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La promessa tradita di Amazon
La retorica del gigante di Bezos si scontra con la correlazione fra aumento dell’e-commerce e taglio di posti di lavoro
«Amazon continua a creare occupazione»: è questo il refrain su cui sta puntando tutto il gigante di Jeff Bezos per le proprie campagne d’immagine. La multinazionale delle vendite online ha fatturato quasi 350 miliardi di dollari nel 2020 e i suoi profitti si sono moltiplicati in modo esponenziale durante la pandemia di coronavirus. L’impossibilità di uscire di casa durante la prima ondata dell’emergenza sanitaria, infatti, ha fatto sì che l’e-commerce divenisse talvolta l’unico, indispensabile mezzo per acquistare beni di prima necessità. Di questa situazione hanno beneficiato quelle grandissime multinazionali delle vendite online – Amazon soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, Alibaba in Asia – che in moltissimi paesi del mondo detengono la fetta più ampia del mercato. Il colosso americano, è stato calcolato, ha processato fino al 40% di pacchi in più rispetto a prima del Covid-19, risultando così «una delle poche aziende uscite “vincitrici” dalla pandemia di coronavirus». Sullo slancio dei recenti successi finanziari, la propaganda di Amazon è arrivata a prevedere 20.000 nuovi posti di lavoro nel solo 2020 «per soddisfare la domanda dei consumatori» in Europa, con investimenti per il Vecchio Continente che dal 2010 al 2019 hanno toccato quota 79 miliardi di euro e un totale di 135,000 dipendenti in 15 paesi europei.
Non tutto è oro…
Ciascun lavoro creato grazie all’e-commerce nel settore delle vendite (esclusi generi alimentari) in una grande compagnia ha portato alla distruzione di 6 posti di lavoro nelle piccole e medie imprese. Tra il 2009 e il 2018, nello stesso settore, la Francia ha perso 114.000 posti di lavoro a causa dell’e-commerce. Se si somma il paese transalpino con la Germania, il commercio online ha portato alla perdita di 80.000 occupazioni in più rispetto a quelle che ha creato. Nella sola Spagna sono 43.000 i lavori in più bruciati rispetto a quelli generati dai grandi brand dell’e-commerce. Sono questi i risultati chiave dello studio condotto da Florence Mouradian e Ano Kuhanathan, economisti di Kavala Capital che Scomodo pubblica in esclusiva. La relazione indipendente è stata commissionata da Leïla Chaibi – eurodeputata del gruppo The Left nota per aver denunciato le pratiche di sorveglianza di Amazon nei confronti dei dipendenti politicizzati – in collaborazione con l’associazione ambientalista Les Amis de la Terre France.
Lo studio pubblicato nel 2020, dall’eloquente titolo E-commerce and jobs: Heading towards job cuts (E-commerce e lavoro: verso un taglio dell’occupazione), aveva come obiettivo la valutazione dell’impatto che la sempre più massiccia digitalizzazione ha avuto sul settore delle vendite al dettaglio di generi non alimentari e servizi in Europa fra il 2008 e il 2019. I risultati, che si avvalgono anche di un calcolo econometrico, sono decisamente preoccupanti: grazie alle potenzialità offerte dall’infrastruttura digitale – ordini a distanza, logistica in tempo reale, tempi di consegna molto brevi – «sembra che il settore possa funzionare nel complesso con meno risorse – in altre parole [l’e-commerce] distrugge posti di lavoro man mano che il numero clienti che lo utilizzano cresce». Il settore è sicuramente in crescita: il mercato coperto dall’e-commerce è raddoppiato fra il 2013 e il 2019 e nel 2018, secondo l’Eurostat, il 43% delle grandi imprese e il 28% delle medie imprese ha effettuato vendite online. La prospettiva di crescita delle vendite su Internet è più che roseo e, di conseguenza, «la maggior parte dei punti vendita non è più necessario, così come lo staff ad essi legato», scrivono gli autori.
