L’altro contagio

La deriva apocalittica nella narrazione del coronavirus in Italia

Antefatto

Una donna americana tornata da un viaggio d’affari in Asia muore a causa di quella che sembra una semplicissima influenza, ma che si rivela essere una nuova malattia. Nel resto del mondo si verificano casi simili e la sede principale dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie manda un’équipe medica nel villaggio cinese dove sembra abbia avuto origine l’epidemia. Il virus si rivela essere un incrocio tra due ceppi trasportati da pipistrelli e maiali che colpisce il sistema nervoso e i polmoni. La malattia intanto continua a diffondersi senza che venga trovata una cura, provocando un’isteria di massa nella popolazione mondiale, favorita anche dalla disinformazione generale. Mentre un blogger complottista decide di sfruttare economicamente il clima di panico per vendere un sedicente vaccino omeopatico, una delle dottoresse dell’equipe che per prima aveva isolato il ceppo muore dopo aver contratto il virus.                     

 

 

Quella che sembra una storia molto simile ai prodromi dell’epidemia del coronavirus è in realtà l’incipit di Contagion, medical thriller del 2011 diretto da Steven Soderbergh. Nel film come nella cronaca di queste settimane ci sono persone bloccate dentro città in quarantena e terrorizzate alla sola idea di stringere la mano alla persona sbagliata. Il regista di Traffic aveva preso ispirazione dalle epidemie della SARS e dell’influenza H1N1 per realizzare un film ultra-realistico, tanto da tornare d’attualità a fine gennaio entrando nella top 10 dei film più visti su iTunes. Sempre più utenti su Twitter hanno notato le analogie definendo – e sbagliando – Contagion una profezia apocalittica del coronavirus, quando invece la pellicola si allontana dalle atmosfere isteriche da b-movie per analizzare come una minaccia diffusa a livello globale può portare a un collasso del sistema sociale. Un epilogo che ci appare sicuramente estremo e che però riflette in controluce alcune disfunzioni del sistema presenti anche oggi in Italia e nel mondo, tra cui il panico generato dai mezzi di informazione è una delle più importanti. 

Tutto il coronavirus minuto per minuto

Il 21 Febbrario 2020 le autorità hanno annunciato il primo caso confermato di decesso per COVID-19 all’interno dei nostri confini nazionali. La notizia, per quanto grave, ha scatenato un panico senza  precedenti all’interno dell’opinione pubblica, dovuto principalmente al pessimo lavoro a livello informativo svolto dai giornali italiani.  Il trattamento giornalistico che è stato riservato al coronavirus dai network italiani potrebbe ricordare in parte, in un altro gioco di coincidenze, quello avvenuto nel 2014 con l’epidemia di ebola in Africa occidentale. Le proporzioni di questo nuovo fenomeno mediatico, che da ormai più di un mese rimbalza senza sosta tra quotidiani, siti web, radio e televisione, sono però talmente amplificate ed esasperate da non permettere nessun paragone. Il virus cinese è diventato stabilmente il primo servizio al tg, l’articolo acchiappa-click e il taglio alto o medio in prima pagina, riuscendo a rivaleggiare con praticamente ogni altro argomento di attualità, in un crescendo che non accenna minimamente a diminuire ma sembra anzi acquistare sempre più forza dalla propria onnipresenza. Questo bombardamento continuo, poi, portato avanti con toni allarmistici e sensazionalistici, ha ovviamente generato un ritorno economico e di visibilità alle testate coinvolte, oltre a fomentare una psicosi diffusa e sfociata in episodi discriminatori, che come in un uroboro senza fine sono diventati a loro volta oggetto di notizia. Questo contagio mediatico, pur avendo infettato qualsiasi piattaforma, ha preso piede con particolare forza in televisione e soprattutto sul web. Così anche chi non fa in tempo a sintonizzarsi su Sky TG24 può comunque informarsi sugli ultimi sviluppi grazie all’utilissima diretta live sul sito del canale, per sapere se finalmente i dannati ospedali cinesi sono stati riforniti con le mascherine o per ammirare il virus in tutto il suo splendore fotografato da un microscopio elettronico all’avanguardia. Una buona parte delle notizie che girano online provengono comprensibilmente dai grandi quotidiani, Repubblica, Corriere, Stampa e Messaggero su tutti, per i quali l’epidemia cinese è il tema caldo del giorno, ogni giorno. È impossibile ignorare però anche tutti quei siti web di informazione, fortemente orientati al clickbaiting, che intasano le homepage di social e i motori di ricerca, come The Post Internazionale e Fanpage. Quest’ultimo a febbraio è stato capace nel giro di due settimane di passare da un approfondimento su “tutte le bufale sul virus a cui non bisogna credere” a riprendere una notizia di agosto riguardo a un ragazzo morto intossicato dopo aver mangiato in un ristorante cinese come se fosse appena accaduta. Ma il re indiscusso della competizione è Enrico Mentana, che con “la scommessa vinta” di Open ha contribuito ad esacerbare ulteriormente la narrazione compulsiva sul coronavirus pubblicando centinaia di articoli, tra i quali innumerevoli bollettini giornalieri totalmente inutili sulle condizioni dei pazienti dello Spallanzani. Nonostante le critiche degli utenti il direttore del TG La7 in uno status su Facebook ha puntato il dito sul “vero contagio” della strumentalizzazione politica della malattia fatta da governo e opposizione, dimostrandosi ancora una volta un maestro esemplare del cerchiobottismo. Il clima mediatico focalizzato su un unico tema ha poi orientato la politica editoriale anche di un sito tradizionalmente lontano da queste ambiguità come Il Post, che sta dedicando uno spazio considerevole agli immancabili aggiornamenti quotidiani sul numero di morti e infetti. Non è un caso quindi che gli articoli sul coronavirus assomiglino sempre più ad un continuo déjà vu, senza che lo sguardo giornalistico si posi su argomenti contingenti e meritevoli di attenzione come le politiche di contenimento in Cina o il precariato lavorativo degli “angeli del virus” romani. 

