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L’esodo
Ep.4
di Adriano Bordoni
Il cellulare m’è squillato poco dopo le tre del quinto giorno che ero a Berlino.
Bruno era partito la mattina prima, e la sera non era tornato. Vai a vedere che quel cuore da sei chili che portava nel petto nascondeva davvero la fiamma del grande amatore.
+49 – 40 e cifre a seguire, non era un numero italiano.
Era probabile fosse tedesco, magari l’hotel, o magari Bruno mi chiamava dalla sua nuova casa per raccontare della donna della vita che aveva trovato tramite un’app per scopare aperta per sbaglio bazzicando su PornHub.
Oltre la cornetta m’ha risposto una voce in un inglese delicato: polizia di Amburgo, parlavano con Andrea Fregoli?
La prima reazione è un sussulto. Davanti agli occhi mi si è acceso e spento il flash di Bruno un po’ gonfio, appena sconfezionato da un sacco di plastica nero vomitato fuori dai loculi di un obitorio.
Non ho trovato il coraggio di rispondergli subito di sì, e ho domandato il perché gli servisse saperlo.
Un muro di gomma. Con la stessa voce di prima, che a sentirla uguale pareva quasi una registrazione, m’hanno chiesto di nuovo se stessero parlando con Andrea Fregoli.
Mi sono arreso a farmi comunicare quello che fosse: parlavano con me. Gli confermavo pure di essere il nipote di Bruno Fregoli, e che la loro descrizione fisica di lui era abbastanza simile a quella che avrei dato io. Ero la persona giusta.
Dall’altra parte l’agente m’ha detto di chiamarsi Serafin qualcosa, e che quella mattina avevano trovato mio zio in una stanza d’hotel.
Parole testuali, lingua a parte.
Ha aspettato due secondi, il tempo che il cuore finisse d’esplodermi nel petto, e poi ha aggiunto che Bruno stava bene. Però era in custodia.
Ho registrato le ultime parole con un attimo di ritardo. Non ero sicuro d’aver capito bene e gli ho domandato se avesse potuto ripetere.
Un of course cortesissimo. Quella mattina, una donna delle pulizie di un hotel di quinta categoria dalle parti del porto aveva trovato Bruno legato al letto d’una stanza. Era nudo, bendato e imbavagliato, e stava riverso sulle lenzuola che si agitava e contorceva chissà da quanto.
L’ho interrotto. Mi confermava che Bruno era vivo?
Sì, stava bene, solo che era in custodia della polizia, come m’aveva già detto prima.
Ho represso una bestemmia.
Ciò che quel coglione m’aveva detto prima, per giunta come apertura di conversazione, era che quella mattina avevano trovato Bruno in una stanza d’hotel, e non che l’avevano fermato.
Trovato in una stanza d’hotel. Magari m’aveva rovinato una dieta prolungata e precoce di Law & Order, ma mi risultava che la polizia si prendesse la briga di comunicare il ritrovamento in una stanza d’hotel di due sole tipologie di oggetti: effetti personali e cadaveri. E Bruno non era una valigia.
Quando gliel’ho detto, Serafin è scattato sulla difensiva. Ha preso a chiamarmi Sir e m’ha detto tutto orgoglioso che lui l’aveva specificato che Bruno si trovava in custodia e che stava bene. Se io non l’avevo ascoltato, beh, quelli non erano fatti suoi.
Serafin era un coglione, nota per il futuro. Non gli veniva in mente che l’ordine in cui decideva di dire le cose potesse avere una qualche importanza, ed io non avevo voglia di spiegarglielo.
Contavo che un giorno ci sarebbe arrivato per conto proprio. Metti una chiamata dall’ospedale in piena notte e la comunicazione che la macchina su cui viaggiava il figlio con quattro amici s’era avvolta in un’acrobazia circense contro un palo della luce. Metti che gli dicano che ci stanno dei cadaveri da identificare perché alcuni dei ragazzi non avevano il documento, e quindi servirebbero i nomi degli amici con cui il figlio di Serafin quella sera aveva pensato bene di farsi un giro in macchina sulle strade della Bassa Sassonia.
