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L’esodo
Ep.5
di Adriano Bordoni
«Allora?»
Bruno ha alzato gli occhi per un attimo solo. M’ha guardato come avessi deciso di irrompergli in camera alle tre del pomeriggio con l’unico proposito di svegliarlo.
Nel nostro cifrario, la richiesta di levarmi dal cazzo.
Mi sarebbe piaciuto poterlo accontentare, peccato non fossimo in hotel.
«Ao?»
Una mano strofinata sulla fronte e una bestemmia appena sussurrata.
Una reazione quasi impercettibile, comunque una reazione: il terreno si poteva coltivare.
Mentre ci pensavo, m’è quasi venuto da ridere.
Ventitré anni che conoscevo Bruno e mio padre, dodici mesi e passa che sopportavo le loro discussioni rabbiose. Fiumi di parole celebrative del nulla e commemorazioni dell’io-io-io in sale vuote, un compendio di ritardi emotivi e monologhi nati sotto la stella del disturbo da personalità passivo-aggressiva; sembrava che per tutta la vita m’avessero voluto preparare per quell’esatto momento.
Ormai in mente avevo stampato a fuoco lo sviluppo di ogni diramazione logica nella testa di Bruno, un elenco infinito di dire-non dire.
Postulato primo: non togliere luce ai drammi degli altri. Non è un mio conio, ma è valido e funziona per l’occasione.
Io avevo perso un pomeriggio per arrivare fin lì; Bruno aveva perso tutto quello che aveva con sé, e in più l’avevano umiliato. Avrei fatto bene a non lamentarmi troppo della situazione in cui m’aveva infilato.
Per distacco, la gara per il titolo di vittima, l’aveva già vinta lui.
«Sono venuto a prenderti».
«E chi cazzo te l’ha chiesto?»
Un sospiro lungo cinque secondi. Voleva mettermi sotto pressione? La sentisse pure lui, allora.
«Bru’, io ci sto provando. Non so che cazzo ti sia successo, e onestamente se non me lo vuoi dire sono cazzi tuoi e a me me ne frega fino a una certa. Ma non mi fare ‘ste domande di merda, per favore».
Mi sono guadagnato uno sguardo negli occhi, uno di quelli lunghi e minacciosi, a chi abbassa per primo la faccia, che ti fanno nei locali quando hanno voglia di litigare.
Dieci e lode all’impegno, zero alla credibilità del contesto. Dopo un po’ che insisteva, l’ha capito pure Bruno.
S’è passato di nuovo la mano sulla fronte e ha preso a fissarsi i piedi. Ha tirato fuori una voce stanca e quasi supplichevole, lagnosa, come quella di mio padre al confine della sopportazione, quando gli manca un attimo per sbottare.
Per lui, quel tono è il salvacondotto per tutto quanto butterà fuori più tardi. Dice: guarda, sono allo stremo e comunque provo ad essere conciliante; ci provo perché sono fatto così e vivo di ideali precisi, amo il dialogo, rifiuto la violenza, sono per i buoni rapporti, i valori democratici e via dicendo. Se ci rinuncio, è giusto perché tu m’hai portato allo stremo. E non m’era mai successo prima.
Opuscolo illustrato della galanteria, versione aggiornata: un gentiluomo scade nel volgare unicamente se provocato.
Allora, e solo allora, gli è concesso il diritto alla bestemmia.
«Fammelo te un favore, Andre’: sciacquati dai coglioni. Levate proprio dar cazzo. So’ serio, Andre’, levate dar cazzo adesso, famme il piacere».
Faccia da sberle e voce da maestrino. Turpiloquio a parte, pareva davvero mio padre.
Per l’esplosione bastava una spinta.
«Non posso».
Il ceffone sul muro ha fatto vibrare la parete. Poi, ci hanno pensato le urla.
«Ma me lo spieghi che cazzo vuoi, me lo dici che c’hai da rompe il cazzo? Te voi leva’ dai coglioni?»
Bruno s’è alzato in piedi e m’ha tirato con uno spintone verso la porta. Poi ha preso ad indicarla con la mano aperta, muovendo il braccio avanti e indietro come un matto.
