Le ostilità tra Serbia e Kosovo possono compromettere la stabilità europea

Dai Mondiali in Qatar alla disputa delle targhe, un nuovo conflitto (sfiorato) nella polveriera d’Europa

28/01/2023

Il mondiale in Qatar appena terminato è stato uno dei più discussi degli ultimi anni, soprattutto per ragioni socio-politiche. Tra queste rientra sicuramente la dura provocazione della Serbia avvenuta prima della partita con il Brasile. Negli spogliatoi infatti è apparsa una bandiera raffigurante la mappa del Kosovo sulla quale è stato scritto in serbo «nessuna resa», mandando un chiaro messaggio al governo di Pristina dopo le tensioni avvenute negli ultimi mesi.

Tweet di Petrit Selimi, ex Ministro degli Esteri del Kosovo

Mentre la FIFA è rimasta in silenzio, non è tardata ad arrivare la risposta del governo kosovaro, che ha chiesto di punire la provocazione presentando ufficialmente un reclamo al massimo organismo del calcio. Alla fine la FIFA ha approvato la richiesta, imponendo una multa di 20 mila franchi svizzeri come sanzione all’atto denigratorio. La vicenda del Qatar è stata solo l’ennesima scintilla in uno scontro infinito tra i due stati, che non riesce a trovare uno spiraglio di pace nemmeno dopo gli sforzi diplomatici e gli accordi stipulati tra i vertici europei negli ultimi anni. 

Le radici del conflitto

Normalmente, nelle carte geografiche un Paese è separato da un altro sulla base di linee nere ben definite. Il Kosovo, in molte mappe, queste linee non le ha, perché non tutti sono d’accordo con la sua esistenza. La crisi recente si inserisce all’interno di un ciclo di periodiche tensioni che si ripropongono con decrescente intensità dal 1999, in un’area considerata da molti una bomba ad orologeria. Le sue origini però risalgono molti anni prima.

E’ il 4 maggio 1980. Muore Josip Broz Tito, dopo una dittatura durata quasi quarant’anni, e con lui il progetto di una Jugoslavia unita. Vengono a galla problemi economici, insorgono i nazionalismi, in una decina di anni si susseguono altrettanti governi diversi. Un rapporto della Cia del 1990 (due anni prima dello scoppio della guerra in Bosnia) preannuncia lo sfaldamento della Jugoslavia entro il 1992. E così sarà. Sulla scia delle rivendicazioni di indipendenza prima da parte della Slovenia e della Croazia, e poi della Bosnia, anche i kosovari scalpitano per ottenere uno status non solo autonomo, ma a tutti gli effetti indipendente. Febbraio 1998: scoppia il conflitto armato in Kosovo, che vede contrapporsi le truppe federali jugoslave e il movimento di indipendenza del Kosovo (UÇK). La guerra si concluderà grazie agli interventi delle forze internazionali, prima tra tutte la Nato, con l’Operazione Allied Force. Belgrado viene bombardata, gli aerei della Nato infliggono alla Serbia 100 miliardi di dollari di danni, uccidono per errore almeno 500 civili e ne feriscono a migliaia. Non sorprende che gli americani in Kosovo vengano considerati liberatori della patria e che a Pristina venga eretta una statua di Bill Clinton, «eroe del 1999». 

La storica dichiarazione d’indipendenza arriva nel 2008, dopo decenni di rivendicazioni e ribellioni, una guerra durata un anno e mezzo (febbraio 1998-giugno 1999) e terminata grazie alla mediazione delle forze internazionali, che ancora oggi sono colonna vertebrale del Paese. Al 2021 sono 98 i Paesi membri dell’Onu che hanno riconosciuto il neo Stato, tra cui Usa e una larga maggioranza di membri dell’Unione Europea. A non riconoscerlo invece sono un centinaio di nazioni, tra cui Russia, Cina e Spagna e, naturalmente, la Serbia.

