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Laïcité e l’Islam
L’omicidio di Paty ha riaperto la discussione sulla compatibilità fra la Repubblica francese e l’Islam.
Dopo la decapitazione di Samuel Paty all’uscita della scuola dove insegnava lo scorso 16 ottobre, in Francia si è aperta ancora una volta una profonda riflessione su come ridefinire il rapporto tra i valori cardine dello Stato francese e la comunità musulmana. Il dibattito scatenatosi all’interno del Paese è stato considerato dalla stampa ancora più vivace di quello seguito agli attentati del Bataclan e alla redazione di Charlie Hebdo, il cui processo agli imputati è avvenuto negli ultimi mesi, per ragioni simboliche quanto di ordine materiale. La narrazione attorno all’omicidio di Paty ha in certi casi enfatizzato la rivendicazione titanica dei valori della Repubblica e la resistenza eroica degli insegnanti davanti all’estremismo religioso, di fatto polarizzando moltissimo l’opinione pubblica. Ma gli appelli di alcuni colleghi di Paty a seguito del suo omicidio hanno a più riprese rifiutato l’attribuzione dello status di martire della République per il professore, denunciando l’isolamento della classe insegnante, troppo spesso non supportata dalle istituzioni nel gestire una complessità che necessiterebbe di interventi e di una visione politica che vada oltre la progettazione di provvedimenti che presentano aporie enormi.
Separatismo e segregazione
Questa vicenda, in fin dei conti, gira introno alla questione della deontologia della Repubblica francese, della trasmissione della sua tradizione culturale e di cosa un popolo deve condividere per essere considerato una nazione. Un dibattito che mette la Francia di fronte a se stessa, con la sua peculiare capacità, e pretesa, di “fabbricare” dei cittadini e di difendere l’universalità del suo modello, ma anche con i limiti di questo paradigma nel comprendere, o addirittura accettare, tutto quello che non vi aderisce completamente, e infine di fare i conti integralmente con la propria identità del passato più o meno recente.
La rivendicazione dei principi della Repubblica, dalla libertà d’espressione alla laïcité, non può non affrontare la gestione a livello nazionale e istituzionale dei bisogni di una comunità frutto di un processo storico coloniale e di segregazione estremamente pesante. In Francia esiste un grave problema di disparità economica e sociale, intimamente legata alla territorialità, al rapporto tra poli urbani e periferie e alla loro conseguente amministrazione. La popolazione musulmana paga lo scotto di processi di ghettizzazione profondi, ancora dopo generazioni, che coincidono con condizioni di discrepanza economica e sociale, ma anche di stigma culturale. La costruzione frettolosa di 300 cités nel ventennio tra il 1953 e il 1973, sfociata poi nell’architettura amministrativa delle ZUS (zones urbaines sensibles) nel 1996, abolita solo nel 2015, fanno parte di quella tipologia di provvedimenti che hanno riprodotto senza soluzione di continuità una condanna all’isolamento per determinate categorie. Una forma di segregazione che non può che sortire gli effetti di una discriminazione sistemica, profonda e istituzionale. Secondo i dati del 2019 diffusi dall’IFOP, il 42% dei musulmani che vivono in Francia sono stati vittime almeno in un’occasione di qualche forma di discriminazione legata alla propria religione, di cui la più importante riguarda quella vissuta in occasione di controlli da parte delle forze dell’ordine (28%), seguite da quelle riscontrate nella ricerca di un impiego (24%) o di un’abitazione (22%). L’esposizione alle aggressioni della comunità islamica sembra strettamente legata al suo grado di riconoscibilità, come conferma il dato che attesta che il 42% delle donne che portano regolarmente il velo siano state vittime di insulti di natura religiosa. Tuttavia, le violenze che colpiscono la maggior parte dei musulmani non si riducono a una discriminazione riferibile al culto, ma vedono la combinazione di ulteriori matrici razziste e xenofobe in senso ampio, rivelando una articolazione difficile da districare che in parte affonda le proprie radici in provvedimenti legislativi difettosi.
