La corsa all’oro della ricerca

Il valore politico dell'isolamento del COVID-19

 

Fino a qualche giorno fa, il mondo intero concorreva in una sorta di moderna corsa all’oro per ottenere il primo posto sul podio della ricerca medica. Il virus, emergenza sanitaria a livello globale, è stato in qualche modo riletto in chiave d’utilità: combatterlo non è più soltanto una sfida medica, ma una vera e propria competizione fra nazioni, funzionale a dimostrare chi è il più capace ed efficiente. Il due febbraio l’Istituto Spallanzani si è aggiudicato la vittoria, dandoci la possibilità di sperare nel primato. La scoperta è stata trasmessa come un successo tutto al femminile. Un grande passo che fa tristemente ancora scalpore, come fosse un valore aggiunto l’essere stata un’équipe di tre donne ad avere la meglio. 

La realtà è stata però, come spesso accade, lievemente enfatizzata. Il risultato è stato indubbiamente di squadra: 30 professionisti, hanno lavorato coordinandosi con l’Istituto Superiore di Sanità. Il ministro della salute dell’attuale governo, Roberto Speranza, ha però specificatamente parlato di tre donne in particolare: Maria Rosaria Capobianchi, direttore del Laboratorio di Virologia; Francesca Colavita, la più giovane ricercatrice del gruppo, e Concetta Castilletti, responsabile della Unità dei virus emergenti. Interessante è come l’opinione pubblica abbia usato questa vittoria come arma funzionale alla difesa di un amor di patria scontato e dozzinale: l’Italia, la “grande proletaria”, finalmente si riscatta facendo mangiare la propria polvere al resto dell’Europa e del Mondo. Ma è davvero così? A smontare l’entusiasmo patriottico interviene l’informazione già pubblicamente divulgata ma quasi totalmente ignorata relativa ai precedenti progressi conseguiti fuori dai confini del Bel Paese: la Cina aveva prontamente isolato il virus a Gennaio, condividendo con l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) le informazioni sulla sequenza del genoma rilevata. Nell’articolo del 31 gennaio, “Nature” ricorda come «un team dell’Istituto di virologia di Wuhan guidato dal virologo Zheng-Li Shi ha isolato il virus da una donna di 49 anni, che ha sviluppato i sintomi il 23 dicembre 2019 prima di ammalarsi gravemente». Contrariamente a ciò che molti titoli strillavano, nemmeno in Europa risultiamo imbattuti: l’ipotetico primato è stato immediatamente smentito dal direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità Giovanni Rezza e dalla direttrice del Laboratorio di Virologia dell’INMI (Istituto Nazionale Malattie Infettive) di Roma Maria Rosaria Capobianchi. Due giorni prima dell’annuncio dello Spallanzani infatti, l’Istituto Pasteur di Parigi era già riuscito, partendo dai casi di contagio interni al paese (cosa in cui il Paese si trovava ad essere sfortunatamente “in vantaggio” rispetto all’Italia) ad isolare il virus dopo essere riusciti a sequenziarne il genoma, aggiudicandosi per questo il vero primato sull’Unione Europea. Se fossimo davvero arrivati per primi forse avremmo potuto risollevare il nome della ricerca Italiana, o quanto meno ci saremmo potuti beare del momentaneo ed illusorio prestigio che ne sarebbe potuto eventualmente derivare. Il punto infatti, è proprio questo: puntare sul successo del particolare per tentare di porre in secondo piano il degrado dilagante generale che, dall’interno, corrode da sempre l’ambiente della ricerca medico sanitaria italiana. Gli scarsi e sporadici finanziamenti non bastano. È inutile girarci intorno. L’investimento pubblico in ricerca e sviluppo (R&S) si aggirava intorno ai 10 miliardi di euro nel 2008 per poi scendere a 8,7 miliardi nel 2016. Nel 2017 l’Italia ha investito circa l’1,3% del PIL nella ricerca: notevole, ma neanche lontanamente sufficiente, dal momento che la media europea ammontava intorno al 2%. Le punte di diamante sono la Germania con il 3% e la Francia con il 2,2%. Si arriva comunque ad una situazione paradossale: negli ultimi decenni, stiamo assistendo all’effetto di una serie di cambiamenti strutturali, che hanno infuso nuova vita alla ricerca, ma che non comportano un miglioramento rilevante delle prestazioni sanitarie italiane, che anzi continuano a risentire di alcune carenze strutturali e sistematiche. Alison Abbott, anima di “Nature”, spiega dal suo punto di vista, esterno, quali siano i principali fattori che ledono la ricerca in Italia. Sono la mancanza di stabilità nelle istituzioni, che si ritrovano prive di programmazioni a lungo termine ed il basso numero di scienziati, cosa che certamente deriva dagli stentati finanziamenti e la scarsa trasparenza nel metodo di ricerca e di approccio alle nuove materie di studio in campo scientifico. Il tutto, culmina e si concretizza  nella figura di Francesca Colavita, la più giovane del gruppo di ricercatori che si è occupato dello studio del Coronavirus in Italia. Molisana di trent’anni, ha lavorato finora allo Spallanzani con un contratto a tempo determinato che la ha resa per anni l’ennesima ricercatrice italiana a riempire le fila dei “precari”. Millecinquecento euro al mese, nonostante la professionalità e la dimestichezza con l’ambiente, dimostrate tra l’altro anche nel suo ultimo studio, relativo al trattamento del virus Ebola, che passa improvvisamente in secondo piano su qualsiasi giornale o notiziario se paragonato alla condizione lavorativa della Colavita stessa. Nel giro di poche ore infatti, vi è stata una overdose mediatica su un fatto di per sé gravissimo, ma che ha subito una mera speculazione soltanto in quanto argomento di interesse da parte della coscienza pubblica. Argomento che, secondo il miglior uso italiano, è rimasto sterile, se non per quanto riguarda “il contentino”: un posto a tempo indeterminato alla Colavita ma che non cambia la condizione delle altre migliaia di ricercatori che, nonostante il successo appena conseguito, vivono con stipendi che riflettono l’inadempienza del nostro sistema retributivo, soprattutto nel settore pubblico.

«Guadagno sui 20 mila euro all’anno». La sentenza dichiarata dalla giovane stessa, è ben poco incoraggiante per chiunque voglia gettarsi nel campo della ricerca medica in Italia. Il traguardo appena raggiunto ha purtuttavia prodotto un qualche effetto sulla coscienza comune, e l’assessore alla Sanità del Lazio Alessio DʼAmato, ha assicurato una prossima stabilità per la giovane ricercatrice. 

Con quest’ultima conquista, non sconvolgente ma certamente degna di nota, il quadro che rappresenta la ricerca medica italiana presenta una quantità di sfaccettature più chiare e definite: l’Italia sa muoversi in condizioni di emergenza. È in grado di coordinare gli sforzi per conseguire un obbiettivo, se esso viene imposto come un traguardo il cui raggiungimento, nel minor tempo possibile, è imperativo. Tuttavia dovrebbe essere in grado di mantenere tale livello di efficienza e prontezza di riflessi anche quando non ci si trova davanti ad un’emergenza pandemica internazionale. 

Ennesimo esempio della disorganizzazione del nostro sistema, lo troviamo proprio nella figura della Colavita: trent’anni, competente e, nonostante tutto, precaria.

Articolo di Ilaria Michela Coizet