Per invitarmi ad uscire non ha trovato niente di nuovo da dirmi. S’è limitato a pensare bastasse l’ennesimo aumento di decibel a convincermi.
Sono rimasto là come m’aveva lasciato il suo spintone, il corpo a tre quarti rispetto l’uscita e la testa a pensare come comportarmi.
Facevo ancora in tempo a portarmelo via senza che si decidesse a dirmi niente sulla notte prima, ma m’ero messo in testa che l’avrei convinto a parlare. Il problema era che non trovavo appigli, l’unica cosa di cui gli importava era d’essere lasciato solo. Provocarlo potevo provocarlo, e m’avrebbe pure sicuramente risposto. Il problema era come.
Comunque, non vedevo alternative; se proprio volevo giocare all’investigatore, c’era da accettare il rischio di un cazzotto sul naso e basta.
«Bru’, io ti capisco, e c’hai pure ragione. Ma ora stai davvero pisciando fuori dal vaso…»
Più che per la manata che m’ha assestato in faccia, Bruno s’è spaventato per come sono rimbalzato addosso alla parete e poi per terra.
La cinquina, a metà tra lo zigomo e la guancia, è stata la parte peggiore: una frustata incandescente che durava a morire. Pure il volo non è stato piacevole, ma alla fine non m’ha fatto quasi niente.
Certo, ero pronto a scommettere che vista da fuori fosse stata un’acrobazia interessante. I piedi inciampati l’uno nell’altro, e in una frazione di secondo ero già un fazzoletto di ossa riverso sul pavimento, la spalla stampata sulla parete con uno scricchiolio sinistro.
Quando ho visto che a parte quella ancora riuscivo a muovermi, e che Bruno per un attimo s’era dimenticato della sua recita da criminale sotto interrogatorio per venirmi a soccorrere, potpourri di senso di colpa e terrore, m’è guizzata agli occhi l’idiozia soverchiante di quella scena.
Mentre Bruno era caracollato sulle ginocchia di fianco a me, che salmodiava richieste di perdono e mi tastava la testa cercando chissà quale squarcio aperto nel cranio, dal vertice opposto del soffitto lampeggiava la luce di una telecamera a circuito chiuso.
Per la seconda volta, c’è mancato poco che mi mettessi a ridere.
La stazione di polizia più famosa di tutta la Germania, Dei del profondo!
Da qualche parte alla fine del cavo, dietro lo schermo di una stanza di sorveglianza smarrita nei meandri di quel commissariato-barzelletta, potevo indovinare Serafin o un suo gregario con lo sguardo altrove, tutti presi da una guerra tra clan su Clash Royale. Quello, oppure era normale che un visitatore venisse aggredito da un soggetto sotto custodia.
Nuova illuminazione: non era quella scena ad essere idiota: tutto il viaggio lo era.
Una sequela ingiustificabile di immagini assurde, una passeggiata tra le macerie d’un bombardamento mentre una nuova bomba già fischiava giù dal cielo.
Quel viaggio era una libera uscita con cui Bruno s’era sbarazzato per una settimana di mio padre e sua zia. Era venuto fuori per caso, come per caso ero riapparso nella sua vita, e come per caso assieme a me aveva deciso di reinventarsi una famiglia a tempo determinato.
Più oltre? Cosa lo aspettava al varco, sotto il cielo di piombo di Roma? Amici reclutati in pizzeria, litigi con mio padre, merda di vecchia e qualche tentativo nato male di proseguire il nostro rapporto: uno spritz un pomeriggio e nulla più, in attesa d’essere trascinato pure io nella manutenzione della mummia.
Lo sapevo già prima, ma sotto lo sguardo di quella telecamera tutto quel sistema minuzioso di vita disperata m’aveva preso alla gola con la forza della nausea.
Il ceffone, la caduta, la corsa di Bruno, la telecamera. Il tempo di tre battiti di cuore, e la mia posizione dentro a quella stanza era cambiata.
Per la prima volta da quando m’ero ritrovato Bruno accanto su quel pavimento, m’è venuto in mente di dirgli qualcosa di diverso rispetto al fatto che stavo bene.