Si potrebbe obiettare che l’e-commerce si limiti a trasformare il mercato del lavoro, eliminando lavori non più necessari e favorendo l’incremento delle professioni legate al campo della logistica, come magazzinieri e corrieri, ma anche di quelle che curano l’implementazione delle piattaforme digitali di vendita. In realtà, gli effetti dell’aumento del commercio digitale rischiano di mutare in profondità l’assetto imprenditoriale europeo, per il 99% costituito di medie, piccole e micro imprese, che non impiegano più di 250 addetti ciascuna. Proprio le piccole imprese europee (meno di 50 dipendenti) sono quelle che hanno beneficiato meno dell’informatizzazione delle vendite, con appena il 18% che ha effettuato vendite digitali nel 2018, generando, scrive l’Eurostat, «solo l’8% del fatturato di tali imprese». Chi trae veramente profitto dall’e-commerce sono le grandi aziende, mentre i piccoli esercizi sono costretti ad adeguarsi per non sparire del mercato alle nuove dinamiche digitali. Nonostante le spinte delle politiche comunitarie e nazionali verso la digitalizzazione delle PMI, secondo Mouradian e Kuhanathan «le piccole imprese sembrano essere quelle più duramente colpite dalla crescita dell’e-commerce». Le evidenze della ricerca contrastano nettamente con la retorica di Amazon, che non perde occasione per rimarcare quanto «supporti attività di piccole e medie dimensioni nel vendere nel proprio paese e all’estero, e nel creare nuovi posti di lavoro».
Amazon pigliatutto
L’ingresso delle PMI nel mercato online non è sufficiente a garantire un futuro alla piccola vendita al dettaglio e per aziende a conduzione familiare ed esercizi locali aprire un punto vendita su Internet potrebbe non essere sufficiente a contrastare la concorrenza di big come Amazon. Secondo lo studio The Effect of E-commerce on Employment in Retail Sector, pubblicato nel 2018 da Alberto Americo e Antonio Veronico dell’Università degli Studi di Torino, «le piccole imprese possono non avere le competenze o le risorse per affrontare» la sfida dell’e-commerce, ma «sembrerebbero non avere altra scelta che seguire i consumatori online». Tuttavia, scrivono i ricercatori dell’Università di Torino, «nessun negozio può ospitare tanti articoli quanti ne può offrire Amazon» e l’azienda di Bezos, grazie all’immensa mole di dati che accumula sui suoi clienti, può «manipolare rapidamente i prezzi per adeguarli all’offerta dei concorrenti», oppure «fornire immediatamente raccomandazioni personalizzate». Una possibilità che è preclusa ad una piccola azienda che vende i propri prodotti online. A meno che, s’intende, non acquisti i servizi per l’e-commerce offerti da Amazon Web Services.
Proprio nei paesi dell’Unione europea in cui Amazon è maggiormente presente, lo studio commissionato dall’europarlamentare Chaibi individua la maggiore perdita in termini di posti di lavoro. La Germania, ad esempio, secondo i dati di Statista è il primo paese Ue per numero di centri di distribuzione Amazon nel 2020 (ben 22), seguita dalla Francia con 10 e dalla Spagna con 8. Secondo le previsioni effettuate dai ricercatori di Kavala Capital, in uno scenario assimilabile a una crescita graduale dell’e-commerce, di qui al 2028 la perdita di posti di lavoro «si aspetta che raggiungerà le 46.000 unità in Francia, 98.000 in Germania e 152.000 in Spagna». Immaginando uno scenario peggiore, in cui vengono generalizzate le abitudini d’acquisto dei giovani adulti (25-34 anni) al resto della popolazione, «l’impatto sarebbe più grave in Francia e Germania, rispettivamente con 87.000 e 127.000 posti di lavoro distrutti».
E in Italia? Recentemente Amazon ha dichiarato che nel 2021 aprirà un nuovo centro di distribuzione a Novara e un nuovo centro di smistamento a Modena. L’intenzione è quella di creare in tre anni 1.100 posti di lavoro a tempo indeterminato, che si andrebbero a sommare agli oltre 2.600 del 2020. Opportunità di lavoro che, secondo quanto dichiarato dall’azienda, «hanno interessato persone con ogni tipo di formazione, aspirazioni professionali, livello d’istruzione ed esperienza». Secondo lo studio E-commerce and jobs, l’Italia è l’unico paese che mostra un impatto positivo del commercio online sull’occupazione significativo rispetto agli altri membri Ue considerati nello studio, per quanto complessivamente moderato (+2,7%). Eppure, affermano gli autori, in tutti e sette gli Stati europei considerati «la relazione fra l’e-commerce e l’occupazione è fortemente negativa per compagnie di piccole dimensioni» e l’impatto positivo sperimentato dall’Italia è «senza dubbio collegato allo scarso utilizzo dell’e-commerce nel paese». L’Italia, infatti, è spesso fanalino di coda fra i 27 dell’Unione nelle statistiche Eurostat sulla diffusione delle vendite su Internet. Insomma, a guadagnarci sono sempre i soliti big player e il rischio che una diffusione massiccia dell’e-commerce anche nel nostro paese potrebbe portare a un saldo negativo dell’occupazione è plausibile.
