La pace tradita dell’Etiopia

Voci e analisi di un equilibrio che si sta sgretolando nel sangue, nonostante un premio Nobel.

Lo schiocco di un dito

Agli inizi di novembre, mentre l’attenzione del mondo era rivolta alle elezioni degli Stati Uniti, il presidente etiope Abiy Ahmed – Premio Nobel per la Pace nel 2019 – iniziava una campagna militare contro la regione del Tigray, al confine con l’Eritrea. L’operazione è stata inizialmente giustificata come una risposta all’attacco delle truppe del Tigray People’s Liberation Front (TPLF), ossia il partito più influente nella regione, ai danni di una base militare della Ethiopian National Defence Force (ENDF). Già il 28 novembre, attraverso un comunicato diffuso anche sul suo profilo Twitter, Abiy Ahmed ha dichiarato che l’operazione militare si era conclusa con successo, con le truppe del governo federale che avevano preso il controllo del capoluogo regionale, Mekelle. In questo comunicato egli ha anche elogiato il comportamento della popolazione del Tigray, che si è dimostrata «molto cooperativa», e ha affermato che la nuova sfida era quella di «catturare e processare i criminali del TPLF» e «ricostruire ciò che era stato distrutto». Tuttavia, la guerra è tutt’altro che conclusa: l’esercito etiope, con l’aiuto di quello eritreo, continua a uccidere sistematicamente la popolazione autoctona, in quella che un report del governo statunitense e il Segretario di Stato Antony Blinken hanno definito una «pulizia etnica» della regione. Secondo l’agenzia di stampa britannica Reuters, sono oltre due milioni gli abitanti della regione che hanno lasciato le loro case per dirigersi in luoghi più sicuri all’interno del paese o nei paesi confinanti, come il Sudan.

«Stavamo vivendo pacificamente e con lo schiocco di un dito abbiamo perso la nostra libertà e la nostra pace.» Queste sono le parole di un abitante della regione del Tigray – la cui identità rimarrà anonima per questioni di sicurezza – che ha parlato ad alcuni redattori di Scomodo della sua esperienza in questi mesi. La sua testimonianza si distacca molto dalla versione ufficiale del governo federale etiope e si allinea invece a quella delineata dai maggiori organi e testate internazionali. Secondo quanto riferitoci, la regione del Tigray è ancora in stato di emergenza e non sono concessi spostamenti dopo le 18:00 e prima delle 6:00. Non c’è elettricità né connessione internet; il sistema bancario non funziona, così come la burocrazia e gli ospedali. Anche l’acqua manca, dato che tutte le tubature sono state bloccate. Molti civili stanno ancora morendo, sia di stenti che per le azioni militari delle truppe etiopi ed eritree; frequente è lo stupro di donne e ragazze di etnia tigrina. Le truppe sono ancora accampate nelle città e ciò che è impossibile rubare viene fatto saltare in aria o distrutto: non solo case, fabbriche e piccoli negozi, ma anche molti siti del patrimonio storico come la moschea di Negash o il monastero Debre Damo. La persona intervistata è riuscita a scappare dalla regione e a salvarsi momentaneamente, ma non ha più contatti con la sua famiglia, parte della quale è morta durante il conflitto. Ad Addis Abeba, la capitale, la situazione è tranquilla e la maggior parte della popolazione vive come se niente fosse. Tuttavia, le persone di etnia tigrina sono sempre più prese di mira e molte, fra le altre cose, stanno subendo licenziamenti.

Addizioni pericolose

L’Etiopia, repubblica federale democratica dal 1991, è divisa in nove distretti, a cui si sommano le due città autonome di Addis Abeba e Dire Daua. La  maggior parte dei distretti è abitato in prevalenza da una minoranza che dà anche il nome alla regione. Le divisioni etniche sono molto sentite, ma la composizione federale dello stato ha impedito grandi ritorsioni a livello nazionale e ha garantito anni di pace e crescita economica per il paese, che è il secondo più popolato del continente africano. A capo dell’Etiopia, fino all’elezione di Abiy Ahmed, ci sono stati i leader del Tigray People’s Liberation Front, un partito appartenente a una sola delle regioni, ma che era stato centrale nella rivoluzione contro il Governo militare provvisorio dell’Etiopia Socialista (o Derg) che ha governato con l’aiuto dell’URSS dal 1974 al 1991. La nomina di Abiy Ahmed nel 2018 a primo ministro ha simboleggiato il cambiamento di rotta del governo, che da un modello federale si è trasformato in una forza che punta a un potere più centralizzato. Infatti, il nuovo presidente, di etnia Oromo – il gruppo etnico maggioritario, ma fino a poco tempo fa anche il più marginalizzato – ha segnato un punto di discontinuità rispetto ai precedenti governi del TPLF anche per la sua visione del paese, che ha affermato di voler guidare secondo la sua personale filosofia del “Medemer”, una parola che in lingua amarica significa “addizione”, ma che si può più figurativamente tradurre con “unirsi”. Abiy Ahmed ha lavorato in questi anni per appianare le differenze etniche all’interno del paese, liberalizzando l’economia e rafforzando il sistema democratico, ma ha avuto grandi problemi nello scendere a patti con il fatto che nessuna regione dell’Etiopia vuole veramente abbandonare il modello federale. Questo ha paradossalmente portato alla creazione di politiche da parte del governo centrale che hanno riacceso la tensione fra le differenti etnie etiopi. Tuttavia, per il potere che il TPLF ha nel paese, la guerra si è aperta contro il Tigray e non contro altre regioni,  nonostante l’etnia tigrina rappresenti solo il 6% della popolazione (contro, ad esempio, quella Oromo che raggiunge il 34%). La regione è sempre stata ostile alla nuova leadership, al punto da aver svolto le elezioni del parlamento regionale in settembre, sebbene  il governo di Addis Abeba avesse vietato le elezioni in tutto lo stato a causa dell’emergenza Covid. Tuttavia, questo comportamento da parte dei vertici del TPLF non giustifica minimamente la reazione e la violenza spropositata di Abiy Ahmed contro la popolazione tigrina e crea profondi dubbi riguardo alla volontà del nuovo presidente di raggiungere davvero una nuova pace democratica.