Da Wuhan a Raccoon City il passo è breve

L’overloading informativo si è accompagnato ad un racconto spesso parziale, incompleto, scandalistico o completamente falso, rendendo molto più difficile per il pubblico riuscire ad informarsi in maniera competente sul tema. Anche in questo caso le dinamiche assomigliano a quelle imperversate nel 2014 durante l’epidemia di ebola, con la sottile differenza che stavolta molte fake news non vengono messe in giro da pagine social complottiste come Catena Umana e Adesso fuori dai Coglioni, ma sono gli stessi quotidiani e siti web di informazione a perpetuare in prima persona questo framing post-apocalittico e al contempo incredibilmente futile. Si passa da The Post Internazionale che titola “Trovata cura per il virus” riferendosi alla possibilità che il plasma delle persone guarite venga usato per un eventuale vaccino, ad Open che racconta lo struggente “San Valentino ai tempi del coronavirus” di una coppia italo-cinese, fino al Post che afferma che “Sono morte più persone per il nuovo coronavirus che per la SARS”, senza citare minimamente le differenze tra il numero di contagi e il tasso di mortalità delle due malattie. Molti quotidiani poi hanno rincarato la dose, prima magnificando un inesistente primato italiano nell’isolare il virus – per Libero addirittura gli italiani “danno una lezione al mondo”, per giunta con un team di “medici donne meridionali”! – e in seguito ribattezzando “super untore” il cittadino britannico che aveva contagiato undici persone in Francia, con un giustizialismo che infrange qualsiasi norma deontologica del mestiere. Ma è con le false teorie e gli articoli complottisti che il giornalismo italiano ha raggiunto vette ancora inesplorate di disinformazione, accumulando un archivio talmente vasto da essere il sogno bagnato di qualsiasi debunker. Questa infodemia diffusa ha partorito articoli nevrotici secondo i quali il virus è di volta in volta parte di un piano architettato da Bill Gates e dall’élite globalista per ridurre la sovrappopolazione del pianeta o una creazione del Pirbright Institute, istituto di ricerca inglese produttore di vaccini. L’opinione diffusa contenuta in molti di questi articoli, che provengono da voci mal interpretate o da network inattendibili, è che la Cina non stia comunicando dati perfettamente trasparenti – ed è una preoccupazione condivisibile – ma anche che stia nascondendo agli occhi degli occidentali abomini e soprusi indicibili. Una delle prove più spettacolari e false è un collage di video pubblicato sul sito della Stampa e del Tempo dall’emblematico titolo “Quello che la Cina non ci dice sul virus”, che mostra delle persone collassare per terra in metropolitana, in ufficio e in altri luoghi pubblici, come se si trovassero in un episodio di Resident Evil. La fonte non è un canale informativo ma Benedetta Paravia, in arte PrincessBee, star della musica negli Emirati Arabi Uniti, che ha affermato di aver raccolto una serie di video ricevuti da amici cinesi, poi condivisi dai due giornali completamente decontestualizzati e accompagnati da descrizioni fantascientifiche di “persone che non sanno più a chi avvicinarsi” e “operatori sanitari protetti da tute simili a quelle degli astronauti”. L’apice è stato raggiunto il 25 gennaio da TGCom24, il cui direttore Paolo Liguori ha rivelato in un video di aver saputo da una “fonte attendibilissima” ma non meglio specificata che il virus sarebbe in realtà un’arma batteriologica fabbricata in un laboratorio militare di Wuhan in cui si conducono “esperimenti militari coperti dal più grande segreto”. L’arma sarebbe sfuggita al controllo dei suoi creatori a causa del contagio di un tecnico, come in una sorta di remake di Stranger Things ambientato in Cina e non a Hawkins. L’origine della bufala divulgata da Liguori, un articolo del Washington Times, testata americana malfamata spesso confusa con il Washington Post, non ha però impedito che la notizia venisse ripresa dal trittico Libero, Mattino e Messaggero e che diventasse il pretesto per l’europarlamentare dell’M5S Fabio Massimo Castaldo di annunciare su Facebook di voler presentare un’interrogazione parlamentare in merito “alla realtà dei fatti” sul laboratorio di Wuhan. Questa diffusione incontrollata di notizie allarmiste ha costretto il Ministero della Salute a realizzare degli spot televisivi informativi con protagonista Michele Mirabella e ad istituire un numero di pubblica utilità, senza contare il lavoro di factchecking dell’OMS, che sul suo sito ha dovuto sfatare miti assurdi come la presunta utilità come rimedi al virus di asciugamani elettrici, lampade a raggi ultravioletti, gargarismi con il collutorio e cipolle.