Combattere i giganti
Secondo Giacomo Calzolari, professore di Economia all’European University Institute ed esperto di organizzazione industriale, l’interpretazione dei risultati dei risultati di queste ricerche non è così ovvia, in quanto è difficile credere che «quanto si osserva è proprio l’effetto dell’aumento dell’e-commerce sull’occupazione e non di altre cause». Inoltre, come spiega il professor Calzolari a Scomodo, non sono stati tenuti in considerazione gli effetti a lungo termine: «La digitalizzazione non è altro che una delle tante “ondate” di sviluppi tecnologici che comportano variazioni. Ne stanno arrivando altre, come la robotizzazione avanzata nell’industria e l’automazione in moltissime funzioni del terziario».
«In tutti i periodi di transazioni passate dovute a innovazioni – afferma Calzolari – abbiamo avuto un effetto netto positivo sul lavoro, considerando un orizzonte sufficientemente lungo. Le profezie di perdita irreversibile di lavoro si sono dimostrate errate e, complessivamente, la digitalizzazione sta offrendo così tante novità e alternative che l’effetto netto è positivo. Ovviamente bisogna prestare attenzione: ci sono stati e ci saranno molti lavoratori che perderanno il posto precisamente a causa delle trasformazioni che conseguono alle innovazioni. Bisogna quindi prepararsi ad “ammortizzare” queste trasformazioni. La storia economica ci ha ripetutamente mostrato situazioni analoghe di innovazioni che hanno prodotto profonde trasformazioni. Ma gli allarmismi si sono dimostrati errati».
Eppure, conclude il professor Calzolari, ciò «non vuol dire che vada tutto bene. Bisogna controllare il potere di mercato delle grandi imprese che operano nei mercati digitali e anche dell’e-commerce, ed essere pronti ad aiutare chi viene danneggiato dalla fase di transizione». Su queste tematiche da tempo insiste l’europarlamentare Leïla Chaibi – committente dello studio E-commerce and jobs – che, contattata da Scomodo, dichiara: «Non possiamo più lasciare compagnie transnazionali come Amazon, che stanno guadagnando dalla pandemia di coronavirus senza assumersi le proprie responsabilità, vivere nella totale impunità. L’unico argomento che queste compagnie hanno quando costruiscono un nuovo magazzino è “stiamo creando lavoro”, “portiamo occupazione”. La ricerca che abbiamo commissionato mostra che questo non è corretto e non è la prima ricerca ad affermarlo». Secondo Chaibi gli effetti negativi di Amazon sull’occupazione sono dovuti al fatto che il sistema dell’e-commerce è basato sulla riduzione della catena di distribuzione e la massimizzazione dell’efficienza, con le grandi multinazionali delle vendite online che sono al tempo stesso fornitori e distributori.
Come contrastare lo strapotere del gigante americano nel Vecchio Continente? L’opinione di Leïla Chaibi è che Amazon, semplicemente, non segua le regole europee sulla competizione e faccia concorrenza sleale. Ed è in questo campo che l’Ue può e deve fare qualcosa. «Sul 90% dei prodotti venduti su Amazon non viene pagata la VAT [l’equivalente dell’IVA, ndr]» denuncia Chaibi. Il primo passo, spiega, sarebbe obbligare Amazon a pagare la VAT su ogni prodotto venduto sul suo marketplace. Inoltre, bisognerebbe implementare un sistema di tassazione per cui Amazon paghi le tasse nel paese in cui viene venduto ciascun prodotto, e non nei paesi in cui Amazon fattura, membri Ue in cui le tasse sono inferiori al 5%, come il Lussemburgo.
