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Ep.1
L'esodo
di Adriano Bordoni

A metà mattinata del 7 luglio, con l’afa che premeva violenta contro i vetri delle finestre, mio padre m'ha mandato un messaggio per dirmi di raggiungerlo a casa di suo fratello Bruno.
Nella stessa casa, vive la mia prozia. Un anno e qualche mese fa, un’arteria del cervello ha organizzato una sommossa contro di lei: vittoria netta. Da allora la vecchia è rimasta scolpita su un letto.
Ignara di essere ancora al mondo, il suo corpo sembra non averne risentito troppo. Anzi, continua a funzionare con ritmi ancora più sostenuti rispetto a prima: evacuazioni frequenti, cangianti e disgustose. Pannoloni come a piovere, cosa per cui i nipoti si sentono legittimati ad augurarle una morte rapida. Inizialmente domandavano per una risoluzione indolore, ma da qualche tempo si accontenterebbero di una cosa anche solo veloce.
Dato che la mia prozia ha abitato con Bruno per gli ultimi trent’anni, si è deciso di non operare cambiamenti radicali. Gestione etica e democratica del vivere comune, dopo tre mesi di discussione dei dettagli di quella lungodegenza domestica, i due hanno pattuito che l'amministrazione della vecchia sarebbe toccata a Bruno per la maggior parte dell’anno, e a mio padre dai primi giorni di luglio alla metà di agosto, più tutti i fine settimana in cui il fratello avesse voluto andarsene da qualche altra parte.
A Bruno, comunque, non va bene.
Prende la storia dell’ictus della zia come l'ultima di una lunga serie di inculate che hanno deciso di rifilargli. Ce l’ha un po’ con tutti, e con mio padre in maniera particolare. Ancora non è riuscito a metabolizzare il fatto che la zia abbia deciso di stramazzare a terra sul suo pavimento invece che sul nostro, come fossimo noi quelli a cui la vecchia per decenni ha fatto trovare la cena pronta ogni sera.
Mio padre derubrica gli atteggiamenti di Bruno ai capricci di un bambino. Se il fratello decide di fargli una colpa il fatto di aver deciso di trovarsi un'altra casa e di prodursi un figlio, sono cazzi suoi e basta. Dice così, ma alla fine si sente in colpa per averlo abbandonato a se stesso.
Il modo migliore in cui ha pensato di poter riequilibrare la cosa, dato l’orgoglio spropositato e una posizione conveniente a cui non vuole rinunciare, è stato il concepimento di un programma di redenzione scandito da prestazioni di utilità domestica. Guarnizioni da cambiare, tubi da sgorgare e mobili e utensili da riparare: un viaggio alla scoperta dei cattivi odori delle case degli altri.
Bruno non s'è mai accorto di nulla, o se lo ha fatto non s’è mai preoccupato di ringraziarlo.
Ciononostante, mio padre tira avanti nel suo cammino di illuminazione personale. Quando sono arrivato a casa di Bruno infatti l’ho trovato che aveva appena finito di cambiare la serpentina allo scaldabagno e stava spazzando via il calcare precipitato sul pavimento.
«Non hai idea della roba che ho dovuto tirar fuori, grazie al cazzo che l’acqua non si scaldava,» mi ha detto con tutta la naturalezza del mondo.
M'ha infilato nel microonde una tazzina di caffè e m'ha spiegato che a mezzogiorno e mezza aveva la visita dal cardiologo. Questo lo ha detto perfino con ovvietà, come se fosse noto a tutti che il binomio perfetto per un cardiopatico fosse fatto di asfalto squagliato e sole allo zenit.
Comunque, sarebbe tornato nel primo pomeriggio e lo dovevo sostituire nel badare alla vecchia, dato che Bruno stava via fino al 10. Quella dormiva, e a pulirle il culo e cambiarle flebo ci aveva già pensato lui poco prima. Sarebbe bastato che facessi caso che continuasse ad arredare la stanza in posizioni compatibili con la vita e senza sudare troppo.
Come si potesse sudare, con il condizionatore programmato per accendersi sopra i ventitré gradi e le finestre aperte solo a tarda sera, era una cosa ancora da capirsi.
Mio padre m'ha salutato dicendomi che in frigo ci stavano due cotolette ed un po’ di cicoria da ripassare in padella.
«Mentre sto via ti puoi mettere a studiare».
Grazie al cazzo, dato che dovevo rimanere là delle ore. Se solo avesse pensato di anticiparmelo mi sarei portato pure qualcosa per farlo in comodità.

