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L’agricoltura o il profitto di Eni: quale dei due è realmente il settore primario a Gela?
La scoperta del petrolchimico ha creato danni pesanti ancora oggi per l’agricoltura, in una delle aree più fertili dell’intera Sicilia
Nel 1956 a Gela vennero scoperti dei giacimenti petroliferi e da quel momento la storia di questo borgo rurale di origine greca cambiò inesorabilmente la sua direzione.
Nel 1963 ci fu il momento decisivo nel cammino della città verso il cambiamento economico e sociale, entrando nel paradigma della modernità industriale. L’inaugurazione dello stabilimento petrolchimico Eni di Gela fu un evento di enorme rilevanza: la cerimonia fu profondamente sentita a livello locale e non solo, vi partecipò perfino l’allora capo di Stato, Giuseppe Saragat.
Prima di questo momento di svolta territoriale, a Gela vigeva un’economia prettamente agricola, con un ruolo da protagonista assoluta e ad oggi ancora in crescita nel suo prestigio (e di rilevanza, data la sua portata, tutt’altro che “locale”). Nell’immediato dopoguerra la condizione di vita era precaria ed i braccianti erano totalmente vittime dei soprusi ed abusi dei latifondisti. Soltanto negli anni ‘60 la “Cassa del Mezzogiorno” concederà ai contadini appezzamenti di terreno, utili alla coltura del cotone. Ma, appunto, nel momento stesso in cui il settore primario inizia a crescere in maniera apparentemente più “sana”, tanto in termini di sfruttamento del territorio e in termini di benefici economici, a Gela interviene Eni. E la storia del settore primario di Gela non è parallela a quella del primo vero sviluppo industriale della città, ma ne è pesantemente influenzata.
Qualche cenno di cronologia inquinante
A Gela durante gli anni ’60, ovvero nel momento in cui l’attività nella raffineria inizia a prendere vita, su 50.000 abitanti quasi la metà sono coinvolte economicamente nel settore primario. Negli anni ‘70 e ‘80, nel polo petrolchimico in termini di occupazione il rapporto tra diretto ed indotto raggiunge le 10.000 unità, e la città cresce demograficamente. L’abbandono delle campagne inizia a porsi come una questione cruciale, e insieme con l’abusivismo urbano non regolato determinerà quella che può essere definita come prima fase di crisi dell’industria agricola. Le cooperative con l’arrivo di Eni sono in fibrillazione, e tutti cercano un modo di lavorare all’interno dello stabilimento petrolchimico. Di Gela si parla come di una città con una grande opportunità di sviluppo per il territorio. Eni ed il suo entourage “ammaliano” Gela, e la conseguenza sarà la perdita della vocazione del territorio puramente ad un’agricoltura di prestigio.
La seconda fase, e la più incisiva per tutti gli abitanti gelesi, la si può individuare tra gli anni ‘80 e ’90: gli idrocarburi diventano i protagonisti indiscutibili. Il tentativo di far nascere sul territorio una coscienza sul tema ambientale si scontra con resistenze locali di vario tipo, tanto sul piano politico quanto sul piano economico. La contraddizione tra profitti e inquinamento del territorio si trascina fino al 1992, quando vengono emanate delle nuove direttive in ordine alle emissioni (rimaste in vigore fino al 2006). In questa fase si raggiunge uno strano equilibrio, proprio delle zone industriali, tra inquinamento e riduzioni dell’impatto ambientale di Eni.
È dunque evidente quanto la raffineria abbia offerto “benessere” ed abbia cambiato i costumi socio-politici della zona, ma vivendo sempre forti contraddizioni. L’OMS ha dichiarato i territori di Gela e dei comuni adiacenti ad alto rischio di disastro ambientale.
Tuttavia, la “partita finale” tra ambiente e produzione viene anzitutto vinta legalmente con l’istituzione della legge italiana 152/2006 (meglio nota come Testo Unico Ambientale) e nel 2014, grazie alla firma tra Eni e la città di Gela del Protocollo d’Intesa, dove nero su bianco viene stabilito l’impegno formale della chiusura di alcuni impianti del polo petrolchimico volgendo lo sguardo in direzione di innovativi processi di bioraffineria (per i più cosmopoliti, Green Refinery). Alla dichiarazione di una decisiva svolta in ambito ambientale si affianca anche una promessa in termini occupazionali.