Le conseguenze della psicosi

Anche il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro è stato costretto a diffondere un video per tranquillizzare gli italiani e spiegare che la trasmissione del virus avviene tramite le persone, e non visitando Chinatown, mangiando “zuppe di pipistrello” o facendo acquisti nei negozi cinesi, a differenza dei proclami delle catene di Sant’Antonio allarmiste su WhatsApp. Nonostante un post su Facebook che intima di non fare acquisti su Wish possa sembrare divertente nella sua ingenuità, fa comunque parte dell’ondata di fake news dal tono catastrofico che hanno sommerso i social in questi mesi e che hanno contribuito a generare un clima di sfiducia e sospetto verso la comunità cinese in Italia. Questo stigma razzista si è concretizzato in aggressioni fisiche, come è accaduto a una coppia a Venezia, e verbali, di cui è stata vittima su di un treno la docente di marketing Lala Hu. La destra italiana poi non ha perso occasione per strumentalizzare la tempesta sociale in corso, accusando i “cinesi onti” di voler impestare il paese, nel caso di un post del consigliere comunale di Treviso di Forza Italia Nicolò Scomparin, o attaccando volantini che consigliano di comprare italiano alle vetrine di negozi cinesi, come ha fatto Forza Nuova a Como e a Brescia. Una grande parte della responsabilità di questo razzismo imperante è da attribuire al sistema giornalistico italiano e alla sua frenetica caccia al click o visual in più, a discapito di un’informazione ragionata ed effettivamente capace di fornire ai lettori gli strumenti per affrontare con maggiore consapevolezza una situazione comunque da non sottovalutare. Sperare in un cambio di rotta da parte dell’informazione italiana appare complicato, visti gli eccezionali risultati economici che questa narrazione compulsiva dell’epidemia ha portato ai giornali italiani. Basti pensare al caso di Open di Enrico Mentana, che ha visto nel mese di gennaio il picco massimo di utenti sul proprio sito e che ha recentemente annunciato un nuovo giro di assunzioni visti gli eccellenti risultati economici raggiunti nel corso degli ultimi due mesi. Fino a quando la narrazione del COVID-19 sarà così remunerativa, sarà impossibile che in Italia si sviluppi un’informazione sana per quanto concerne l’epidemia.

Articolo di Jacopo Andrea Panno