L’Europa che fallisce al confine tra Grecia e Turchia

06/04/2020

Il 28 febbraio il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato l’apertura dei confini del Paese. Da quel momento, molti migranti e richiedenti asilo hanno iniziato a muoversi, in particolare verso la Grecia. La reazione di quest’ultima è stata la sospensione dell’esame delle varie domande di asilo, blindando radicalmente i suoi confini. L’Unione Europea ha risposto prevalentemente con misure di contenimento.

Il risultato è un disastro umanitario: sono almeno tre le vittime negli scontri tra rifugiati e forze dell’ordine, secondo le autorità turche, più migliaia di deportati. Un’inchiesta del New York Times, pubblicata il 10 marzo, ha rivelato l’esistenza di un centro di detenzione per migranti in Grecia, in cui questi vengono rinchiusi per poi essere rispediti in Turchia senza alcuna procedura legale. Alcuni rifugiati hanno testimoniato di essere stati “catturati, spogliati dei loro averi, picchiati e espulsi dalla Grecia senza possibilità di richiedere asilo o di parlare con un avvocato”.

Gli eventi delle scorse settimane dimostrano appieno il fallimento della politica migratoria europea di esternalizzazione dei confini, che consiste nell’affidare a Paesi extra-europei il compito di limitare le partenze verso l’Europa, fornendogli in cambio grosse somme di denaro per sostenere le spese. E’ su questa linea che si assestano anche i vari accordi presi tra i singoli Paesi europei con gli Stati al di là del confine, come i memorandum d’intesa tra l’Italia e la Libia e la collaborazione – meno ufficializzata – tra Spagna e Marocco.

I sogni dell’Impero

Il 18 marzo 2016 è stato reso pubblico un accordo tra i membri del Consiglio Europeo e il Primo Ministro turco Davutoğlu. Ciò avvenne per arginare la profonda crisi migratoria, culminata nel 2016, che vide protagonista per eccellenza la cosiddetta “rotta balcanica”. A causa dell’inasprimento del conflitto siriano, fra l’estate del 2015 e il marzo del 2016, quasi un milione di persone (principalmente siriani) ha attraversato il confine turco-greco nella speranza di poter essere accettato all’interno dei confini europei.

La crisi è sfortunatamente coincisa con il periodo di apparentemente inarrestabile avanzata dei partiti populisti di destra, che proprio grazie alla propaganda sulla malagestione della “rotta balcanica” stavano avanzando nei sondaggi di ogni singolo paese membro. L’accordo prevedeva e prevede tutt’ora l’istituzione di un forte sistema di controllo al confine greco, sostenuto economicamente dalla stessa Unione Europea, con il compito di valutare le richieste d’asilo di coloro che si presentano ai confini del continente: nel caso in cui queste richieste venissero rifiutate, allora sarebbe compito della Turchia mantenere all’interno di appositi campi la totalità delle persone respinte. In cambio, la promessa di 6 miliardi di euro direttamente stanziati dall’UE (di cui per il momento sono stati erogati 3 miliardi, soprattutto dalla Germania), la rimozione dell’obbligo del visto per i cittadini turchi, non andata in porto, l’aggiornamento dell’unione doganale e l’apertura ai nuovi capitoli del processo negoziale. L’accordo venne aspramente criticato già nel 2016 principalmente per la paura da parte di una buona parte della società civile europea di affidare le vite di potenzialmente milioni di persone nelle mani di un personaggio come Erdoğan, visto da molti più come un dittatore che come un capo di Stato democraticamente eletto.

La decisione da parte di Erdogan di aprire i confini arriva a seguito dell’uccisione da parte dell’esercito siriano (formalmente, in realtà la colpa risulterebbe essere dell’aeronautica russa) di 36 soldati turchi stanziati nei pressi della regione siriana di Idlib. Le ragioni di questa mossa sono infatti da ritrovare proprio nella situazione geopolitica e militare del conflitto siriano: utilizzando i migranti come minaccia, la Turchia spera di fare pressione sull’Unione Europea per ottenere nuovi finanziamenti economici e soprattutto il beneplacito del Consiglio Europeo (difficilmente mirando ad un effettivo appoggio militare da parte dell’UE o della NATO, di cui la Turchia fa parte) per proseguire l’avanzata all’interno del confine siriano. La risposta da parte delle autorità greche ed europee non si è fatta attendere.

