L’esodo – Ep.2

Bruno s’è presentato sotto casa mia la mattina del 20 luglio. Erano le quattro e quaranta, in strada solo la sua Scénic blu elettrico ed una ragazza col cane.

Ho salutato mio padre in corridoio, davanti alla stampa di un uomo a cavallo di un elefante. A corredo, I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli, stampato in Comic Sans. Che poi sarebbe una frase di Maradona, non del Dalai Lama, ma tanto alla fine l’importante è sentirsi motivati.

Un commiato di poche parole, una pacca sulla spalla e via, giù per le scale.

Bruno m’ha aperto la portiera dall’interno della macchina, dato che la maniglia esterna serve solo d’arredamento, almeno da quando ne ho memoria. Prima di farmi sedere ha battuto con la mano il sedile per tirar via delle briciole. Gesto memorabile, quelle quasi non si sono mosse, e in compenso la polvere ha conquistato ogni angolo della vettura.

La cosa lo ha fatto ridere. Ha sventolato l’aria con una cartellina verde e m’ha stretto una mano sulla spalla.

«Stai carico? Guarda che faccia che c’hai… Babbino dorme o non gliene frega un cazzo de salutatte?»

Gli ho indicato con il dito la finestra della cucina e mio padre che ci fissava oltre il vetro.

«Sta a fa’ il saluto al sole il coglione… Mo’ si ficca pure la testa nel culo, così c’ha il karma bello elasticizzato per affrontare ‘sta giornata co’ la vecchia e le sue cagate».

Mentre partiva ha abbassato il finestrino e ha preso a suonare il clacson, continuando fino all’incrocio in fondo alla via, urlando a mio padre di divertirsi. Il poverino l’ho immaginato che si accucciava di botto sotto il davanzale e che batteva in ritirata gattonando verso camera sua, col timore che qualcuno lo potesse collegare a quel bordello.

Ho stirato un sorriso, e Bruno m’ha lanciato la cartellina di prima.

«Dentro ci stanno i biglietti e le prenotazioni. Ho preso due camere separate, che non so te che alla fine qua c’hai Ugo che t’aspetta, ma io c’ho ‘na certa voglia de svuotamme le palle, bello de zio».

«Grazie davvero, apprezzo il pensiero».

Alle nove e mezza eravamo in hotel.

 

L’hotel era dalle parti di Alexanderplatz, le chiavi tessere magnetiche. Due: Bruno aveva davvero preso due stanze separate. Inizio incoraggiante.

Prima della partenza avevo pensato un po’ a che tipo di settimana sarebbe stata.

Dopo aver abbandonato Bruno sotto il sole di Karpatos, avevo accettato la sua decisione di andarsene in giro per conto suo. Ci piacevano cose diverse, e rispetto a Praga eravamo diventati abbastanza grandi per concederci per questo una mutua insofferenza.

Bruno voleva una vacanza che fosse un culto baccanale, ed io coltivavo fascinazioni da intellettualino del liceo. Agenda semplice: quiete-musei-lettura-cultura-avanti-fino-alla-nausea. Scienza con pazienza: il supplizio è certo.

Quando Bruno m’aveva detto che di tutto questo s’era trucidato i coglioni, mi ero sentito sollevato. Voleva dire che potevamo ancora provare ad inventarci un surrogato di rapporto padre-figlio, ma che non c’era bisogno di farlo a quattromila chilometri da casa, costringendoci ad una serie di compromessi che sapevano di risentimento.

Due stanze: pure se Bruno s’era rincoglionito per la nostalgia e radicalizzato nel suo credo fatto di sesso e violenza, non aveva scordato le lezioni del passato.

Non lo avessi capito da solo, ci ha tenuto pure lui a metterlo in chiaro.

«Io vado a farmi una doccia, per le dieci e mezza scendo di nuovo giù. Oggi mi faccio un giro co’ te, che babbino t’ha sicuramente comprato la guida della città e tu hai già tracciato l’itinerario con la matitina. Domani si vede, e sappi che mi devi convincere, che a venitte dietro non ci casco più. Sicuro non mi porti per musei a guarda’ il culo alle statue».

Accordo onesto e coscienzioso.

La guida l’avevo davvero, una Lonely Planet da 384 pagine, sovradimensionata. L’itinerario l’ho tracciato nella mezz’ora successiva, me lo sono segnato sul cellulare e la guida l’ho lasciata in camera, ci mancava solo che Bruno scoprisse di aver ragione.