Nel 2013 l’Accordo di Bruxelles porta alla luce quello che all’epoca venne definito da Wolfgang Petritsch e Christophe Solioz (rispettivamente Alto Rappresentante in Bosnia Erzegovina tra il 1999 e il 2002 e segretario generale del Center for European Integration Strategies) un successo della diplomazia europea, nonché l’unica scelta pragmatica che Belgrado e Pristina potevano fare. La parte fondamentale dell’accordo serbo-kosovaro, articolato in 15 punti, «prevede la nascita di una associazione dei comuni a maggioranza serba nel Kosovo settentrionale, associazione che godrà di una vasta autonomia che va dai poteri di polizia all’amministrazione della giustizia, tuttavia nell’ambito delle strutture nazionali del Kosovo», come cita un dossier dell’aprile 2013 della Camera dei Deputati del nostro Paese.

La crisi attuale

Il Kosovo è un paese a maggioranza albanese, ma nel nord risiedono tuttora circa 100.000 serbi, di cui la metà si stima risieda proprio al confine con la Serbia nel nord del paese. La convivenza tra le due comunità però non è mai stata così florida. Ancora oggi infatti né Belgrado né queste comunità hanno mai riconosciuto il Kosovo come paese indipendente, nonostante la dichiarazione del 2008.

Le tensioni quindi sono sempre pronte a riaccendersi. Come è successo lo scorso agosto, quando si è aperta una nuova crisi provocata da una banale disputa sulle targhe automobilistiche, sfociata però in una spinosa questione identitaria. In sostanza, il governo di Pristina ha chiesto che anche i Serbi-kosovari abbandonassero le targhe di Belgrado, sostituendole con quelle della «Repubblica del Kosovo». Il Kosovo voleva in questo modo rivendicare la sua sovranità, mentre i cittadini serbi hanno percepito il provvedimento come una violazione della propria identità, rompendo di nuovo il fragilissimo equilibrio stabilito dagli accordi di Bruxelles. 

Questa imposizione ha provocato lo scorso novembre le dimissioni di massa di circa 600 poliziotti, magistrati e impiegati giudiziari di origine serba, accentuando l’instabilità all’interno del paese. Non è bastata nemmeno la mediazione di Stati Uniti ed Europa di fine novembre a placare gli animi. Il 23 Novembre infatti, Josep Borrell, alto rappresentante dell’UE, per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha pubblicato un tweet in cui dichiarava che i due paesi avevano hanno concordato misure per evitare un’ulteriore escalation.

Solo due settimane dopo però, il 10 dicembre, alcune comunità serbe hanno eretto dei blocchi stradali nella regione di Mitrovica, a seguito dell’arresto di un ex agente di polizia serbo, sospettato di aver attaccato dei membri delle forze di sicurezza kosovare. In risposta alla richiesta del primo ministro di Pristina Albin Kurti di rimuovere i blocchi, migliaia di persone della comunità serba sono scese in piazza, accusandolo di minacciare apertamente la minoranza serba. Il primo ministro ha chiesto quindi alle forze della NATO schierate nella regione nell’ambito del contingente KFOR (Kosovo Force) di rimuovere le barricate. Anche il presidente serbo Vucic si è rivolto alla NATO, denunciando le azioni del Kosovo come un attacco personale alla comunità serba e chiedendo il permesso di schierare le proprie truppe al confine, preparando di fatto il proprio esercito all’eventuale conflitto

La tensione si è intensificata ulteriormente quando il premier Albin Kurti il 15 Dicembre ha presentato domanda ufficiale di adesione all’Unione Europea, proseguendo così l’iter avviato nel 2013 con i negoziati ASA. Un percorso che dipende in maniera imprescindibile dalla normalizzazione dei rapporti con la Serbia, che ovviamente non ha preso positivamente la notizia dell’adesione del Kosovo all’UE. Per il presidente serbo Vucic infatti, la domanda di adesione all’UE, oltre a calpestare l’accordo di Washington, viola a suo dire l’articolo 49 del Trattato dell’Unione, in cui si dice che condizione per chiedere l’ammissione alla Ue è essere uno stato europeo universalmente riconosciuto, e non è il caso del Kosovo.

L’escalation è peggiorata proprio durante il Natale, quando la Serbia si è detta pronta al conflitto armato in caso di necessità. «Prenderemo tutte le misure necessarie per proteggere le persone e il paese della Serbia», ha dichiarato Vucic. Dopo una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, Belgrado ha messo quindi l’esercito in stato di pre allerta, col presidente serbo che ha promesso in televisione di tentare «per un milione di volte di preservare la pace» prima di dare un ordine di intervento alle forze armate.