Leggi difettose
La Francia non è nuova alle misure che hanno come target più o meno diretto la comunità islamica. Nel report del 2017 “Pericolosamente sproporzionato: uno stato di sicurezza nazionale sempre più in via di espansione in Europa”, Amnesty ha inserito la Francia fra quei paesi che hanno superato i limiti di temporaneità e proporzionalità previsti nella definizione di stato di emergenza. All’indomani degli attacchi terroristici del 2015, la Francia ha promulgato delle leggi che John Dalhuisen, direttore per l’Europa di Amnesty International, definisce “sproporzionate e discriminatorie”, e che se “esaminate tutte insieme, compongono un quadro preoccupante in cui poteri incontrastati stanno compromettendo libertà che da lungo tempo erano date per garantite”. Alcuni provvedimenti considerati problematici da Amnesty sono le leggi sullo stato di emergenza, presente sul territorio francese per due interi anni con sei proroghe dal 13 novembre 2015 al 1° novembre 2017. Questo stato di emergenza dava, ad esempio, la possibilità al governo di vietare le manifestazioni e di condurre perquisizioni senza mandato giudiziario, oltre che alla promulgazione di leggi sulla sorveglianza di massa. Ad esso si aggiungono le massicce condanne per “apologia del terrorismo”, 385 delle quali, di cui 1/3 nei confronti di minorenni, solo nel 2015. Un esempio è stato l’arresto (e il processo) a Tolosa di un sedicenne e delle sue due sorelle, di 15 e 16 anni, che indossavano il burqa, poiché avevano offeso due poliziotti, minacciando che gli eventi del Bataclan “fossero solo l’inizio”. Questo tipo di condanne, pur se corrette viste dal punto di vista teorico, in realtà sono estremamente controproducenti. Il governo francese ha adottato dei provvedimenti che non hanno fatto altro che allargare la voragine fra le istituzioni e questa comunità, contribuendo alla sua ghettizzazione e stigmatizzazione, e, secondo molti, anche direttamente alla sua crescente radicalizzazione. Un’altra situazione critica è quella dei cittadini francesi sospettati di aver commesso o di star per commettere crimini legati al terrorismo, anche se ancora non accusati. Come riporta Amnesty, tra il gennaio 2015 e il novembre 2016, 430 persone sono state sottoposte a un divieto amministrativo di lasciare il paese e a 201 persone è stato vietato di rientrare in Francia dall’estero. A questi si aggiungono coloro che “al solo scopo di prevenire la commissione di atti terroristici, laddove sussistano seri motivi per ritenere che il comportamento dell’individuo costituisca una seria minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico” sono sottoposti a residenza assegnata forzata, che comporta un coprifuoco notturno, il divieto di viaggiare al di fuori di una specifica area comunale; e l’obbligo di presentarsi a una stazione di polizia, in genere due volte al giorno. Riguardo a queste misure di controllo, mantenute anche successivamente alla fine dello stato d’emergenza, Amnesty ha pubblicato il report “Puniti senza processo: l’uso delle misure di controllo amministrativo nel contesto della lotta al terrorismo in Francia”.