«Mi spieghi che cazzo stiamo facendo?»
M’ha guardato come se si stesse per mettere a piangere. Il gangster di poco prima era un miraggio.
«Non lo so Andre’, non lo so che cazzo m’è preso… Non lo so che m’è successo ‘sti giorni…»
M’ha alzato un braccio sopra il collo e m’ha stretto forte. S’è scusato di nuovo.
«No, Bru’, non parlavo di ora. Parlavo di Berlino. Che cazzo ci siamo venuti a fare qua?»
«Che vuol dire?»
Ho pensato un secondo se m’andava di proseguire su quella china, ora che sembrava tornata la pace. La nausea continuava.
«Voglio dire che questa non mi pare una vacanza. Mi pare una fuga. Fatta male, per giunta, perché c’è scritta sopra la data di scadenza».
Bruno m’ha spinto poco più in là col braccio che m’aveva messo sulla spalla e m’ha fissato storto. L’ho bruciato prima che riuscisse a parlare.
«Per quale motivo tu e babbo non vi siete ancora liberati di zia?»
«Eh?»
«Una volta, non so che vi eravate detti, babbo è tornato a casa sciorinando un elenco dei modi in cui sbagliavi a comportarti con le altre persone. M’ha detto che da te era sempre la stessa storia, e che l’unico modo che gli veniva in mente per farti stare buono era d’ammazzare la vecchia».
«Ma de che cazzo stai a parla’ Andre’? Tu’ padre non s’ammazza nessuno, statte tranquillo… È ‘na vita che se caga sotto di tutto, non se farebbe veni’ in mente de move manco un dito».
«Non hai capito. Figurati se c’ho paura che mio padre ammazza qualcuno, Bru’, quella volta stava scherzando, ogni tanto ci prova anche lui. Non ti sto a di’ che la dovete ammazza’. Sto dicendo che è un anno e passa che aspettate che crepi e v’ammazzate tra voi per capire a chi spetta pulirgli il culo, e non capisco perché lo stiate facendo».
«E che dovremmo fa?»
«Non lo so, trovare una clinica?»
«Vedi de piantalla Andre’, non c’hai idea de che stai a parla’…»
«Ma non dirmi cazzate. Zia è una pianta, Bruno. Fammi capire: te la tieni in casa come arredamento e gli cambiate i pannoloni come passatempo? Pensate che a quella gliene freghi qualcosa se la lasciate a morire dentro casa o in una discarica?»
Nessuna risposta.
«Per quale motivo continuate a rimpallarvi quella vecchia? Trovategli un istituto o che cazzo ne so dove lasciarla a morire e smettete di rovinarvi la vita. Non penso che a lei freghi più nulla, credimi».
«Sì, e annamo là a mollargli tua zia così. Je dimo che se la tengono fino a quando non crepa, e de mandacce una cartolina quando succede: congratulazioni, signori!»
«Perché, scusa, che pensi d’essere il primo a rompersi il cazzo di pulire il culo a qualcuno? Oh, poi fai te… Io ti dico solo che babbo sarebbe pure d’accordo, troverebbe qualche frase del Buddha per giustificarsi. Poi se ci tieni tanto ad andarla a trovare ci vai, mica te lo vietano. Intanto non te la tieni in casa come soprammobile. E vi migliora la vita a tutti e due».
«Eddaje co ‘sta stronzata della vita… Ma te che cazzo ne sai della vita mia, Andre’, te so’ mai venuto a di’ qualcosa?»
«Perché quella tirata di coglioni a Natale due anni fa su chi cazzo te l’aveva fatto fare a tornare in Italia l’ho fatta io, giusto? E mi pare che allora zia ancora ti rimboccava le coperte. Mi vuoi raccontare che stai meglio ora? ».
Ho pensato stesse per arrivarmi la seconda sberla della serata. Invece Bruno s’è limitato a fissarmi. Come prima: insistere.
