Quando fu rinvenuto il corpo, sul giradischi girava a vuoto The Idiot di Iggy Pop.
Quell’anno, due mesi prima, usciva l’ultimo singolo dei Joy Division, Love Will Tear Us Apart, “L’amore ci farà a pezzi”. Sarà questo l’epitaffio inciso sulla tomba di Ian Curtis.
Ascolto consigliato: Disorder
Siamo arrivati. La ragazza con la maglia dei Joy Division è ancora lì, che ride con le amiche. Io quasi mi scordo la fermata. E’ proprio quella normalità che è mancata a Ian Curtis. In Disorder, canta: «I’ve been waiting for a guide to come and take me by the hand / Could these sensations make me feel the pleasures of a normal man?» («Ho aspettato che arrivasse una guida e mi prendesse per mano / Forse queste sensazioni mi farebbero sentire i piaceri di una persona normale?»).
I “piaceri sconosciuti” a cui è intitolato l’album sono quelli che noi tutti diamo per scontati, rimasti invece preclusi a uno come Ian Curtis.
«People like you, find it easy», canta in Atmosphere: per il più della gente è facile tirare avanti, ed entrare nella testa di Ian è una sfida. Ma se anche solo facciamo capolino, attraverso la chiave che ci ha lasciato, ci si apre uno squarcio che fa male al cuore.
La musica dei Joy Division è musica malata, pericolosa, come forse solo certa musica rock riesce ad essere. Questo perché mette in scena in modo trasparente il nulla e la desolazione che rimane della vita, tolti quei piccoli e sconosciuti piaceri. O ripugna, provoca un conato, perché di quella roba non ne vogliamo sapere; oppure intrappola trascinando in un gorgo, e ci traghetta in un luogo che prevede un biglietto di solo andata. C’è un prima e un dopo i Joy Division nella vita di un ascoltatore. Non si torna indietro uguali a prima.
Salgo le scale della metro e sbuco nel parcheggio. Il cielo è nero, uniforme. Il ’79 fu anche l’anno in cui la sonda Voyager 1, prima esploratrice del sistema solare esterno, sorvolò e fotografò Giove. Mi torna in mente l’immagine sulla cover di Unknown Pleasures, ostentata fieramente dalla ragazza. Molti pensano si tratti della registrazione di un battito cardiaco, ma in realtà era un diagramma scovato da Sumner nella Cambridge Encyclopedia of Science. Si tratta dell’analisi di cento stimoli luminosi emessi dalla Pulsar CP 1919, ovvero una stella di neutroni, derivante dall’implosione di un enorme sole che ha esaurito il proprio combustibile. Forse è proprio così che Ian Curtis si sentiva, e come noi ce lo dobbiamo immaginare oggi: una stella magnetica sul punto di morire, nelle profondità più insondabili della galassia, che tuttavia ci lancia un segnale. Un faro nell’oscurità.
Articolo di Davide De Gennaro