Lavoratori (s)qualificati
Il dibattito accademico sull’impatto dell’e-commerce, come abbiamo visto, non è univoco. A seconda del modello statistico utilizzato, alcune ricerche econometriche contrastano con lo studio commissionato agli economisti di Kavala Capital dall’europarlamentare Leïla Chaibi. Secondo i calcoli elaborati da Federico Biagi e Martin Falk nel 2017, ad esempio, la digitalizzazione dal 2002 al 2010 avrebbe avuto un impatto positivo sull’occupazione. Secondo Biagi e Falk non è corretto affermare che l’introduzione delle cosiddette ICT (Information and Communication Technology) stia distruggendo posti di lavoro, in quanto le nuove tecnologie «sono sufficientemente neutre in termini di occupazione». Anche i modelli elaborati da Olha Fedirko della Taras Shevchenko National University di Kiev, in Ucraina, dimostrano che «l’e-commerce ha in generale un impatto netto positivo sull’occupazione».
Questi risultati non sono però completamente rassicuranti. Infatti, se è univoco l’accordo di molti ricercatori sul ruolo positivo svolto dai commerci digitali nello stimolare la trasformazione del mercato del lavoro, allo stesso modo questi studiosi concordano che l’impatto è positivo esclusivamente sui lavoratori «skilled», ovvero già qualificati e in grado di aggiornare le proprie competenze in base ai forti mutamenti provocati dalla digitalizzazione. Uno studio condotto in Svizzera nel 2019 mostra come, nonostante «l’impatto generale sia leggermente positivo», l’e-commerce abbia «effetti negativi sui lavoratori scarsamente qualificati», decisamente positivi invece quelli sui lavoratori di alto profilo. Alle stesse conclusioni arriva anche la ricerca di Olha Fedirko già citata, secondo cui «l’investimento nell’e-commerce è positivamente correlato con l’occupazione di lavoratori altamente qualificati e negativamente correlato con quella di lavoratori a bassa qualifica».
La conclusione è che, nonostante il giudizio sull’e-commerce non sia a senso unico all’interno della comunità accademica, anche laddove il commercio digitale viene considerato proficuo per l’occupazione, questo si verifica solo nel caso di lavoratori altamente specializzati. È ragionevole pensare, dunque, che la proliferazione dell’e-commerce vada di pari passo con una perdita di posti per lavoratori senza esperienza o manodopera non qualificata e una conseguente precarizzazione delle fasce più deboli della popolazione? La risposta non solo è affermativa, ma il problema era già stato ampiamente preso in considerazione dagli studiosi prima che si manifestasse con la violenza degli ultimi anni.
Nell’aprile 2008, quando ancora l’e-commerce non aveva registrato l’attuale esplosione, il dottor Sumanjeet Singh aveva pubblicato un articolo, dal titolo Impact of Internet and E-Commerce on the Labour Market, sull’Indian Journal of Industrial Relations. Singh riconosceva che già nel 2008 c’era il timore che che «la riduzione del numero di intermediari del personale addetto alle vendite a causa della diminuzione di supermercati e showroom avrebbe potuto ridurre l’occupazione in tutto il mondo». La previsione fatta nel paper dal ricercatore indiano appare tragica se riletta oggi: «Ci si attende che la categoria più colpita sia la manodopera non qualificata. È vero che il lavoro non qualificato è stato fortemente modificato nell’economia del commercio digitale. Ma Internet e il commercio elettronico, agevolando le imprese ad assumere lavoratori a domicilio su base contrattuale, potrebbero creare opportunità lavorative precarie».
Interinali, tra precariato e sindacati
È il caso di Amazon: il 50% dei posti di lavoro creati, secondo Chaibi, è temporaneo. Infatti, anche se Amazon genera nuovi posti di lavoro, si serve di un alto numero di lavoratori somministrati. Ovvero lavoratori con un contratto di somministrazione, stipulato con un’Agenzia per il lavoro, che prestano attività presso un’azienda utilizzatrice (in Italia sono in totale 600mila). Nel nostro paese Amazon, nel periodo da luglio a dicembre 2017, ha impiegato lavoratori interinali oltre i limiti quantitativi individuati dal contratto collettivo. A fronte di un limite mensile di 444 contratti di somministrazione attivabili, l’azienda ha superato di quasi tre volte tale limite, utilizzando in eccesso un totale di 1.308 contratti di lavoro in somministrazione. L’azienda è stata multata dall’Ispettorato nazionale del lavoro, gli interinali sono andati in tribunale per tentare di farsi assumere a tempo indeterminato, ma, alla fine dei giochi, l’azienda ha vinto la causa.