Il primo marzo del 2020, tre giorni dopo l’annuncio di Erdogan dell’apertura dei confini, il governo greco di Mītsotakīs, il nuovo Primo Ministro eletto a luglio 2019, ha varato eccezionalmente la misura inedita che nega, a chiunque arrivi dopo la suddetta data, il diritto di asilo. La decisione greca ha destato diverse polemiche internazionali perché di fatto viola la convenzione di Ginevra, firmata nel 1951, che definisce i diritti dei rifugiati e le responsabilità delle nazioni che garantiscono l’asilo. Il 12 marzo anche la stessa Unione Europea ha ribadito alla Grecia la necessità di rispettare il diritto di asilo. Il giorno dopo – non ci è dato sapere quanto i due eventi siano in relazione – il governo greco ha stabilito che ogni tipologia di colloquio o domanda sarebbe stata da quel momento interrotta per un mese a causa della diffusione iniziale del COVID-19 in Grecia, costringendo di fatto una permanenza forzata più lunga del solito all’interno dei campi d’accoglienza.

Il 27 marzo il Ministro degli Interni turco Süleyman Soylu ha dichiarato che i migranti ammassati al confine sono stati in parte temporaneamente trasferiti in apposite strutture di accoglienza per contrastare il pericolo di diffusione del Covid-19. Ha anche specificato che ciò non consiste in un cambio di politica da parte della Turchia, e che i rifugiati saranno di nuovo liberi di spostarsi una volta finita la pandemia.

Scudi d’Europa

Si stima che oltre 42.000 persone, dice l’UNCHR, si trovino bloccate tra Lesbo, Samo, Chios, Leros e Kos, di cui 20.000 nel campo di Moria a Lesbo, costruito per non accoglierne più di 2500. L’85% è composto, secondo il Guardian, da rifugiati provenienti da Siria, Afghanistan, Iraq, Palestina, Somalia, Repubblica Democratica del Congo: costretti nei campi delle cinque isole a causa della politica di contenimento voluta dall’UE, fino a quando non ne saranno esaminate le richieste d’asilo – che, come abbiamo già detto, sono state ufficialmente sospese dal governo greco.

Il campo di Moria a luglio scorso accoglieva 5000 profughi. Con condizioni medico-sanitarie al limite del collasso e il pericolo del COVID-19, l’UN refugee agency ha dichiarato l’evacuazione immediata delle famiglie e dei malati dal campo già a metà febbraio. L’emergenza è sottoscritta a sua volta dal nuovo rapporto diffuso il 18 marzo da Oxfam e Greek Council for Refugees (GRC), che denuncia le condizioni disumane e le detenzioni indiscriminate all’interno dei campi, tracciando le coordinate della peggior catastrofe umanitaria esistente dentro i confini del Vecchio Continente. Così mentre a Lesbo l’Europa “muore” – come è stato affermato su varie testate – a Kastanies, a meno di un chilometro dal confine turco, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen annuncia che “la nostra priorità in Grecia è preservare l’ordine ai confini esterni dell’UE”. Priorità, quella di blindare i confini, che negli ultimi quattro anni ha spezzato e smascherato la coerenza e la comunione di intenti dei Paesi membri in materia di accoglienza.

Nel 2015 infatti, durante il grande esodo che avrebbe portato un milione di migranti e di richiedenti asilo in Europa, la retorica dell’UE si incentrava sulla proposizione di azioni di solidarietà interna – come gli obiettivi di redistribuzione e di accoglienza e l’imperativo del salvataggio in mare – proseguendo quella linea tollerante che aveva più o meno caratterizzato l’Europa fino a quel momento. Linea che assumeva un’altra forma nella pratica, attraverso l’accordo con la Turchia e un rafforzamento dei rimpatri. Ma persino il tenore semantico che investe l’emergenza attuale è decisamente mutato.

Mercoledì 4 marzo la Commissione europea ha espresso la propria solidarietà al governo di Mītsotakīs presentando un piano d’azione che prevede, tra le altre cose, un finanziamento di 700 milioni di euro per Atene per sostenere la gestione dei suoi confini. Una strategia che si consuma nel breve termine, che ha per imperativo il contenimento, e che investe la Grecia come “aspida”, scudo d’Europa, per usare il grecismo della Presidente von der Leyen; così come l’offerta dell’UE di 2000 euro, valida per un mese, per chi decide di abbandonare il campo profughi di Moria e l’appoggio all’operazione Frontex che, secondo la denuncia di diversi esperti di giurisprudenza comunitaria potrebbe svolgersi in violazione del diritto internazionale e dello statuto stesso dell’Agenzia europea.