«Io non l’ho capito davvero per quale motivo sei andato via da qua…»
«Perché m’ero rotto i coglioni de’ ‘sta a magna’ zuppe di Spätzle. E poi zia voleva torna’ in Italia…»
La storia del cibo si commentava da sola. Bruno voleva farmi credere gli dispiacesse vivere in un paese dove poteva permettersi d’imburrare la pancetta senza che nessuno si mettesse ad invocare a gran voce lo spettro della dieta mediterranea. Un fisico come il suo non si costruiva senza impegno e dedizione.
L’unica alla quale potevo credere era la storia sulla vecchia. Ad ogni modo, adesso il problema non esisteva più.
Gli ho detto tutto, e lui m’ha chiesto che intendessi.
«Che stiamo parlando di un’azienda con quanti, trenta dipendenti? In un posto del genere il numero del capo ce l’ha pure il magazziniere. Mi vuoi fare credere che non t’è rimasto nessun contatto?»
Nuovo sguardo obliquo, ma stavolta m’aveva capito. Voleva solo sentirselo dire per bene.
«Bru’, io non c’ho nessun diritto di starti a rompere i coglioni su queste storie. Mi faccio sempre i cazzi miei e lo sai, e se mi permetto di dirti qualcosa è solo perché ti voglio bene e in una situazione così allucinata non c’ero mai cascato prima. Sono cose a cui ho pensato parecchio e di cui sono convinto, e non te le dico per provocarti o che ne so. Ok?»
«Dimme, su…»
«Io penso che tu a Roma non c’abbia più niente da fare. Su zia t’ho già detto che penso, e t’ho detto pure come secondo me la pensa babbo. Lo so che te con lei c’avevi un rapporto diverso da quello che avevamo noi, ma non è questione d’essere stronzi, è solo che lei non c’è rimasta più, e non serve stare a scannarsi su un cadavere. E poi l’hai detto te che a Roma stavi male. Mo’ non sto a di’ che devi tornare qua in Germania, ma cambiare aria penso ti farebbe bene. Intanto a Stoccarda c’hai già lavorato, e sono convinto che un numero da chiamare ce l’hai. Che cazzo ne so, magari hanno un posto libero. O te lo trovano, dicevi tu di stargli simpatico. Alla fine la Foresta Nera è meglio dell’Aniene, tanto si parla sempre sempre di stare dentro a una fabbrica».
«Andre’, c’ho cinquant’anni, ma do’ vado a cerca’ fortuna a Stoccarda?»
«Non m’hai ascoltato. Nessuno ti sta dicendo che devi vendere tutto e andare via con una valigia di spago a cercare fortuna. T’ho detto solo che qua, in Germania, c’hai già lavorato e sono sicuro che c’hai un contatto. Prova a chiamarli. Poi magari non si ricordano manco chi sei, ma provaci, che cazzo ti costa? Tanto quanti anni avevi quando stavi qua? Quaranta, mica venti. E poi stiamo a parla’ sempre dello stesso lavoro, mica te ne devi inventare uno nuovo. Una pressa è sempre una pressa, sempre con le macchine utensili devi stare a sbattere la testa. E poi Bru’, c’avessi almeno una casa tua da lasciare… Sono dieci anni che paghi l’affitto. Non lo so, dimmi te, magari ‘sto a di’ una cifra di cazzate perché c’ho vent’anni e la vita vera è difficile e tutto quello che vuoi tu, però non mi sembra davvero che a Roma tu c’abbia così tanto da perdere…»
Pausa. Bruno s’è guardato attorno per un tempo infinito. Poi ha parlato guardandosi i piedi.
«Ci penserò Andre’, mo’ vediamo… Non è così semplice. Però vediamo».
Bastava così. Mi sono tirato su e gli ho detto che ce ne andavamo.
M’ha chiesto se potevamo farlo così, su due piedi. Potevamo farlo fin dall’inizio, pure se la polizia avrebbe preferito che lui si decidesse a sporgere denuncia. Ma certo non potevano obbligarlo.
«Guarda se sei ‘no stronzo. Non dirmelo, eh…»
«È la prima cosa che t’ho detto, coglione».
A vedersi arrivare Bruno che chiedeva come fare a denunciare una truffa, Serafin è rimasto spiazzato.
Quel nano di merda non aveva creduto in me nemmeno per un momento.