La mezz’ora successiva l’ho passata a cercare modalità di trasporto soddisfacenti. Per Bruno valeva a dirsi mezzi veloci, poco stancanti e con tempi di attesa contenuti.

Mi sono regolato sulle biciclette, bastava che una fosse elettrica, così lui poteva evitare di sudare.

Ha avallato il sovrapprezzo solo dopo averla provata, anche se non è stato un processo semplice. Il primo sellino era troppo piccolo, e a vederlo cercare di salirci sopra sembrava che da un momento all’altro gli dovesse scivolare su per il culo.

Cambiatolo, s’è fatto convincere facilmente. Due pedalate e la bicicletta cominciava a lavorare per lui. Ha cominciato a sorridere come un ebete. Dagli torto, quando mai s’era sognato di raggiungere i trenta all’ora in bicicletta.

 

Sembrava gli avessero comprato un gioco nuovo: andare al Reichstag gli andava bene, ma solo se lo facevamo con una gara, e chi perdeva pagava la cena.

M’ha offerto un minuto di vantaggio, dato che il suo bolide era impareggiabile. Mi sono accontentato di trenta secondi, e in metà avevo già girato l’angolo, lasciandolo dietro.

Ho proseguito lo zig-zag tra i palazzi per un po’, quanto bastava perché lui non riuscisse a ritrovarmi una volta partito, e poi ho preso a correre verso il Reichstag col navigatore in mano.

Il coglione aveva accettato una gara verso una destinazione a cui non sapeva arrivare.

Il Reichstag comunque non era vicino, ed ho vinto con un margine nemmeno tanto netto, anche se per Bruno ho addirittura barato, dato che l’avevo lasciato a trovarsi la strada da solo.

Poteva pure essere vero, ma nessuno gli aveva mai detto che l’avrei dovuto guidare io fino alla meta. S’è rassegnato a pagare la scommessa: avrebbe offerto la cena, ma nulla più di un kebab, dato che nessuno aveva mai specificato altro nemmeno rispetto a questo.

Due grandi acrobati del non detto.

 

Un blocco di vetro scintillante, era scontato che il Reichstag lasciasse Bruno soddisfatto. Alla fine l’ho buttato in mezzo quasi solo per farlo felice. Non so precisamente per quale motivo Bruno rimanga ogni volta così eccitato dall’architettura moderna e i suoi derivati, come fosse un bambino ad uno spettacolo di magia. Quando a Londra mi aveva trascinato al settantaduesimo piano del The Shard, avevo pensato potesse essere per la vista che solo 300 metri di travi d’acciaio impilate in verticale potevano garantire. A Barcellona avevo cambiato idea, quando era rimasto commosso dal mercato dell’Encants e da quei suoi 25 metri d’altezza messi assieme a fatica.

Ultima ipotesi in ordine temporale: a sorprenderlo non sono né l’altezza né la vista, ma la costruzione in quanto tale. Nel suo centellinato rifiuto di ogni eredità che odori di classicismo, blocco unico fatto di statue, libri e architettura, Bruno si sorprende che qualcuno possa essere capace d’immaginarsi strutture del genere, figuriamoci di metterle in piedi.

Immagino che guardando quegli intrecci avveniristici di cavi e stati tensionali, si chieda per quale motivo a scuola lo abbiano costretto su dei libri che raccontavano di Veneri solutreane e tombe etrusche. Qualsiasi cosa fosse inclusa tre decadi fa nei programmi di storia dell’arte nei primi anni del liceo non valeva un minuto del suo tempo, se in quel momento, chissà dove, c’era qualche acrobata che cominciava a pensare ad architetture di quel tipo.

 

Abbiamo mangiato su un prato lì vicino, assolato e perso nel Tiergarten. Bruno è sparito per un po’, tornando più tardi con delle patate fritte e tre panini che strabordavano di salsa. Acqua niente. Costava troppo, specie rispetto alle birre. Di quelle ne ha prese tre.

Bruno s’è tenuto per sé i due terzi del tutto, e l’ha passati dal cartoccio allo stomaco in questione di attimi.

«Che c’hai da guarda’ poi me lo spieghi, che ti dovevo paga’ solo la cena e invece vedi come t’ho viziato. Vuoi anda’ a prende’ due gelati?»

