Le città d’arte così non funzionano, Venezia lo dimostra

La pandemia ha reso evidenti le problematiche di tutte le città d'arte

04/05/2021

Nuove rotte

Il 25 marzo il Consiglio dei ministri ha concordato ufficialmente di vietare  il passaggio delle Grandi Navi (maggiori di 40 mila tonnellata) a Venezia nel Canale della Giudecca e nel Bacino di San Marco. La decisione sembra storica ed è poi associata a un concorso d’idee per pianificare la soluzione che, a lungo termine, allontani del tutto le imbarcazioni anche da Porto Marghera, scelto come approdo temporaneo. Questa soluzione, insieme all’accertato funzionamento del MOSE dallo scorso ottobre, sembrano un vero cambio di paradigma rispetto un oramai insostenibile “modello Venezia”, caratterizzato da uno sfruttamento massivo del turismo e privo d’interesse verso l’abitabilità e la sostenibilità, ambientale e sociale. Queste criticità, comuni a diverse città d’arte italiane, a Venezia assumono livelli intollerabili e smuovono numerose azioni sul territorio. 

Il comitato NO GRANDI NAVI – LAGUNA BENE COMUNE è un gruppo di associazioni cittadine che da anni lottano per la totale estromissione del crocierismo dalla laguna, tra le principali fonti d’inquinamento della città, che infatti è la seconda più inquinata d’italia per le polveri sottili. Questo movimento ha ricevuto solo un mese fa più di 22.000 euro di multa dalla capitaneria di porto per una manifestazione del settembre 2017, quando alcuni attiviste e attivisti hanno affisso su una crociera ormeggiata uno striscione con scritto “Save the planet – save the lagoon. Stop climate chaos, stop cruise ships!”. Il gruppo riuscì a smuovere 10.000 persone quando, nel giugno del 2019, la nave da crociera MSC OPERA perse la rotta appena entrata nel canale della Giudecca scontrandosi contro la banchina di San Basilio. Già al tempo risuonava l’incompiutezza di un altro decreto che si prefiggeva di risolvere il problema delle grandi navi, il decreto Clini-Passera del 2013, atto a vietare il passaggio delle imbarcazioni di grande portata ma che si risolse in un nulla di fatto. NO GRANDI NAVI ha descritto la scelta presa lo scorso marzo dal nuovo governo Draghi come un traguardo importante, ma sa bene che la soluzione di Porto Marghera come terminal non è altro che un palliativo. Il comitato ha sottolineato la necessità di approvare un progetto definito al più presto, rispettoso dell’ambiente e delle norme vigenti, e soprattutto esterno alla laguna. Intanto, Zaia ha annunciato che la MSC ha ancora in programma il passaggio di due sue crociere in laguna nei prossimi mesi.

A smuovere le coscienze sono senz’altro state le immagini di una Venezia che, durante il lockdown, ha riacquistato una calma atipica: senza turisti, le calli venivano vissute dai cittadini e i canali riacquistavano il loro colore naturale. Una tranquillità in contrasto con i video e le foto che giravano la notte del 13 novembre 2019, quando il livello dell’acqua lagunare raggiunse i 187 cm, sommergendo buona parte della città e causando danni incalcolabili. La parola che riecheggiava tra le calli in quei giorni era una, quattro lettere: “MOSE”, sistema di paratoie mobili per bloccare l’effetto delle alte maree sempre più frequenti. Progettato e approvato nel 2002 ma entrato in funzione la prima volta solo 18 anni dopo, ha portato a innumerevoli inchieste di corruzione riguardanti la sua realizzazione e che mantengono agli arresti domiciliari, ancora oggi, l’ex presidente della regione Veneto e ex ministro Giancarlo Galan. Il MOSE – per il costo di 5.493 milioni di euro – sembra funzionare, ma la sua tecnologia è obsoleta già prima dell’inaugurazione e richiederà probabilmente continui interventi di manutenzione