Metti che alla fine di questa grande opera di distrazione, in maniera un po’ svagata ed en passant, gli dicano pure che il figlio comunque sta bene. Certo, è ancora un po’ scosso, ma lui può andarlo a vedere quando vuole.
Caro Serafin. L’avrei voluto guardare negli occhi mentre il centralinista gli faceva notare che lui glielo aveva detto che il figlio comunque stava bene. Was not his fault, se Serafin aveva deciso di smettere d’ascoltare appena gli avevano detto che c’erano dei cadaveri.
Ho rinunciato a mandarlo a fanculo, era inutile. Poi, Bruno era vivo. Alla fine, era l’unica cosa che contava.
Ho detto a Serafin mi doveva scusare se ero stato aggressivo, ma la notizia mi aveva scosso. Sarebbe stato così cortese da continuare a spiegarmi cos’era successo?
I understand, Sir. No problem, Sir. E ha ricominciato.
La donna delle pulizie aveva detto a Bruno che lo avrebbe liberato e s’era avvicinata a togliergli il bavaglio, ma lui aveva preso a contorcersi peggio di prima, a scuotere la testa e a mugugnare.
Libero dal bavaglio, s’era messo ad urlarle di lasciarlo da solo, che se lo toccava l’avrebbe ammazzata e cose del genere, così quella aveva chiamato la polizia.
Dal momento della telefonata all’arrivo di una volante, Bruno non aveva mai smesso di urlare. Un delirio continuativo e multilinguistico di italiano e tedesco, bestemmie come congiunzioni e frasi sconnesse mentre si divincolava sul letto: s’era agitato tanto da aprirsi delle piaghe sotto le legature dei polsi.
La cosa era peggiorata ancora all’arrivo della polizia. Bruno non s’era voluto far vedere in quello stato da una persona sola, figuriamoci se voleva farlo con tre, per giunta obbligati a stendere un verbale del tutto.
L’avevano dovuto immobilizzare in due per sfilarlo dai legacci, e Bruno era passato alle minacce fisiche. Serafin m’ha detto che i colleghi s’erano sentiti minacciati, ed erano stati costretti ad usare la forza.
Oltre l’immagine più o meno drammatica di Bruno con un braccio piegato dietro la schiena e tenuto con la faccia nel materasso da un’agente in ginocchio sulla sua schiena, Serafin m’ha fatto sorridere con quel che aveva scelto di dire. Tre agenti del corpo di polizia s’erano sentiti minacciati dalle parole di un uomo di cento chili trovato già immobilizzato sopra un letto. Gli abitanti di Amburgo potevano sentirsi al sicuro.
Serafin comunque ci ha tenuto a dirmi che ammanettare Bruno alla fine era servito a farlo calmare, come s’aspettasse gli dicessi che avevano fatto bene. Mica a caso, dopo un attimo ha aggiunto che dopo, Bruno aveva persino accettato il cambio d’abiti che quelli dell’hotel erano riusciti a combinare frugando tra la roba dimenticata nelle stanze dagli altri clienti.
Ho detto a Serafin che avevo capito la situazione, in cosa potevo essergli utile?
Look Sir, m’ha fatto lui prima di prendere un sospiro profondo, we think we understand what happened.
M’ha tirato fuori un altro sorriso. Ora voleva farmi credere d’essere uno sul pezzo.
Pure se Bruno aveva aperto bocca solo per fornire il suo nome e poi il mio contatto, Serafin ed i suoi colleghi l’avevano capito che era inoffensivo, e avevano una teoria abbastanza solida sul come fosse finito nello stato in cui l’avevano trovato in quella camera.
Gli elenchi dell’hotel davano una mano. Bruno s’era presentato là la sera prima, registrazione con tessera sanitaria: camera per due persone, oltre a lui una donna. Lei non aveva fornito documenti; non era legale, ma alla reception era andata bene così.
Di lì in avanti anche io potevo indovinare ogni fenomeno occorso nel corpo di Bruno fino al momento in cui si era ritrovato legato sul letto a veder fuggire quella donna col suo zaino e i suoi vestiti, l’altalena della sua pressione sanguigna mentre passava dalla tumescenza genitale alla rabbia più esasperata. Gli avevano rubato persino i vestiti.