«Due perché la bicicletta elettrica t’ha sfiancato, no? Fai bene a recuperare le energie…»

«Allora fai una cosa, va’, prendi un gelato per me ed un bel vaffanculo per te, che ne dici?»

«Calippo gusto coca, no?»

S’è messo a ridere.

«Ti manca Ugo, vedo… Ve le siete mandate due fotine col cazzo in mano?»

 

Quando sono tornato, il pranzo aveva già cominciato la sua metamorfosi nello stomaco di Bruno. In un bagno di succhi gastrici, il gas ha cominciato a premere sulle pareti dell’esofago, primo atto d’un gran concerto di rutti di mezzo al prato, manco fosse diventato una rana gravida.

Bruno s’è spremuto il gelato in gola, e poi ci siamo addormentati là in mezzo all’erba: mezz’ora io, un tempo infinito lui. Alle quattro e venti non dava ancora segni di vita, ed allora ho cominciato a mettere a posto i residui del pranzo nel modo più rumoroso possibile. Mentre accartocciavo la seconda lattina di birra, Bruno s’è risvegliato. Con la faccia tumefatta dal prato, ha trovato la forza per chiedermi che stesse succedendo.

«Vado a rinchiudermi in un museo, tante volte ne avessi voglia pure tu…»

Ho pensato mi dicesse di no senza troppi patemi, interprete entusiasta di quella relazione aperta che avevamo inaugurato la mattina stessa.

«Ok, dammi dieci minuti, però…»

 

Devo dargli atto di averci provato. Ha resistito per un’ora e mezza tra le sale del Neues Museum, e poi m’ha detto che era stato troppo e troppo assieme.

Andava in un pub, il posto che gli competeva, o una cosa del genere. Una volta finito l’avrei dovuto chiamare per capire dove andare a mangiare quel kebab che mi doveva.

M’ha stampato un bacio sulla guancia ed è ciondolato verso e scale, il suo modo di dirmi che dopo questa volta non ci sarebbe davvero più cascato. L’ho apprezzato.

 

Alle sette e mezza mi sono liberato, ho recuperato la bicicletta e ho chiamato Bruno. Nella confusione di una somma di voci, m’ha detto che m’inviava la posizione, e che avrei dovuto arrivarci carico.

Carico, per cosa poi era da capirsi.

Era quasi ora di cena, e non vedevo perché stare carico per quella, dato che avevamo parlato di un kebab. Evidentemente si trattava d’altro, vai a capire che. Intanto quella frase puzzava di fregatura comunque la volessi girare.

In dieci minuti ero arrivato, carico per una fregatura formato famiglia, subito pronta all’uso: Bruno al tavolo con due donne dell’est, trentina inoltrata, segnate dalle stigmate di un presente ipercalorico.

Il simile chiama il simile.

Bruno ha fatto le presentazioni: si chiamavano Ljudmila e Maria, estoni ma vivevano a Berlino da una decina d’anni. Poi m’ha accompagnato dentro a ordinare da bere.

Ci ha tenuto a evidenziare l’ovvio col più grande esempio di poesia civile dal dopoguerra ad oggi.

«Queste co’ la sborra ce fanno pure la scarpetta, vedi de damme una mano che qua ce vole poco».

Inqualificabile. Pure per lui, pure se ubriaco. Gli ho chiesto cosa voleva che facessi, dato che aveva avuto tutte queste buone impressioni e sembrava se la stesse cavando così bene.

«Basta che t’accolli Maria».

«Quale sarebbe?»

«Quella a sinistra».

«E che vuol dire che me l’accollo?»

«Eccheccazzo ne so. Parlaci, dille cose, falla ride… Magari finisce pure che ci fai qualcosa. L’importante è che non caga il cazzo a me e Ljudmila».

«Ma chi ci vuole fare niente… E comunque secondo me non funziona ‘sta cosa: io quella povera stronza non la porto in giro per tutta Berlino per farti scopare».

«Ma che cazzo, su…»

«Guarda, sto qua a parlarci finché non finisce la cena. Poi ce ne andiamo, come va va, ok?»

M’ha schiacciato le costole con un abbraccio.