Ho riesumato dal telefono le dispense di filologia romanza e un po’ di fogli stropicciati dal mobile in corridoio. Penne ne ho trovate solo rosse e verde scuro vicino al telefono di casa.
Non sono riuscito a finire le prime cinque pagine che la vecchia ha deciso di cominciare a farmi compagnia sciorinando un rosario di rantoli dalla stanza accanto.
La prima volta sono andato a controllare. Si capiva che era viva solo perchè il petto oscillava su e giù con ritmo vivace ed ogni tanto ne veniva fuori un sospiro. A parte questo, non era cambiato nulla dall’ultima volta che l’avevo vista. Di mezzo erano passati cinque mesi: comunque un miglioramento.
Non sono rimasto molto. L’odore zuccherino di piscio e decomposizione mi è bastato per convincermi che non stesse accadendo nulla di significativo pure nelle repliche successive dei suoi versi.
L'ho lasciata perdere e più tardi ho mangiato guardando una puntata dei Griffin.
Durante la pubblicità, una chiave ha girato nella toppa della porta. Bruno si è presentato sull'uscio, m’ha sorriso con tutti i denti e le otturazioni che era capace di tirar fuori in un solo sorriso ed è venuto ad abbracciarmi. Era più grasso e umido del solito.
Al mento gli era rimasta aggrappata una goccia di sudore; con ogni suo movimento pingue quella oscillava sempre di più, ma non accennava a cadere.
Ha resistito fino alla fine, quando Bruno s’è buttato sulla sedia davanti alla mia e l’ha spazzata via passandosi sulla faccia il lembo della tovaglia, noncurante della battaglia.
Vedendo come lo guardavo si è messo a ridere. Mi ha detto che tanto toccava a mio padre lavare tutto e ha replicato il gesto, asciugandosi pure le labbra.
«A proposito di tuo padre, che cazzo ci fai qua tu? Dovrebbe starci lui».
«Babbo è dovuto andare via e ha lasciato me a fare la guardia. M’ha detto che tornavi tra tre giorni...»
«Il tuo babbino è una merda, Andrè, non te fa incastra’ in 'sta storia che poi ci piglia gusto pure co' te ad accollatte i cazzi suoi. Che poi chi gliel’ha detto che tornavo tra tre giorni me lo deve spiegare. Senti… La mummia ancora campa?»
«Pare sveglia. Ogni tanto emette dei suoni, ma sembra stia bene».
«È quello il problema amore bello, che questa sta pure troppo bene, grugnisce e caga e piscia che è un piacere. Crepa tra dieci anni, ‘sta stronza… Che poi mi dispiace, eh, però così che campa a fare, per rompere i coglioni a me?»
Gli ho versato un po’ d’acqua nel bicchiere per fermare lo sproloquio sul nascere. Lui ha mandato giù con gusto e ha indicato i fogli.
Ho annuito, poteva prenderli. Se li è rigirati in mano per un po' con una faccia accigliata.
«André, ma fammi capì una cosa: ci sta gente che ti pagherebbe per sentirti parlare di ‘sta roba? Che sennò bello de zio so’ cazzi, come campi?»
«Grazie ad una cospicua eredità».
Bruno si è messo a ridere.
Abbiamo parlato un po' della bontà del mio percorso di studi, poi mi ha detto che tutta quella cultura gli aveva messo fame, e si è alzato per controllare il frigo.
«Ah, lo vedi che però la merda si è pure degnato di comprare qualcosa, mica ha solo consumato… Guarda come si tratta bene lo stronzo.»
Ha scartato un trancio di salmone e lo ha buttato su una padella. Lo sapeva benissimo che quel salmone era di mio padre, e pure che era uno dei suoi cibi preferiti.
Probabile che manco gli andasse dato che me ne ha offerto metà mentre mangiava, e che l'altra l'ha mandata giù con lentezza, spingendola a fondo con un litro di aranciata e ruttando in libertà.
Mi ha chiesto di tutti i parenti del ramo materno, dell'università, delle vacanze e di come stesse Ugo.
Ugo per lui sarebbe il mio ragazzo, da quando ha deciso che sono omosessuale. È successo il giorno del mio tredicesimo compleanno, quando mi ha portato a mangiare da Sonia e non è rimasto soddisfatto di come gli avessi risposto quando mi ha chiesto se mi piacesse guardare il culo alle ragazze.
Gli è parso normale pensare che non mi piacessero nemmeno loro, e s'è costruito l'immagine di Ugo, amante focoso e dal petto villoso, ansioso di arrampicarmisi addosso per farmi suo.
Sono passati dieci anni e ancora non parla che di lui.
Se dopo questo tempo mi fa ancora ridere, è per la varietà sconfinata e poetica delle metafore che usa per descrivere le modalità in cui secondo lui ci incaprettiamo.
Il lemma allude a una tortura per strangolamento, ma Bruno l’ha strappato all'abecedario delle sevizie mafiose per regalarlo alla nostra storia d’amore. L’affetto è fatto di piccoli gesti.
Abbiamo tirato avanti così fino alle quattro, in sottofondo un film d'azione su Italia1.
Quando gli ho detto che con Ugo le cose erano un po' tese, Bruno ci ha tenuto a farmi sapere che pure a lui non andava bene, che erano otto mesi che non scopava e che stava eccitato come un riccio.
Me lo ha detto come se la cosa avesse dovuto sorprendermi, pure se la sua circonferenza addominale è in crescita costante da quindici anni a questa parte, e pure se in quel momento concentrava tutte le sue forze a spulciarsi l'ombelico da un’infinita sequela di pelucchi.
Per lui l'adipe non c'entrava, mi ha detto sghignazzando. È che non prova più il brivido della conquista.
Al di fuori di qualche bestemmia e qualche eruzione verbale, si è tenuto lontano dal parlare seriamente di mio padre e di tutta la situazione in cui è rimasto incastrato.
Prima di cacciarmi mi ha offerto una Moretti ai fiori di Sicilia trovata in frigo. Anche questa non era sua, dato che beve solo IPA.
«Vai a finire de studia', che per oggi t'hanno già stracciato i coglioni abbastanza. Con la mummia rimango io fino a dopodomani. Dopodomani, Andrè. Poi voglio rivedere quella faccia di merda di babbino, non facesse scherzi. Mo lo chiamo, anzi, così non si fa più veni’ ‘ste idee...»