Alla fine, dopo quasi tre settimane di ostilità, la mattina del 29 dicembre è iniziato lo smantellamento delle barricate. Come riportato dalle principali testate serbe, la de-escalation è stata raggiunta grazie alla mediazione tra le organizzazioni internazionali e il presidente serbo Aleksandar Vučić, nel quale si garantiva che nessuno dei serbi-kosovari impegnati nelle barricate di queste settimane sarebbe stato arrestato o messo sotto indagine, oltre al rilascio dell’ex poliziotto serbo arrestato.

Una guerra fredda in miniatura

In vent’anni in Kosovo sono stati fatti enormi passi avanti. Ci tiene a sottolinearlo Korab Lumi, 29 anni, segretario d’azienda, costretto a scappare in Albania allo scoppio della guerra come rifugiato kosovaro insieme alla sua famiglia. I rapporti tra serbi e kosovari sono migliorati, «l’odio etnico non è più ai livelli medievali di una volta». Basta pensare all’autostrada che oggi permette di entrare in Kosovo direttamente dalla Serbia. Pare cosa da poco, ma se si pensa ai rapporti tra i due Paesi a inizio millennio è un accenno di progresso. Eppure con l’escalation delle tensioni a partire da luglio sono emerse accuse da parte della comunità dei serbi del Nord del Kosovo che imputano al presidente Kurti di incrementare la politica di pregiudizi nei confronti dei serbi residenti nel Nord del Kosovo, rovesciando i ruoli tradizionalmente associati ad albanesi e serbi (perseguitati gli uni, persecutori gli altri), dalle quali Kurti ha subito preso le distanze. Tim Judah, in un articolo per il media britannico Unherd ha riportato le parole di Marko Jaksic, avvocato e attivista di Mitrovica, secondo cui il presidente kosovaro «si starebbe comportando come Milosevic negli anni ‘90». 

«Una paura di fondo sussiste lo stesso da entrambe le parti», ammette Korab. «Si tratta di una sorta di guerra fredda in miniatura. Il pericolo c’è sempre, ma remoto rispetto a una volta. I due Paesi si provocano, ma il loro è un dialogo costantemente mediato dall’UE. Le forze internazionali presenti sul territorio (si pensi alla missione Nato KFOR, ndr) non permetterebbero mai l’esplosione di un conflitto». Non a caso da quando è stata dichiarata l’indipendenza il Kosovo costituisce una specie di protettorato euro-atlantico, dove gli Stati Uniti sono il principale ente finanziatore e la NATO gioca un ruolo fondamentale per la difesa militare. In più entrambi i Paesi concorrono ad un obiettivo comune: entrare nell’UE. 

Ma lo stato d’allerta nei Balcani non è mai troppo. «Mio padre diceva che ai tempi della guerra in Bosnia nessuno se lo sarebbe aspettato. Eppure è successo». 

L’ipotesi del diversivo

Alla fine, nonostante le numerose minacce, tensioni e provocazioni l’ennesimo conflitto armato resta oggi improbabile. Entrambi gli stati non hanno la forza e nemmeno l’intenzione di intraprendere un conflitto armato, così come la NATO non può permettere ulteriori instabilità tra due Paesi che in teoria vorrebbe integrare.

Il motivo per cui la Serbia avrebbe alimentato questa tensione, secondo il Kosovo, ha a che fare con la Russia e la sua invasione dell’Ucraina. Ad aprire a questa ipotesi è stato il vice primo ministro di Pristina, Besnik Bislimi, che in un programma radiofonico britannico a fine dicembre ha parlato di una «tendenza della Russia a deviare o distrarre l’attenzione dall’Ucraina aprendo nuove zone del paese».Anche il primo ministro Kurti si è espresso a riguardo, affermando che la vera preoccupazione dell’Occidente sono i legami di Belgrado con Mosca, che potrebbero creare ulteriori complicazioni nella missione di pace in corso in Ucraina. 

Le recenti difficoltà della Russia nel conflitto infatti, hanno messo in allerta il Cremlino, che secondo alcuni potrebbe esternalizzare la campagna bellica proprio nei Balcani, dove troverebbe le porte aperte degli “amici” Serbi.

Sospetti che sembrano supportati anche dalle parole del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, che ha parlato così alla stampa riguardo la crisi in Kosovo: «Abbiamo relazioni alleate, storiche e spirituali molto strette con la Serbia […] la Russia sta seguendo molto attentamente ciò che sta accadendo e come i diritti dei serbi siano assicurati», sottolineando inoltre di sostenere Belgrado nelle azioni che intende intraprendere.