Il modello Venezia

Se la pandemia da un lato ha significato per Venezia e i suoi cittadini il ritorno ad un’aria meno inquinata e un’acqua più pulita, che ha persino portato a marzo all’avvistamento di due delfini nel Canal Grande, e a dei ritmi di vita meno scanditi dalla folla oceanica di turisti, dall’altro ha enormemente pesato sulla sua economia. La città sull’acqua è una delle mete preferite in assoluto, e chiunque l’abbia visitata in un periodo di punta si ricorda della sensazione di  claustrofobia scaturita dal trovarsi in calli troppo strette schiacciati fra turisti che non capiscono quale flusso debbano seguire. Infatti, prima del Covid-19, erano dai 23 ai 30 milioni all’anno i turisti che sceglievano Venezia per le loro vacanze e i numeri erano in continuo aumento. Questo fenomeno ha portato negli anni ad una crescita dei business legati a questo settore e ad un parallelo spopolamento della città, la cui popolazione è scesa dai 175.000 cittadini del 1950 ai circa 50.000 del 2020. Le critiche sul “modello Venezia” erano presenti già da prima della pandemia, non solo per l’impatto ambientale e sociale che il turismo di massa provocava, ma anche perché la maggior parte dei visitatori non soggiornava abbastanza da portare un effettivo guadagno alle piccole attività. L’esempio paradigmatico del modello di turismo veneziano è quello dei passeggeri delle navi da crociera, che in decine di migliaia ogni settimana scendevano dalle imbarcazioni per visitare la città solo qualche ora, ma non mangiavano, non dormivano e non compravano quasi niente, intasandola senza contribuire alla sua economia. Chi invece decideva di restare a dormire poteva farlo, oltre che negli storici – e più cari – hotel della città, in uno degli 8.469 appartamenti prenotabili su Airbnb (rispetto a un totale di circa 40.000 appartamenti presenti nella città). La decisione dell’amministrazione veneziana di puntare tutto sul turismo ha infatti portato alla proliferazione di locazioni a breve termine senza una regolamentazione che invece era già stata implementata in altre città d’arte europee come Berlino, poiché altamente nociva per il tessuto sociale. Questo ha significato un incremento degli affitti per i residenti e una diminuzione delle case a disposizione per gli studenti universitari, una comunità che invece aiuta a combattere lo spopolamento della città e sostiene le piccole attività, ma che si trova spesso a vivere in appartamenti al piano terra, e quindi esposti all’acqua alta, o non ristrutturati, poiché i migliori vengono dati ai turisti.

L’insostenibilità di questo modello raramente è stata affrontata prima del Covid-19, e quando ciò è avvenuto, i risultati non sono stati quelli sperati. In un video conservato dall’AAMOD del 1973 si propone, in tono ironico, di risolvere tutto “in chiave turistica” e far diventare “Venezia un grande hotel galleggiante”. Le proposte, a cinquant’anni di distanza, non mutano: a fine 2019, il consiglio comunale aveva votato a favore di una tassa per i visitatori che variava a seconda della stagione e il sindaco Brugnaro è assolutamente intenzionato a installare dei tornelli per contenere il flusso turistico non appena la pandemia sarà conclusa, così da far diventare la città un vero e proprio parco dei divertimenti galleggiante. 

Un parco a tema abbandonato e il paradigma della città d’arte

Quando il Covid-19 è arrivato, i circa due terzi degli abitanti che sono impiegati nel settore turistico si sono trovati senza lavoro e, dato che difficilmente la città tornerà presto  ai ritmi pre-pandemici, la quantità di attività che sarà costretta a chiudere nel prossimo anno – o che l’ha già fatto – è superiore a quella di città meno strutturate sul business del turismo. Fra coloro che affittavano appartamenti ai turisti, alcuni si sono spostati sui gruppi di ricerca casa degli studenti, proponendo dei prezzi fin troppo alti per il mercato studentesco e che si sono gradualmente abbassati via via che la speranza per la imminente fine della pandemia si affievoliva. In più, Airbnb e l’università IUAV hanno avviato una collaborazione che permette all’università di far soggiornare in appartamenti – una volta destinati ai turisti – degli studenti con borsa di studio. Tuttavia, queste azioni non sono la prima spia di un allontanamento dal modello di turismo “mordi e fuggi”, ma una soluzione provvisoria in attesa di un ritorno alla “normalità”.

Quella che sembra invece essere un’opzione concreta per la ripartenza di Venezia e di altre città d’arte come Firenze è l’iniziativa portata avanti dai due sindaci di queste città. Luigi Brugnaro e Dario Nardella sono infatti i firmatari del documento “Città d’arte #nonmetterledaparte, un decalogo di proposte che ha l’obiettivo di fronteggiare l’impatto della pandemia su sul tessuto sociale di questi capoluoghi. Fra i punti vi è anche una proposta che i due sindaci vorrebbero venisse vagliata a livello nazionale e che riguarda gli affitti turistici brevi: Nardella e Brugnaro hanno in programma un tetto massimo di due appartamenti destinati all’affitto turistico, un numero limite di 90 giorni l’anno in cui si potrà affittare per brevi periodi e incentivi per coloro che lo fanno per periodi medio-lunghi. Chi non rispetterà le prime due condizioni dovrà, secondo questo documento, pagare più tasse, poiché “produce una concorrenza sleale nei confronti delle strutture alberghiere, che hanno un’incidenza delle imposte che supera in media il 50%, mentre gli appartamenti privati hanno solo il regime della cedolare secca al 21%”.