Ma la legge più famosa e anche fra le prime a sancire apertamente lo scontro fra la comunità islamica e lo stato francese è la legge sul velo. Il forte legame della Francia con il principio di laïcité e il suo approccio assimilazionista all’immigrazione hanno fatto scoppiare dibattiti sull’indossare simboli religiosi negli spazi pubblici già nel 1989, quando tre ragazze musulmane vennero espulse da scuola per non essersi tolte l’hijab su richiesta del loro insegnante. Nel 2011, la Francia proibisce ufficialmente l’uso di simboli religiosi “ostentati” nelle istituzioni statali come la scuola, i tribunali e gli uffici pubblici. In questi simboli rientrano il velo musulmano (dall’hijab al burqa), la kippah ebraica e le “grandi croci cristiane”. Nel 2015 anche l’uso del burkini viene bandito da spiagge e piscine. Queste leggi vengono emanate solo nel contesto di un dibattito più specifico riguardo alla compatibilità dei valori dell’Islam con quelli della nazione francese, che ha sostenuto e ancora sostiene questa legge in nome della laicità dello stato e della totale assenza di discriminazione all’interno del provvedimento, dato che tutte le religioni sono coinvolte. Tuttavia, il punto di questa legge, come di tanti altri provvedimenti che ufficialmente mirano alla lotta al terrorismo e all’avvicinamento della comunità islamica ai tradizionali valori francesi è che non funziona. Proibire quella che può essere vista a tutti gli effetti come una pratica sessista, basata sull’idea che una donna può mostrarsi solo a suo marito e alla sua famiglia, non è il modo per abolire una abitudine così radicata. Questa legge insulta le cittadine musulmane che portano il velo per scelta e danneggia le donne che invece si vanta di emancipare, rinchiudendo in casa e fuori dalla sfera pubblica tutte coloro che sono obbligate dai propri mariti a portare il velo. Nel 2018, l’ONU ha condannato la Francia per questa legge, definendola una violazione della libertà di culto.
La secolarizzazione della Repubblica
Quando si pone al centro del dibattito pubblico e politico il separatismo, come sta accadendo in relazione al disegno di legge “a sostegno dei principi della Repubblica” approvato il 9 dicembre dal Consiglio dei ministri dopo aver cambiato nome ormai tre volte, non bisognerebbe dimenticare il peso di una segregazione urbana durata decenni e di certe politiche che hanno nutrito la radicalizzazione e cancellato, o reso ostile, lo spazio pubblico a una fetta dei propri cittadini. Nel dibattito politico francese manca una riflessione sul contesto che ha permesso una certa radicalizzazione reciproca intorno all’Islam. Come spiega Farhad Khosrokhavar negli ultimi decenni la Francia ha adottato una politica errata, trasformando la laïcitè, che dovrebbe essere un «sistema di salvaguardia della neutralità dello Stato», in una religione civile. Il problema, hanno sottolineato politologi come Ahmet T. Kuru, non è soltanto l’Islam radicale, ma anche l’aggressività del secolarismo francese. In Francia, «troppo spesso la laïcité si traduce in una mancanza di disponibilità ad accogliere le richieste religiose dei musulmani», cosa che non succede con i cattolici, che per esempio godono anche di finanziamenti pubblici per le loro scuole.
Gli attentati terroristici di matrice islamica che si sono moltiplicati a partire dal 2015 e i dibattiti che sono seguiti – come quelli riguardo i «segnali deboli di radicalizzazione» nel quadro delle politiche di sorveglianza di massa – hanno contribuito indubbiamente a rinforzare la confusione tra musulmani praticanti e terroristi e più in generale l’ostilità nei confronti dei fedeli: i musulmani sono il gruppo etnico-religioso meno accettato in Francia dopo i rom secondo le ultime attestazioni del 2018 del CNCDH (Commission nationale consultative des droits de l’homme).
Se il nuovo disegno di legge ribadisce che lo spazio di educazione è quello pubblico, prevede di vietare la produzione di test che attestano la verginità (scongiurando ciò che successe in Egitto nel 2011) e di controllare i finanziamenti alle moschee, dall’altra rischia di attaccare tout court una comunità e iniziative di integrazione portate per anni avanti dalle associazioni e di alimentare lo stigma sulla cultura della comunità musulmana. È preoccupante soprattutto la polarizzazione interna che si è creata intorno ai temi centrali dell’islam: attaccare i “predicatori d’odio” attraverso politiche pubbliche o chiedere la riforma dell’Islam “malato” senza altra forma di riflessione o azione, ignora la dimensione relazionale della violenza e delle tensioni che stanno lacerando la Francia. La combinazione tra disegni di legge come questo e la Loi de sécurité globale sembrano determinare una stretta che rischia di sfociare in una lunga spirale di violenza.