L’approccio chimico per la produzione ha pervaso, nei decenni, anche l’ambito agronomico, ed ha conseguenza sull’approccio che gli stessi professionisti del settore primario gelese. «Ad esempio, i corsi universitari venivano spesso caricati con un’enfasi volta alla produzione per sé ed al suo mito, anche con l’aiuto della chimica. La formazione di un tempo non ha nulla a che vedere con quella di oggi», racconta a Scomodo l’ex Presidente dell’Ordine degli Agronomi, Piero Lo Nigro. Il territorio gelese è uno tra i tanti a pagare le conseguenze di quest’approccio, nonostante oggi la formazione professionale in quest’ambito sia almeno apparentemente più conscia di dinamiche relative all’impatto ambientale.
Anche in questo senso, ciò che sta vivendo Gela hic et nunc è un vero processo di decantazione. Ciò che ha determinato la vocazione di Gela è il risultato di contraddizioni locali, regionali e nazionali in cui nessuno è esente da responsabilità.
Gela, figlia prediletta di mamma Eni e partigiana agricola
Gela è solo una fra tante città che Eni ha “conquistato” mano a mano nei decenni, portando in territori per lo più del Meridione i propri interessi industriali. Su Gela, la retorica della multinazionale ha sempre sbandierato come la città potesse diventare il fiore all’occhiello di Eni, città in grado di ospitare le conoscenze tecniche e soprattutto in grado di metterle in risalto. Si ritrova, di fatto, ad essere tra le capitali di metanodotti e gasdotti, iniziando a mettere sempre più da parte il prestigio agricolo. Gela è stata ed è tutt’ora un grande teatro di sperimentazioni, dove sono state implementate nuove strutture che, molto spesso, non hanno avuto bisogno di un ingente numero di dipendenti. Un modello adatto per essere esportato, anche e soprattutto dove le normative ambientali e di tutela del lavoratore sono meno restrittive.
L’agricoltura è stata in enorme difficoltà per la presenza fino di uno stabilimento occupante, solo contando l’area della raffineria, 500 ettari di territorio. Ciò, ovviamente, non tiene conto di tutto l’impatto esterno generato da Eni, che ha sempre negato la propria responsabilità e addirittura il nesso causale tra inquinamento ambientale ed attività industriale (l’unica rilevante sul territorio gelese). Lungo la Piana di Gela, una delle zone più fertili dell’intera Sicilia, ci sono un’ottantina di trivelle meccanizzate che estraggono petrolio percorrendo tubi sotterranei risalenti all’epoca di Mattei. Il mancato utilizzo della Piana per attività agricole ha indebolito il settore primario. L’unico intervento previsto nel Protocollo in ambito agricolo, a “supporto” di tale settore dell’economia gelese, è la coltivazione del guayule, che chiaramente non è tra le coltivazioni tipiche della Piana (carciofi, pomodori, grano e vite).
L’eterno secondo posto dell’agricoltura gelese
La prospettiva occupazionale del settore primario ha subito parecchi momenti di arresto, considerando gli iniziali investimenti volti all’industrializzazione della città, i successivi disinvestimenti e l’abbandono. A gravare sulla condizione del territorio gelese ci sono “storie siciliane” che hanno riguardato mancati compromessi tra la Regione, le cooperative ed Eni stessa. Il Protocollo d’Intesa, pur volto dichiaratamente alla riqualificazione del territorio, si è dimostrato fallimentare nella relazione tra Eni e il settore primario: la vocazione naturale del territorio, per quanto si sia resa costante nel tempo, sta scontando ancora oggi i risultati del “patto” con l’invasiva presenza industriale. Nonostante l’agricoltura sia «il valore assoluto del territorio», come afferma il dott. Lo Nigro, quella dell’agricoltura gelese è una realtà che non ha mai avuto il giusto riconoscimento nazionale.
Oggi, come ci racconta lo stesso ex presidente, si contano circa 1000 ettari di ambiente protetto (serre), il rapporto economico generato crea 3.000 unità attive, di cui il 20% riguardante il circuito indiretto della grande macchina lavorativa agricola.
La Piana di Gela conta inoltre 6000 ettari di carciofeto, riferibili per metà alla città di Gela. Nella metà “puramente gelese” della Piana, tenendo conto della produzione di grano e vite, sono impiegate un totale di 5.000 unità.
A Gela, dunque, vive e sopravvive ad una condizione paradossale da decenni. Le risorse naturali, non ultime le possibilità agricole, potrebbero fare la ricchezza di Gela, e ancora oggi è in primo piano anche al livello occupazionale. Ma Eni, prima in vece dello Stato e successivamente in vece del suo azionariato (pubblico solo al 30%), ha i suoi interessi di mantenere. E, nonostante la riconversione e la riduzione drastica dell’impiego all’interno delle proprie strutture, sono questi interessi ad avere la meglio.