Il modello Venezia risulta quindi non un caso isolato, ma il paradigma della malagestione di molte altre città d’arte del territorio italiano, a cui è servita una pandemia globale per capire che un cambiamento era necessario. 

La resistenza dell’associazionismo 

Sui muri di Venezia, attaccati insieme ai cartelloni pubblicitari di eventi e mostre, si trovano dal 2017 dei poster con ammonizioni e fatti scientifici, con tanto di fonti a piè di pagina, come: “establishing a marine emission control area (ECA) in the Mediterranean would save 6000 lives every year” (creando una zona di controllo delle emissioni marine nel Mediterraneo si salverebbero 6000 vite ogni anno) o “Air pollution causes serious heart and lung diseases. In Venice we breathe fine particulates at levels up to 5x higher than W.H.O. guidelines” (l’inquinamento dell’aria causa serie malattie del cuore e dei polmoni. A Venezia respiriamo particolato fine a livelli fino a cinque volte superiori rispetto alle linee guida W.H.O.). Le locandine sono affisse da “We Are Here Venice”, un’associazione di studiose e studiosi – o semplici amanti della città – che, basandosi su ricerche, collabora con diverse istituzioni e organizza azioni per la salvaguardia della laguna con un approccio che tiene conto dei rapporti tra la natura e l’attività umana. “Venezia non è solo una delle città più belle del mondo, spesso banalizzata dal turismo di massa e mainstream, ma è una laguna dall’ecosistema complesso, basato particolarmente sull’alternarsi delle maree, sul incontro dell’acqua dolce con l’acqua salata del mare.” dice Margherita Scapin, stagista di WahV, “sono dinamismi che esistono da sempre, rispettati per molto tempo dagli abitanti lagunari, ma che oggi sono messi a dura prova su vari livelli. Per questo, soluzioni che non guardano alla salvaguardia di questa complessità non vanno e non andranno mai bene per la città. Il destino prossimo di Venezia funge da cartina tornasole per valutare gli effetti dell’attività umana sugli ecosistemi a livello globale, perché se qualcosa non viene fatto per difendere l’ecosistema umano e lagunare al più presto, la città potrebbe venir incontro a quella morte che in tanti hanno pronosticato.”

Le soluzioni, reali e che guardano lungo, vengono dai cittadini e dall’associazionismo impegnato in prima linea. Dal giorno dopo l’acqua alta del novembre 2019, migliaia di volontari e volontarie sono stati coordinati proprio da un gruppo di ragazzi e ragazze che vivono Venezia quotidianamente: Venice Calls. Associazione nata nel 2018, è riuscita in occasione dell’emergenza a strutturare veri e propri gruppi d’azione composti da giovani del luogo e fuorisede per ripulire le calli dai rifiuti portati dalla marea. “Qualche mese dopo l’emergenza abbiamo contribuito a creare un piano di risposta all’acqua alta, nel tentativo di portare aiuto ai cittadini più esposti al fenomeno tramite una rete di associazioni e realtà veneziane. Da quando abbiamo mosso i primi passi nel maggio 2018” ci raccontano “ispiriamo le nostre azioni ai 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile e guardiamo a Venezia non solo per la sua bellezza, ma per la sua vivibilità come città resiliente, termometro dei cambiamenti del mondo. Tra le azioni, che vanno incrementando nel corso degli anni, ci sono le attività di clean-up e monitoraggio delle plastiche in Laguna, la rimozione dei graffiti, la consegna di pacchi alimentari, ma anche serate di musica e l’organizzazione di conferenze per informare e coinvolgere i cittadini nella risoluzione dei problemi della città. Quest’anno organizzeremo per la terza volta consecutiva l’evento locale del Climathon Venice: concorso per l’elaborazione di progetti e idee innovative per rispondere alle sfide ambientali. Suddivisi in gruppi organizzativi e di coordinamento sulle risorse disponibili, abbiamo solo un motto: Venezia chiama!”

Articolo di Jacopo Babuscio e Ginevra Falciani Ha collaborato Luca Siracusa