Mi immaginavo quella donna chinata per terra a girar la stanza per raccogliere gli abiti usati da Bruno, mutande su una sedia e camicia per terra.
Avrà cestinato il tutto al primo secchione. La trama non era più quella della rapina, ma dell’umiliazione intenzionale. Chissà a quali discussioni l’avrà costretta Bruno nelle ore precedenti.
Tutto questo Serafin ed i suoi colleghi lo avevano ricostruito dai registri degli ospiti e dall’unica telecamera disponibile nell’hotel, due fotogrammi di una donna che attraversa la hall poco prima di mezzanotte, occhiali da sole, faccia in terra e zaino in spalla.
Bruno aveva tutti gli estremi per sporgere denuncia, ma non voleva parlare con nessuno. Comunque, m’ha detto Serafin, la situazione andava sbloccata.
Il fermo di Bruno era identificativo: fatta eccezione per la tessera sanitaria che aveva fornito alla registrazione in hotel, scaduta e comunque non valida per l’identificazione, non aveva con sé altri documenti. Potevano tenerlo così al massimo ventiquattr’ore, poi avrebbero dovuto rilasciarlo. Certo non potevano farlo se Bruno non aveva documenti o denaro per tornare a casa. In compenso, potevo andarlo a prendere io. Una firma su un registro, e mi avrebbero restituito Bruno come fosse una caparra.
E poi, magari io riuscivo a convincerlo a denunciare la rapina.
Ho detto a Serafin che mi sarei organizzato. Stava bene: potevo richiamare quel numero e chiedere di lui, officer Keel. S’è raccomandato di non metterci troppo per dargli notizie.
Talk to you soon, Sir.
Thanks, Serafin.
Eravamo già ottimi amici.
Treni Berlino-Amburgo in giornata: settanta euro di biglietto precisi qualunque fosse l’ora cui decidessi di partire, pure se da anteprima Google era scritto dodici e novanta. Li avrei messi in conto a Bruno. Meglio perdere quelli che il volo.
Tra l’aiuola al castello di Charlottensburg su cui m’aveva fulminato Serafin e l’hotel c’erano nove chilometri. La bicicletta era presentabile: venti, venticinque minuti, non di più. Quindici per convincere chiunque fosse alla hall a darmi le chiavi della stanza di Bruno, recuperare un cambio d’abiti per lui e per me, riconsegnare la bici, sciacquarmi la faccia.
Tratta hotel-Berlino centrale: undici minuti di trasporto pubblico, d’accordo con Maps. Il costo del biglietto del treno valeva da lezione: meglio non fidarsi di Google. Ho stimato venticinque minuti.
In totale, un’ora e dieci da lì, sarei arrivato in stazione alle quattro e quindici. C’era un treno venti minuti più tardi.
In hotel non hanno fatto storie. Bruno aveva una prenotazione unica per entrambi e m’è bastato dire che lui era ancora fuori e mi serviva rientrare in stanza.
Nel gran mare d’abiti della sua valigia, non sono comunque riuscito a trovargli una felpa. In compenso ho scovato la sua sciarpa, piegata sul termosifone in bagno come fosse un asciugamano. Sarebbe andata bene comunque, era abbastanza grande affinché perfino lui riuscisse ad avvolgercisi.
Venti minuti più tardi stavo arrivando in stazione.
Vedendola comparire all’orizzonte, ho sorriso di quanto quel posto somigliasse ad una presa in giro. Un altro blocco di vetro sfavillante: a Bruno sarebbe piaciuta da impazzire.
Ho trovato il binario e sono scivolato su una panchina. Mezz’ora alla partenza, potevo tirare il fiato. E richiamare Serafin.
Era felice stessi arrivando. M’ha detto proprio così.