Le parole del portavoce Peskov, arrivate nei giorni più tesi al confine, hanno messo in pre-allarme USA e UE, che a tal proposito, in una dichiarazione congiunta, hanno chiesto la massima moderazione tra Serbia e Kosovo, per allentare la tensione e ridurre immediatamente l’escalation. La tregua è stata raggiunta mettendo fine alla disputa sulle targhe e con il rilascio dell’ex agente arrestato, chiudendo, per ora, questo pericoloso gioco delle parti

Il Kosovo però sospetta comunque che sia proprio la Russia a fare leva sulle ostilità incessanti con la Serbia, per mettere ancora più in difficoltà l’Occidente, sia a livello diplomatico che militare, e costringendo di fatto la NATO e l’UE ad intervenire su due fronti particolarmente delicati nella cosiddetta “polveriera d’Europa”. Le tensioni oggi restano, e vengono costantemente monitorate, ma la realtà dei fatti è che, aldilà di strategie mediatiche, provocazioni e presunti complotti, queste tensioni siano legate per lo più a sviluppi diplomatici piuttosto che a un fantomatico appoggio alla Russia o a un reale scontro tra Serbia e Kosovo. La tesi più accreditata infatti sembra quella di un possibile accordo da raggiungere entro la primavera 2023, sulla base del cosiddetto piano franco-tedesco, che garantirebbe un sostanziale riconoscimento della sovranità del Kosovo, aprendo la strada al riconoscimento da parte di altri Stati e all’ingresso del paese in diverse organizzazioni internazionali. Un accordo che ovviamente la Serbia non approva e che può spiegare le azioni dei serbi-kosovari nelle ultime settimane, parte di una strategia voluta da Belgrado per alzare la tensione e congelare la situazione.

A oggi però, le ripetute visite di rappresentanti americani ed europei a Belgrado e Pristina, lasciano intendere che le organizzazioni internazionali dell’Occidente vogliano trovare un accordo nel tentativo di avvicinare il prima possibile le parti, cercando di smorzare così anche le teorie di un complotto con la Russia.

Proprio in questi giorni infatti si sta intensificando il processo di normalizzazione dei rapporti. Il rappresentante speciale UE per il dialogo tra Belgrado e Pristina, Miroslav Lajcak, ha incontrato il premier kosovaro Albin Kurti e il presidente serbo Aleksandar Vucic nell’ambito di nell’ambito di negoziati che coinvolgono anche il rappresentante speciale USA e le delegazioni francese, tedesca e italiana. Dalle prime indiscrezioni, le due parti sembrano propense ad accettare le rispettive integrità territoriali sulla base di un accordo: la Serbia smetterebbe di ostacolare l’ingresso del Kosovo nelle Nazioni Unite, in cambio della creazione dell’Associazione dei comuni a maggioranza serba in Kosovo, prevista dagli accordi di Bruxelles del 2013, ma mai realizzata.

Una proposta che suona come un ultimatum per la Serbia, visto che aprirebbe un canale preferenziale nel processo di integrazione in UE; ma il presidente serbo è più preoccupato delle conseguenze di un eventuale rifiuto della proposta, ovvero: interruzione del processo di integrazione, ritiro di tutti gli investitori occidentali e isolamento politico del paese. Vucic però sa bene che non può rinunciare all’UE, che è il principale investitore e partner commerciale con oltre il 63% degli investimenti diretti stranieri provenienti da paesi membri.

Nonostante l’alleanza economica, quello che preoccupa l’Occidente è lo stretto rapporto politico di Belgrado con la Russia. Un ambivalenza politica evidenziata anche dal fatto che la Serbia è l’unico paese europeo insieme alla Bielorussia a non aver sanzionato Mosca ed ha sempre contato sull’appoggio del Cremlino per contrastare l’indipendenza del Kosovo. Questo è il principale motivo per cui l’Europa vuole siglare con urgenza gli accordi che permetterebbero di calmare le acque in Kosovo a svantaggio della Russia, che pur se non direttamente coinvolta, è il principale beneficiario delle tensioni balcaniche.

Articolo di Francesco Alopo e Sofia Sossai