Ce ne siamo andati via che erano quasi le dieci. Serafin s’è congedato con una stretta di mano entusiasta. M’ha detto che avrebbero fatto qualcosa pure per quell’hotel dove avevano trovato Bruno: c’erano più infrazioni legali che stanze.
You have done a great job, Sir.
Il suo, sì.
Con Bruno, le ultime parole di quella sera ce le siamo scambiate davanti alla porta della sua stanza, tre ore e mezza più tardi.
Non sarebbe stato facile per davvero, ma quel che m’aveva detto lo intendeva fino alla fine.
Avrebbe provato a mettere a posto le cose. Non c’era motivo per non provarci.
Mentre la schermata di Skype soppiantava quella di Chrome, il computer ha avuto un attimo d’esitazione.
«Come va?»
«Sono tre giorni che piove, in questa città del cazzo. A parte quello tutto bene».
Ho capito di aver fatto una stronzata appena finito di parlare.
«È la resistenza al cambiamento ad essere dolorosa, non il cambiamento, sai?»
«Non è Parigi, t’assicuro che tre giorni di pioggia m’avrebbero fatto rodere il culo pure a Roma, il cambiamento non c’entra più di tanto… Te, come stai? Ti sei trovato una signorina, che mi chiami solo una volta al mese?»
Mio padre s’è concesso una smorfia.
«È pure ora che cominci a vivere la tua vita senza che io ti stia dietro ad ogni passo, mica hai più dodici anni».
Niente, l’ironia non riusciva proprio a capirla.
Alla fine sentirsi così poco aveva pure i suoi lati positivi: riduceva all’essenziale il numero di scene come questa; da quattro al giorno a una al mese. In cambio avrei accettato la pioggia per il resto della mia vita.
«Tanto di gente non autosufficiente di cui occuparti ne hai pure troppa. Come sta zia?»
«Il solito. Ora è Bruno che sta peggiorando…»
In totale nonchalance.
Per la durata di due battiti di cuore, ho provato la stessa sensazione della prima chiamata di Serafin.
«Che vuol dire? Che gli hai fatto?»
Mio padre s’è fisicamente tirato indietro con la schiena.
«Niente, e se è per questo non lo vedo da un mese e passa, figurati. Però si comporta in maniera strana…»
«Pa’, puoi elaborare? Che ne sai di come si comporta se non lo vedi?»
«Perché giro per casa sua quando devo badare a zia. Quando è l’ultima volta che sei stato là, questa estate, giusto? Ecco, rispetto ad adesso era un hotel…»
Ho provato a buttarla sul ridere.
«Che vuol dire ‘sta cosa che hai detto? Che ci fa là dentro, dei culti satanici?»
«Niente. Il punto è che non ci fa niente. Non pulisce, non lava, la casa puzza e l’hanno cominciata ad invadere le formiche. Lui si è messo ad accumulare i piatti sporchi nel lavandino, si scorda di cambiare i pannoloni a zia, non fa niente. Tiene le tapparelle abbassate e non rifà il letto da settimane. Sembra quasi che non viva più là…»
Mi sono preso un secondo per pensare a cosa dirgli.
«Ma t’ha mai detto niente? Vi siete parlati?»
«Parlare con tuo zio è impossibile. Lo conosci».
Doveva rivendicare la sua superiorità pure in quel momento. Come se parlare con lui fosse facile. Avrei dovuto sorvolare.
«Sì, come vuoi, ma t’ha mai detto niente? Che tu sappia, c’è una ragione?»
«È Bruno, Andrea. Non si è mai comportato logicamente… Te l’ho detto, l’ultima volta che gli ho parlato dal vivo è stato un mese e mezzo fa, e mi ha solo chiesto se potevo passare pure il weekend dato che aveva da fare. Poi abbiamo preso a comunicare solo per messaggio. Lui, almeno. Se gli scrivo io si limita a visualizzare. Alle chiamate non risponde».
Ha preso un respiro. Non m’ha sentito dire nulla, e l’ha preso come un invito a continuare.
«Sulle prime ho pensato che questa cosa nella sua testa avesse un senso. Che magari stesse provando a ragionare per conto proprio, a chiarirsi le idee, magari era l’inizio di un percorso. Ma non mi pare sia questo il caso».
