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La quarantena delle comunità. “Famiglie” in lockdown
Ci sono casi in cui il distanziamento sociale è complicato se non impraticabile, “devi pensare alla comunità come un luogo che tende a riprodurre quella che è una dimensione familiare che magari in molte persone che in questo momento sono presenti in comunità, questo clima familiare, questo momento importante nell’evoluzione della personalità dell’individuo, in passato ha avuto delle carenze.”, sono le parole di Pasquale Salatino, operatore della comunità psicoterapeutica per tossicodipendenti Fratello Sole, di Gioia del Colle.
Le comunità terapeutiche svolgono un lungo lavoro fatto di attività di gruppo, laboratori, incontri con le famiglie, e, per chi è più avanti nel programma, un progressivo reinserimento nella società attuato con impegni lavorativi esterni alla comunità stessa.
L’arrivo del coronavirus ha modificato la quotidianità di ospiti e operatori, ma come dice Antonio Boschini, responsabile terapeutico della comunità San Patrignano: “Le comunità hanno un aspetto negativo: se entra un virus è difficile fermarlo, perché la distanza sociale nella comunità non esiste. La puoi aumentare, la puoi migliorare, ma è come una famiglia, se in famiglia hai un ammalato non lo riesci ad isolare. Ma c’è un vantaggio: se il virus non è dentro puoi almeno evitare che entri”. Ed è questa la direzione che è stata intrapresa dalle comunità di tutta Italia; la FICT (Federazione Italiana Comunità Terapeutiche) riporta che: “prima ancora che le Regioni deliberassero le circolari applicative del decreto legge Cura Italia, le comunità avevano bloccato gli ingressi, sia quelli autorizzati dai SerD, sia quelli passati tramite i colloqui individuali. Successivamente seguendo le disposizioni Regionali, diversificate secondo i territori, le comunità terapeutiche si sono date delle linee guida subordinate alla diversa organizzazione della struttura in base ai criteri di quarantena e distanziamento”.
La comunità Fratello Sole ha dovuto mettere in lista d’attesa chi aveva già fatto il colloquio per entrare, mantenendo però il contatto telefonico, in quanto è importante che il rapporto terapeutico nasca prima ancora dell’accesso del singolo in comunità. Mentre un’altra struttura, la comunità AGA (Associazione Genitori Antidroga), con sede a Bergamo, ha optato per far entrare chi si trovava in situazioni più urgenti, tenendoli in quarantena e monitorandone la situazione di salute quotidianamente. Enrico Coppola, presidente del Centro AGA, riconosce che la quarantena sia un momento molto difficile per gli ospiti, perché si crea un senso di solitudine che si aggiunge a un vuoto normalmente colmato dal gruppo, il quale, però, cerca di sostenere chi si trova in isolamento tramite messaggi, lettere, e chiacchierate dalle finestre. Alcuni ospiti di questa comunità hanno rilasciato delle testimonianze dirette pubblicate da Agensir, tra cui quella di Nicola, che racconta: “Attualmente in comunità alcuni compagni sono in quarantena per sospetti sintomi. In un posto che per me rappresenta la famiglia, la protezione, l’accoglienza, sapere che non posso sentirmi completamente sicuro mi fa vivere questo periodo con forte preoccupazione, ma l’affetto che mi circonda mi aiuta ad affrontare questa ennesima prova”.
L’entrata di nuovi ospiti è problematica perché spesso non si può avere la certezza che siano state rispettate le misure necessarie per prevenire il contagio. A ciò si aggiunge la mancanza di tamponi, strumento che semplificherebbe l’accesso di altri ragazzi e ragazze, soprattutto durante la Fase 2.
Per le comunità terapeutiche, infatti, la differenza principale tra le due fasi sta proprio negli ingressi che, come riporta la FICT, sono stati riaperti in alcune Regioni d’Italia, pur lasciando alle comunità la possibilità di scegliere che modalità seguire in relazione agli spazi di cui ciascuna dispone.