 

Bruno non ha nemmeno cercato un aggancio per buttarmi di mezzo alla discussione, m’ha solo detto che aveva parlato di me a Maria, ha sorriso a lei e poi s’è seduto davanti alle tette enormi di Ljudmila, riprendendo chissà quale discorso in tedesco. Fuori del seno, quella donna era davvero brutta. Maria era un po’ più carina. Aveva gli occhi verdi, una faccia simmetrica e un po’ grassoccia, rovinata agli angoli dal doppio mento e dai capelli unti. Quando sorrideva, dalla bocca venivano fuori due denti ricostruiti con la resina, una spezzata bianca su uno sfondo più giallo.

Non parlava inglese, ed io non conoscevo una parola nè d’estone nè di tedesco, così ci siamo regolati con una conversazione su google traduttore.

Malgrado il filtro, è riuscita a starmi simpatica, e ho cominciato a pensare che quel pomeriggio non fosse poi così male. Dopo un po’ che parlavamo, Maria m’ha detto che trovava divertente il modo in cui Bruno tentava di portarsi a letto Ljudmila. Portarsi a letto Ljudmila, non provarci con Ljudmila o simili. Scelta lessicale precisa, Maria ha pensato necessario darmi delle spiegazioni, e m’ha detto che Bruno aveva cominciato a parlare a Ljudmila delle specialità italiane, il cibo e il sesso.

Le ho chiesto come pensava sarebbe finita. Ci ha pensato un po’, e poi m’ha risposto che alla fine Bruno qualche possibilità ce l’aveva. M’ha visto incredulo, e s’è messa a scrivere al cellulare per qualcosa come cinque minuti. Me l’ha restituito con un testo abbondante, qui e lì tradotto male. Sequela di banalità col tono della rivelazione, ci ha tenuto a spiegarmi approfonditamente che sostanzialmente l’età alla fine non contava e bastava divertirsi.

Divertimento: un uomo di cento chili che gocciola sudore mentre si dimena sopra di te cercando di controllare gli impulsi che gli vengono dettati da una prostata sulla via del disfacimento, paradigma autentico del soddisfacimento sessuale. Maria era in vena di prendermi per il culo.

Oppure non stava parlando di Bruno.

L’ho risolta dicendole che poteva essere, e ho cercato altri argomenti di discussione. Ho guadagnato dieci minuti, poi Maria ha deciso di muoversi: m’ha cominciato a sfiorare la mano con due dita dalle unghie laccate in rosa e a sorridermi.

Ho levato la mano, ed in un attimo era tutto finito. Maria s’è girata verso Ljudmila e le ha detto qualcosa. Quella l’ha guardata male, e hanno preso a discutere per un po’, prima piano, e poi a voce sempre più alta. Ljudmila ha tirato via la borsa dal pavimento ed il portafogli dalla borsa, tutto senza mai smettere di parlare con Maria, che intanto s’era allontanata dal tavolo. Ha detto qualcosa di veloce a Bruno lasciando una trentina d’euro sul tavolo, poi ha raggiunto l’amica.

Hanno continuato a discutere pure mentre andavano via.

Bruno non ha voluto aspettare nemmeno che mi girassi verso di lui.

«Che cazzo hai combinato?»

«Eh?»

«Eh il cazzo, Andrè, t’ho chiesto che cazzo le hai fatto. Ljudmila m’ha detto che Maria s’è ricordata che c’aveva un impegno, e a me me pare una cazzata bella e buona. Mi dici che cosa hai fatto sì o no?»

«Sei serio?»

«Ao, e che cazzo! Mi dici che è successo o no?»

«Ma che cosa vuoi? Quella ha preso a toccarmi la mano e io l’ho levata, se si deve fa rode il culo per ‘sta storia sono cazzi suoi, e tu non farmi questi pezzi per una cosa del genere, che sono stato mezz’ora a parlare con quella mica perché non c’avevo un cazzo da fare…»

Bruno ha bestemmiato e s’è passato una mano sulla fronte.

«Cristo! Ma che ti costava darle corda?»

«Bru’, ma di che cazzo stiamo parlando, me lo spieghi?»

«Che sei frocio pe’ davvero, ecco de che stiamo a parla’, Andrè».

Mi sono alzato e gli ho lanciato pure io i soldi che gli dovevo per la birra. Non avrebbe avuto problemi a mangiarsi il panino che avevo ordinato per me.

L’ho lasciato lì seduto da solo e senza manco la soddisfazione di prendersi il cazzotto in faccia che si meritava.

Ora dovevo cercarmi un posto per finire di mangiare.

Di certo non un kebab.

 

Articolo di Adriano Bordoni