Il percorso di Bruno, al termine del quale quello ne sarebbe uscito trasfigurato e gonfio di una nuova consapevolezza. Una casa abbandonata al macero e un comportamento antisociale, bel percorso, la depressione.
Mio padre non era d’accordo. Era sicuro ce ne stessero altre, di spiegazioni.
M’è venuta in mente giusto la droga, ma ho evitato di starglielo a dire, non avrebbe manco capito che stavo scherzando, e quella era comunque una battaglia persa in partenza.
S’era liberato della rottura di coglioni dell’interazione con Bruno a parametro zero e in maniera inaspettata, figurarsi se voleva rischiare di cascarci dentro di nuovo andandogli a domandare se avesse bisogno d’aiuto. La prospettiva di farsi mandare a fanculo era la migliore, nella peggiore Bruno avrebbe pure potuto dirgli di sì. Allora ci saremmo divertiti.
L’avrebbe trascinato a qualche seduta di meditazione guidata raccomandandolo con una parola di riguardo al santone di turno. Due settimane di quella vita e Bruno sarebbe stato pronto a infilare la testa nel forno. Era meglio mio padre se ne stesse buono.
Non ho insistito a dirgli altro e il discorso è scemato per proprio conto: altri cinque minuti a parlare del nulla, poi abbiamo aggiornato la seduta al mese successivo.
Ho tirato giù lo schermo del computer e ho provato a chiamare Bruno. Nessuna risposta la prima volta, e di nuovo le due successive.
Ho pensato un po’ a che messaggio scrivergli, come impilare due righe che offrissero un orizzonte di senso diverso dal dirgli che sapevo fosse depresso ma che non doveva abbattersi perché la vita era piena di cose meravigliose e buoni motivi per godersela.
Venti minuti buttati, in cui quello che ho scritto m’è sembrato tutto ridicolo. Mi sono risolto a chiedergli semplicemente come stesse; avevo voglia di fare due chiacchiere, mi richiamasse quando aveva tempo.
Un buco nell’acqua, due spunte blu e nessuna risposta.
Nel tempo che è venuto dopo ho insistito spesso a rompergli i coglioni, due telefonate al giorno per una settimana e qualcosa, una guerra di logoramento. Poi le chiamate hanno preso a scivolare dirette in segreteria e ho capito che Bruno m’aveva bloccato.
A sfinirlo c’ero riuscito di sicuro.
Mi sono fermato là. Non m’avrebbe risposto, e in ogni caso non avrei saputo di che parlargli o in che modo essergli utile, scaraventato mille chilometri più a nord di lui. Certo non potevo andare a prenderlo sotto casa per offrirgli il mio aiuto.
Ci avrei pensato una volta tornato da quei sei mesi d’Erasmus, forse.
Nel profondo, m’ero stufato di stare a combattere con i traumi della mia famiglia, con la rabbia repressa di mio padre ed il distillato di disperazione di Bruno, un compendio sempre ricco di nuove sorprese e performances da grandi reclusi.
Ogni chiamata senza risposta parlava delle volte in cui avevo provato ad inseguire Bruno da qualche parte, l’aspirazione salvifica di frenarlo nella sua caduta. Una strada decorata di intraprendenza e sentimenti deliziosi: ci aveva portato lontano.
Magari l’avevo lanciato proprio io verso lo stato in cui stagnava adesso, con quel bel discorso nella cella di Amburgo e il tentativo di correggere il suo certosino cammino di mortificazione personale. Ora aveva coscienza della sua situazione. Bel vantaggio, se non sapeva come uscirne.
Mi servisse da lezione: imparare a lasciare andare le cose per tempo.
Una frase splendida, quasi da annotarla sulla prima pagina di una Moleskine nera.
Finisce così, con un aforisma di cui mio padre avrebbe potuto sentirsi felice e il ricordo strano di un viaggio divertente al di là del mare, un personaggio che non cambia animo, non è un bruco e non diventa farfalla.
La rinuncia all’eredità è un diritto, era venuto il momento d’esercitarlo.
Articolo di Adriano Bordoni