In diversi comunicati l’associazione che riunisce le Agenzie per il lavoro ha posto in evidenza la crescita notevole dei contratti di lavoro in somministrazione, confermata anche dai dati riguardanti l’ultimo trimestre del 2016 e i primi mesi del 2017, in cui si rileva un aumento del 18,5% dei lavoratori tramite agenzia rispetto al 2016. In questi comunicati si mette in risalto il fatto che crescono vertiginosamente i lavoratori interinali, facendo registrare nel 2017 un aumento annuo del 13%. Amazon è sicuramente un’azienda protagonista nell’aumento dei lavoratori in somministrazione. I sindacati italiani stanno fronteggiando evidenti difficoltà a intercettare e rapportarsi con i lavoratori Amazon in quanto, come riferito in uno studio di Maria Concetta Ambra e Marta d’Onofrio, «Amazon vieta espressamente ai propri manager di partecipare a ricerche o concedere interviste. Questo influisce anche sui lavoratori che subiscono pressioni e quindi sono restii a rispondere alle domande o ai questionari senza una ufficiale adesione da parte dei referenti aziendali». Le ricercatrici analizzano le strategie dei sindacati di fronte al fenomeno globale Amazon. Il percorso verso il riconoscimento dei sindacati è stato lungo e conflittuale. Il primo centro di distribuzione Amazon in Italia ha aperto i battenti nel 2011 a Castel San Giovanni in provincia di Piacenza. Gradualmente i sindacati, in primo luogo la Cgil Filt (che organizza i lavoratori nel settore dei trasporti), sono riusciti ad organizzare i lavoratori, anche attraverso episodi conflittuali come lo sciopero del Black Friday del novembre 2017. Le lotte sindacali hanno portato a un’organizzazione più strutturata dei rapporti tra lavoratori e sindacati. Dopo lo sciopero del 2017 e la vicenda degli interinali in eccesso rilevati dall’Ispettorato nazionale del lavoro, i sindacati della Cgil hanno ottenuto un accordo con la multinazionale a beneficio dei lavoratori del centro di Castel San Giovanni. «L’accordo riesce a regolare, per la prima volta, alcuni aspetti relativi all’organizzazione del lavoro e al trattamento economico, tra cui: la programmazione del calendario annuale e dei periodi di picco; la gestione della turnazione, specialmente quella notturna che diventa su base volontaria», scrivono Ambra e d’Onofrio.
La dialettica tra lavoratori e Amazon a Castel San Giovanni ha fatto da apripista per altri centri logistici. Ad esempio, viene inaugurato a maggio del 2018 uno “sportello Amazon” presso il magazzino di Passo Corese, aperto in provincia di Rieti nel 2017. Si tratta di uno sportello permanente per l’ascolto dei lavoratori Amazon. Se l’azienda non ascolta, i lavoratori provano a difendersi con le proprie armi. Bisogna comunque sottolineare come a iscriversi ai sindacati siano per la maggior parte i lavoratori diretti, in quanto gli interinali vengono intercettati con più difficoltà. In generale, l’azienda assume molti lavoratori, soprattutto nei periodi in cui il volume dei traffici tocca i picchi annuali: il Black Friday e il Natale. Tuttavia solo pochi di questi possono contare su un’assunzione a tempo indeterminato. La tendenza generale dell’azienda è l’assunzione di lavoratori interinali per il breve periodo di picco degli ordini online. Inoltre, la pandemia ha aggravato i problemi sociali dovuti alla modalità di lavoro precaria e alle condizioni di lavoro spesso inadeguate. I lavoratori nei centri di distribuzione Amazon non hanno mai smesso di lavorare, anzi l’azienda di Jeff Bezos ha retto bene al crollo delle borse mondiali, perdendo solamente il 5%.
Articolo di Edoardo Anziano, Giovanni Tiriticco