È indicativo come Frontex, agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, sia arrivata con l’ultima, decisiva riforma, a disporre ora di uno standing corps, un corpo di frontiera permanente che verrà ampliato fino a 10mila unità; delle quali 3mila dipenderanno direttamente dall’agenzia. Altrettanto esemplificativo è il suo budget: sul sito ufficiale di Frontex viene dichiarata una cifra di 6 milioni di euro nel 2005, quando è stata fondata, per arrivare a 320 milioni nel 2018. In 13 anni la somma è aumentata di 53 volte. Mentre nel rapporto del 2018 della Commissione europea A strengthened and fully equipped European Border and Coast Guard, si annuncia un incremento del budget fino a 11.3 miliardi di euro previsti per il periodo 2021-2027.

Al di là

L’accordo tra l’Europa e la Turchia, che nella complessa burocrazia dell’Unione Europea si trasforma in un meccanismo di gestione dei fondi dal nome Facility for Refugees in Turkey.

In una ricerca pubblicata nel novembre del 2016 dall’osservatorio CEPS di Bruxelles, intitolata Money Talks, si identificano dodici differenti fondi dell’Unione Europea relativi alla politica migratoria. Due in particolare sono degni di nota ed esemplificativi. Uno è il Facility for Refugees in Turkey, le cui controindicazioni si stanno rendendo evidenti in questi giorni. L’altro è l’EU Emergency Trust Fund for Africa (EUTF), fondato nel 2015 e il cui obiettivo è dare “una risposta integrata e coordinata alle diverse cause di instabilità, migrazione irregolare e trasferimenti forzati”, come viene riportato sul sito ufficiale dell’UE. Dallo stesso sito è consultabile il report annuale del 2018 (il più recente disponibile online) riguardante il fondo, in cui si legge che questo raggiunge un valore di circa 4,2 miliardi di euro. L’Italia con 112 milioni di euro risulta il secondo Paese contributore dopo la Germania.

Osservando i Paesi possibili destinatari dei finanziamenti e comparandoli con i dati annuali stilati dall’Economist Intelligence Unit sul grado di democraticità dei vari Paesi del mondo, si nota che 11 Paesi sono categorizzati come “regimi autoritari”, 11 come “regimi ibridi” e soltanto 2 come “democrazie imperfette” (categoria di cui fa parte anche l’Italia).nA conclusioni simili giunge uno studio condotto dal Transnational Institute in collaborazione con l’organizzazione indipendente Stop Wapenhandel e intitolato Expanding the Fortress. In questo documento si sottolinea come – attraverso una serie di indici e dati – metà delle nazioni potenzialmente finanziabili dall’EUTF sono considerate “non libere” e in dodici nazioni i cittadini affrontano “rischi estremi” per i loro diritti umani. Utilizzando gli stessi indici per la Turchia, risulta che questa è un “regime ibrido”, “non libera” e i cittadini affrontano “alti rischi” per i loro diritti umani.

L’EUTF, il Facility for Refugees in Turkey insieme al resto delle operazioni securitarie dell’Unione Europea e dei singoli Stati membri sono tutti elementi che rappresentano appieno l’intero comparto di luci e ombre in cui consiste la politica migratoria europea. Politica in cui l’interesse primario di acquietare l’opinione pubblica interna sovrasta e rende impossibile il perseguimento di ulteriori obiettivi a lungo termine. Al di là delle ovvie e pressanti preoccupazioni umanitarie, gli eventi al confine tra Turchia e Grecia dovrebbero quindi fornire uno spunto alle autorità europee per ripensare la propria politica migratoria – ammetterne il fallimento (o l’ipocrisia, a seconda delle interpretazioni).

Questo testo è un estratto di un articolo più ampio che si può leggere sull’edizione di Scomodo n.30 o qui.

 

Articolo aggiornato il 9 aprile 2023 in seguito a una segnalazione di errore riguardo alla natura dell’accordo tra il Consiglio Europeo e il Primo Ministro turco del 18 marzo 2016.

Articolo di Luca Bagnariol, Luca Pagani, Marina Roio, Susanna Rugghia, Francesco Paolo Savatteri