La stazione di polizia si chiamava Davidwache. Ha pronunciato il nome seppellendo l’accento inglese sotto la violenza del tedesco. Gli ho chiesto di ripetere, e Serafin m’ha detto divertito che non avrei avuto problemi a trovarla: bastava cercare Hamburg police station e poi David, like the name, il primo suggerimento di ricerca era sicuramente quello giusto.
Sankt Pauli quarter, by the way.
Quello della squadra di calcio? Serafin ha annuito entusiasta, e m’ha ripetuto che non mi potevo sbagliare.
Ormai m’aveva incuriosito. Ho finito di salutarlo e mi sono messo a cercare la sua stazione di polizia.
Quattro stelle virgola tre nelle recensioni di Maps.
Raffinati poliziotti che mantengono sempre la calma e rispondono alle domande fastidiose in modo amichevole e cordiale, scrive Rosemarie, navigata local guide dalle 113 recensioni alle spalle.
Non c’è limite ai passatempi che la gente riesce a inventarsi.
Oltre quella di Rosemarie, un altro centinaio di opinioni di estimatori entusiasti. Per molti di loro, per qualche motivo, quella stazione era la più famosa di tutta la Germania.
Wikipedia m’ha dato lumi: il palazzo era comparso in uno sfacelo di film e serie TV, e pure Paul McCartney ci aveva passato una notte.
Vedi le coincidenze.
Stava a quaranta minuti a piedi dalla stazione ferroviaria, avrei camminato. Già che Bruno m’aveva costretto a raggiungerlo fin lì, potevo pure permettermi un giro turistico della città.
Alla fine, pure il commissariato dove l’avevano rinchiuso somigliava più a un’attrazione turistica che a una stazione della polizia.
La stazione centrale di Amburgo era un enorme capannone di ferro sponsorizzato dalla Philips, lettere luminose e giganti appese su di una parete di vetro.
Non m’è piaciuta, né scommettevo potesse piacere a Bruno.
Misurare con i suoi occhi ogni cosa che mi passava accanto per sentirmelo più vicino: ho perso il conto delle volte in cui c’ero già cascato, quel pomeriggio. Un gioco tenero in maniera stucchevole, cortese eredità del trauma di averlo creduto morto per una trentina di secondi.
Fanculo a Serafin e alla sua stazione di polizia da Squadra Speciale Cobra 11.
Quando l’ho raggiunta, Amburgo era una macchia deliziosa che scivolava nelle prime luci miele del tardo pomeriggio, una trama di vie gonfie di gente che s’affollava a scattare foto alle case impilate in mezzo ai canali.
Avrei voluto accordarmi pure io ad una famigliola felice, ma avevo un pacco da ritirare. Ho lasciato alle spalle la città e i turisti appena sputati fuori dal Burger King dietro l’angolo e mi sono infilato in mezzo una parata di Mercedes parcheggiate davanti alla porta del commissariato.
Dentro, ho chiesto di Bruno e Serafin.
Per il primo dovevo aspettare, il secondo me l’hanno portato subito: un nano muscolosissimo di mezza età, fasciato stretto in un’uniforme blu.
Un altro esemplare della razza superiore pienamente riuscito; me l’aspettavo un po’ diverso.
Serafin m’ha stritolato la mano, m’ha ringraziato per essere arrivato tanto in fretta e m’ha assestato una pacca sulla spalla.
Per arrivarci s’è quasi dovuto mettere in punta di piedi.
Se solo avesse avuto idea del suo potenziale comico.
Archiviata la pratica necessaria del contatto fisico, Serafin c’ha tenuto a sapere se avessi avuto difficoltà a trovarli. Ovviamente no, data la loro fama. M’ha risposto con un sorriso, avevo superato la prova: m’accompagnava subito da mio zio.
Ho seguito i suoi passetti ravvicinati e nevrotici lungo una serie di svolte per un corridoio bianco fino ad una porta con la finestrella in vetro.
Dietro, Bruno stava steso su una branda con le mani sotto la testa, ricoperto dalle spalle fin quasi alle ginocchia da una camicia a fiori che sarebbe calzata larga pure al David di Michelangelo.
Serafin ha girato una chiave nella toppa.
See what you can get out of him. Good luck.
Articolo di Adriano Bordoni