Quattro giorni più tardi mio padre non aveva ancora avuto sue notizie. In compenso Bruno aveva scritto a me.
Mi chiedeva di accompagnarlo a Berlino per una settimana.

Vedendo il messaggio, m'è venuta in mente la serata della finale dei mondiali del 2014, passata con Bruno in un ristorante di Praga. Una taglia XL della maglia di di Maria sulle spalle fresca d'acquisto e più alcol che globuli rossi nelle vene, sembrava essersi dato appuntamento per l'occasione con un tedeschino ad un tavolo con la ragazza un paio di metri in là da noi. Concezione di uno sperma non troppo convinto, quello non superava il metro e sessanta e la metà del peso di Bruno, ma al gol della Götze aveva ugualmente pensato convenisse girarsi per mandarlo a fanculo.
Bruno era sprofondato nella sedia e non aveva mosso un muscolo. Gli aveva solo detto «dopo», in tedesco, sorridendo.
Non era nemmeno finita la partita, che il tedeschino si era alzato da solo, avevo pensato per andare in bagno. Cinque minuti più tardi non era ancora tornato, e pure la ragazza si era alzata per sparire da qualche parte.
Bruno mi aveva mandato a controllare se in bagno riuscivo a trovare qualcuno.
Sono sicuro che abbia deciso di fare di me il suo compagno di viaggio quella sera, quando tornando dai gabinetti vuoti avevo capito che il tedeschino e la consorte erano scappati. Ridevo come un coglione.

Il nostro idillio era durato due estati, morendo nell'estremo nord dell'isola di Karpatos.
Marciavamo da un tempo infinito alla volta di una spiaggia sperduta, e a metà strada avevo lasciato indietro Bruno per accelerare da solo verso il mare.
Un’ora più tardi ero sulla battigia e lo guardavo arrivare: una macchia più scura che si trascinava su una collina divorata dalla luce.
Mi aveva raggiunto con calma. Un ceffone sulla faccia e la garanzia che non avremmo mai più preso nemmeno un autobus insieme, che su quell’isola di merda c’era venuto solo perché volevo io, ed io mi ero pure fatto venire in mente di abbandonarlo da solo in mezzo al nulla.
Quello era stato il nostro ultimo viaggio insieme, il che non mi stupiva più di tanto.
Adesso cercavo delle motivazioni sensate al perché dell'invito di Bruno a Berlino. Non ne ho trovata nessuna, se non che la nostalgia lo aveva completamente rincoglionito.
La cosa non mi avrebbe sorpreso più di tanto, comunque.
Teoria: l'acutezza non è la cifra stilistica del ramo paterno del mio albero genealogico.
Casi studio: mio nonno, e soprattutto mio padre.
S'è tanto avvelenato il fegato per la noia di essere nato in un paese del basso Lazio e per il grigiore borghese di quel padre tutto assieme massone, perito agrario del Marchese e segretario della DC locale, che alla fine è diventato un impiegato.
Però buddhista.
Con un briciolo di estro ed un bagaglio di partenza del genere poteva conquistare con disinvoltura un ruolo di marcia nelle BR, ed invece è finito a tappezzare le pareti di casa di aforismi manoscritti che nemmeno i biscotti cinesi.
Procedere per tentativi ed errori, pennarello uniposca viola su un cartoncino cinquanta per centoventi.
Ha scoperto il metodo scientifico in ritardo di sei secoli.
Dieci anni, e magari pure Bruno si sarebbe rifugiato negli Hare Hare a mille lire.
Forse c'era una tara genetica nel nostro sangue: avrei dovuto fare attenzione nel futuro. E passare del tempo con Bruno fino a quando era possibile, prima che si riducesse a collezionare aforismi anche lui.

La mia sessione d'esami finiva il 17 luglio. Se fosse partito più tardi avrebbe potuto considerarmi dei suoi.