Equilibri internazionali

La situazione etiope, come ogni crisi umanitaria, ha superato i confini del paese. Il Sudan, ad esempio, è alle prese con un vero e proprio esodo proveniente dalla regione etiope, e – oltre alle chiare implicazioni umane e sanitarie – nel parere di Jacopo Resti (ricercatore dell’Istituto Affari Internazionali) «la crisi ha portato al riacutizzarsi di quelle tensioni che ci sono sempre state in situazioni di confine, specie nella zona di Al-Fashqa, storicamente dai confini poco definiti». Bisogna infatti ricordare che lo stato attuale delle cose ha radici antiche, che partono dal periodo coloniale e passano attraverso le tensioni storiche di confine. Nel caso del Sudan, i governi di Khartum e Addis Abeba si erano già scontrati su molte questioni, non ultima quella legata all’accusa reciproca di rifornimento di armi ai rispettivi gruppi ribelli dei due paesi, questioni che continuano ad essere regolate con «ufficiose guerre per procura», come le definisce Resti.

Anche l’Eritrea non ha ufficializzato il suo intervento, ma l’ingerenza delle forze eritree a sostegno del governo di Abiy Ahmed è confermata da molteplici fonti. Non è questa la sede per chiarire l’enorme complessità che lega due paesi come l’Etiopia e l’Eritrea, ma è chiaramente evidente che la presenza di quest’ultima nel conflitto è l’occasione per regolare vecchi conti risalenti a prima dell’indipendenza del 1993. Come è già stato detto, prima del governo di Abiy Ahmed, i vertici del potere nel paese sono sempre stati occupati da personalità di etnia tigrina, che hanno gestito il delicato processo di separazione con l’Eritrea. Probabilmente anche per questa ragione (ma non solo) il primo vero accordo con l’Eritrea è stato ottenuto da Abiy Ahmed, trattandosi per la prima volta di un leader di orgini Oromo. Si potrebbe pensare che ora il governo etiope ed eritreo abbiano un nemico comune. Dal momento che nel 2019 Abby Ahmed è stato insignito dal Premio Nobel per la Pace, questo accerchiamento preoccupa e viene naturale chiedersi quanto la sua politica intransigente peserà sulla sua reputazione internazionale, considerando anche che da quando è al potere – dall’aprile del 2018 – si è sempre di più accreditato in ambito internazionale. Come sottolinea Bernardo Venturi (ricercatore associato IAI), l’attuale presidente etiope «ha avuto il merito di aver dato grande slancio all’Etiopia in chiave regionale, quindi ai paesi del corno d’Africa», seppur con tutti i limiti delle sue politiche. Per cui ora c’è da chiedersi non solo quanto questa guerra civile possa essere destabilizzante per la politica economica del paese, ma anche di quanto determinante rispetto all’equilibrio di tutto il Corno d’Africa e dell’intero continente. Va ricordato infatti che Addis Abeba è sede dell’Unione Africana.

Allo stesso tempo, le Nazioni Unite si interessano agli sviluppi, promuovendo sostegno ai civili e indagini sul territorio. Rispetto a queste indagini, si ripropone la tradizionale contrapposizione tra il punto di vista di Russia e Cina, che non ritengono necessaria un’ingerenza (almeno ufficiale) e hanno infatti bloccato l’adozione di una dichiarazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che chiedeva “la fine delle violenze, e la visione americana, che mette in atto il suo classico “soft power” con un interessamento fattuale che si concretizza in indagini, visite e interventi volti a quella che viene spesso definita come “promozione della democrazia”.

Sono molte le ambiguità che ruotano attorno a quella che da mesi è una dolorosa guerra civile. L’ultimo sviluppo è la dichiarazione riportata da Al Jazeera il 23 marzo secondo la quale Abiy Ahmed avrebbe ammesso per la prima volta il coinvolgimento delle truppe eritree nella regione e le “atrocità” commesse durante il conflitto. Una dichiarazione che può sottendere una svolta di risoluzione che avrebbe un effetto sui quattro milioni di persone che stanno subendo questa crisi umanitaria, oltre che sull’intero continente africano e sulla figura stessa del presidente etiope.

La realizzazione di questo articolo non sarebbe stata la stessa senza la testimonianza di un ragazzo che ci teniamo a ringraziare per aver avuto il coraggio di raccontare cosa accade a casa sua, in Tigray.

Questo articolo è un adattamento dell’approfondimento La pace tradita dell’Etiopia che potete trovare sul numero 40 di Scomodo abbonandovi qui.
Articolo di Ginevra Falciani e Marika Riccetti