La comunità di San Patrignano, che opera nel campo da ormai più di 40 anni, con oltre 1000 ospiti, ha visto e vissuto diverse emergenze sanitarie (tubercolosi, HIV, epatiti e influenze) sviluppando negli anni una cultura della prevenzione, necessaria sia per la strutturazione della comunità stessa, fatta di spazi condivisi da più persone, sia per il fatto che alcune di esse sono immunodepresse. “Quando a Febbraio si è parlato dei primi casi italiani di Covid io mi son terrorizzato, perché ho pensato: se arriva qualcosa del genere qua dentro è un disastro”, ci dice Boschini. Gli operatori si sono quindi riuniti e hanno creato degli spazi completamente isolati, come la casa alloggio per malati di AIDS, che ospita circa 50 malati a lunga degenza, e ora stanno lavorando ad un piccolo protocollo per poter gestire le nuove entrate.
Delle ripercussioni, però, vi sono anche per coloro che vivono all’interno, dagli ospiti agli operatori.
Le loro condizioni di salute sono costantemente monitorate, con rilevamento della temperatura e controlli generali. Come Boschini ci racconta, a febbraio diverse persone hanno avuto sintomi simili a quelli del coronavirus (risultati poi in tutti i casi un lascito dell’influenza che stava terminando in quei mesi). “I ragazzi all’inizio avevano paura. Quando io andavo a visitare qualcuno in camera vedevo tanti occhi che mi guardavano preoccupati pensando ‘sarà mica infetto?’. Man mano che passavano le settimane e vedevano che nessuno si ammalava, o che chi era malato guariva dai sintomi, questa paura è andata via via diminuendo, e c’è stato un periodo da metà marzo a metà aprile in cui molti temevano per i loro familiari”.
Chiudere una comunità significa infatti limitare il contatto con la propria famiglia. Come spiega la FICT, l’art.2, comma q, del DPCM del 9 Marzo dispone il divieto di accedere alla struttura da parte di familiari e conoscenti, se non in casi eccezionali e con tutte le prevenzioni necessarie; quindi si è optato per un aumento di telefonate e videochiamate. In città ad alto contagio come Bergamo “alcuni hanno saputo di loro parenti deceduti o di genitori con polmoniti ricoverati in ospedale, quindi dobbiamo anche gestire queste situazioni di stress, cercando di trasmettere fiducia e speranza”, spiega Coppola, il quale però riconosce anche come questa situazione stia portando anche uno sguardo nuovo sulle piccole cose, “si dà un valore diverso alla vita”.
Come racconta Francesco, ospite della comunità AGA (tramite Agensir): “Ho iniziato a preoccuparmi e a chiedermi come stessero i miei fratelli, i miei genitori, i miei nonni. Nelle telefonate ho paura che non mi dicano tutto per non farmi preoccupare. Se mi fermo a pensare mi immagino quante cose belle potrei condividere con loro, e quanto tempo ho perso dietro a cose poco importanti. Ora sono costretto a star loro lontano, quando inizi a vedere le cose da un punto di vista diverso, alla fine le cose importanti ed essenziali sono poche: la vita, gli affetti. Sarà un periodo importante per me questo, spero di non scordarlo.”
Sono state modificate anche le modalità dei gruppi e dei colloqui, bisogna tenere una distanza di oltre un metro, gli operatori, e in alcuni casi anche gli ospiti, indossano i DPI necessari, e i gruppi ad alta numerosità vengono svolti all’aperto (se possibile) o annullati. Le attività di gruppo sono un momento fondamentale di confronto ed espressione delle proprie emozioni, spesso terminano anche con un contatto fisico simbolico, un abbraccio o una stretta di mano, ormai impossibili, e ciò ha ripercussioni sui risultati di questi incontri. Coppola del centro AGA, ci spiega che non mancano episodi complicati da dover gestire e che c’è stata un’iniziale difficoltà di accettazione di queste misure di prevenzione. Sempre Francesco racconta: “La comunità è un luogo protetto, familiare, dove tenere distanze tra operatori e compagni mi sembrava stranissimo, irreale (…) Nei gruppi terapeutici parlo attraverso la mascherina che mi protegge bocca e naso, le cambiamo due volte al giorno e le abbiamo cucite noi ragazzi con l’aiuto degli operatori.”
Il momento dei colloqui di gruppo può però risultare anche fondamentale per comprendere meglio quanto accade e poter gestire le paure che provengono dall’esterno. Come spiega Pasquale Salatino: “Quello che cerchiamo di fare è un lavoro di collegamento con la realtà, con quanto sta succedendo fuori da questo luogo protetto, e lo facciamo proprio per dare un quadro della situazione quanto più possibile collegato alla realtà stessa, perché poi è naturale che si rischia di essere travolti dal panico, se non addirittura dal terrore di tante notizie, e soprattutto dalle fantasie che si possono costruire”.
Gli operatori sono molto attenti nel rendere gli ospiti parte delle scelte che vengono prese all’interno della comunità, e si discute delle misure adottate a livello nazionale.
Una grande problematica resta sicuramente l’interruzione delle attività, come ci dice Antonio Boschini: “la comunità ha moltissime attività all’interno per stimolare i ragazzi nel percorso, tantissime attività anche culturali che per cause di forza maggiore sono state bloccate. Adesso io vedo che i ragazzi cominciano un po’ a subire questa situazione di ristagno. Tutto è fermo, come se fossimo tutti quanti in attesa di qualcosa, nessun progetto per il futuro, e hanno sofferto psicologicamente questa situazione (…). Fortunatamente adesso con questa fase 2 anche molte attività produttive, artigianali, di studio e di corso di formazione si stanno riattivando”.
Gli operatori che vivono al di fuori della comunità rappresentano però un rischio, motivo per cui sono state spesso mantenute solo le figure essenziali, o sono state create delle turnazioni settimanali in maniera tale da mantenere tutti gli operatori disponibili in attivo e avere possibili sostituzioni in caso di contagio.
A San Patrignano si è cercato di limitare quanto più possibile le uscite anche per volontari e dipendenti, usando i DPI necessari nel caso in cui fosse indispensabile uscire o far entrare qualcuno. La riduzione netta di movimento ha implicato, necessariamente, l’uso del servizio di cassa integrazione in deroga per circa 200 dipendenti. Similmente all’interno di altre comunità più piccole, come nel caso della Fratello Sole, è stato ridotto il personale e le ore di lavoro dei singoli operatori. Come ci racconta Salatino: “essendo ridimensionati nella presenza non è facile la sopravvivenza a livello amministrativo. Se devo mantenere fermo il gruppo, ma non ci sono altri ingressi, questo rende difficile la sostenibilità della struttura”. Ma la crisi delle comunità è qualcosa che parte da lontano: già da qualche anno, infatti, un coordinamento pugliese di comunità terapeutiche per tossicodipendenti sta chiedendo un adeguamento delle rette alla Regione Puglia, soprattutto a seguito di una serie di investimenti che hanno sostenuto nell’ultimo anno per rientrare nei nuovi criteri di accreditamento. L’incertezza in cui si trovano, e il mancato ascolto della Regione, rappresentano un grande rischio per alcune strutture pugliesi, e ci si chiede “fino a che punto il decisore politico conosce le problematiche di questo ambito, e come può affrontarle?”.
L’emergenza sanitaria è entrata nelle comunità terapeutiche non solo alterandone la quotidianità, ma sollevando delle problematiche che oggi portano alcune di loro a “rischiare l’implosione”, come dichiara il presidente della FICT. Un rischio che tocca innanzitutto ospiti e operatori, ma che, in fondo, rappresenterebbe un altro pezzo del nostro sistema sanitario che si sgretola.
Articolo di Marem Lo