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Libano: il Paese che non funziona
il Libano tra corruzione, crisi economica e insoddisfazione sociale
La delusione di Elie
«Una cosa che la maggior parte delle persone non sa è che si scia in Libano. In Aprile c’è moltissima neve sulle montagne e nello stesso giorno si può andare a sciare la mattina e poi scendere e tuffarsi in mare il pomeriggio, è meraviglioso!». Elie Moussallem ha 28 anni, è nato a Bireh, un villaggio sul Jabal Lubnān, il Monte Libano, ed è cresciuto a Beirut, dove la sua famiglia lavora. Beirut è una città stupenda, che fu completamente ricostruita durante gli anni ‘90, dopo che la guerra civile l’aveva rasa al suolo. Ci sono moltissimi ristoranti, bar, luoghi in cui uscire la sera e l’architettura è particolare perché alterna case costruite come quelle dei villaggi ai grattacieli. La sua voce è allegra mentre descrive i luoghi e i colori della sua città, le giornate a sciare a Faraya-Mzaar, le serate a bere a Gemmayze, una zona del centro con moltissimi locali, i pranzi con la famiglia. Si è trasferito a Parigi sei anni fa per studiare all’Università, ma torna in Libano tutte le estati.
Nell’arco della sua vita il suo Paese ha attraversato profondi cambiamenti. Elie è nato poco dopo la fine della guerra civile (1976-1990), quando è venuta alla luce la Repubblica libanese. E’ cresciuto sotto il governo militare siriano (1990-2005) quando «la vita era più semplice e tutti andavano più d’accordo». Era piccolo, ma ricorda l’assassinio del Primo Ministro Rafiq al-Hariri nel 2005 e la Rivoluzione dei Cedri che ha cacciato le truppe siriane dal Paese e proclamato l’indipendenza del governo libanese. Durante la sua adolescenza ha visto muovere i primi passi del nuovo governo, si è stupito quando il Libano ha clamorosamente evitato la crisi del 2008 e – cullato come tutti da un clima generale di fiducia, nonostante i conflitti con Israele e il coinvolgimento nella guerra civile siriana – per alcuni anni è sembrato che le cose stessero finalmente andando verso il meglio. «Ma poi la bolla è esplosa, e abbiamo scoperto che ci stavano solo prendendo in giro». Il marcio è venuto a galla, la corruzione politica si è palesata, la crisi economica è dilagata.
Tanti responsabili, pochi colpevoli
Negli ultimi tre anni il Libano sembra avere intrapreso una strada a ritroso: le condizioni economiche, sociali e politiche del Paese sono peggiorate in modo esponenziale e allarmante. La situazione è definitivamente precipitata il 4 agosto 2020, quando nel porto di Beirut sono esplose 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio, che hanno devastato la città, peggiorando ulteriormente la situazione di crisi libanese. L’esplosione ha ucciso almeno 200 persone e ne ha ferite più di 6000; «Trecentomila persone (cifra confermata da varie testate, ndr) sono rimaste senza casa – spiega Elie – è un numero spaventoso». Mesi dopo la catastrofe, le indagini hanno rilevato che il nitrato d’ammonio era nel porto di Beirut dal 2013, conservato in condizioni di sicurezza inadeguate.
Il carico era diretto verso una fabbrica di esplosivi mozambicana e l’azienda mittente era Savaro Limited con sede nel Regno Unito. Le indagini internazionali mostrano un retroscena tutt’altro che limpido: dal 2011 ad oggi, la società ha cambiato tre indirizzi, due dei quali erano gli stessi di società dirette da figure legate al governo siriano, personalità in passato sanzionate dal governo statunitense per aver tentato di procurarsi nitrato d’ammonio per al-Assad nello stesso periodo in cui il materiale esplosivo è stato depositato nel porto libanese.
In questa intricata situazione, risulta evidente che Savaro sia una società di comodo, utilizzata come intermediario per svincolare il venditore e l’acquirente da ogni responsabilità, spiega Al Jazeera. Ci sono ancora dettagli da portare alla luce e la giustizia libanese dovrebbe lavorare per capire quali sono i moventi dietro la bomba che ha devastato la capitale. Tuttavia, le indagini hanno ritmi blandi e rimangono circostanziate a livello locale. La motivazione di tale inefficienza è la presenza di corruzione sistemica nell’apparato politico libanese, la quale conduce a disfunzioni nell’intero organigramma. Il giudice incaricato delle investigazioni sul caso era Fadi Sawan, il quale ha accusato 37 persone e ne ha fatte arrestare 25, avvalendosi, tuttavia, di metodi non rispettosi della legge giudiziaria. Le indagini e le detenzioni si sono focalizzate sui funzionari amministrativi portuali e doganali, senza risalire le gerarchie alla ricerca di altri responsabili. Gli avvocati degli imputati lamentano di non essere a conoscenza delle prove su cui si basano le imputazioni e che le accuse sono le stesse per ogni imputato, pur avendo avuto ruoli diversi nell’amministrazione portuale.
Secondo il codice di procedura penale libanese, l’investigatore giudiziario ha la possibilità di tenere i sospetti in custodia cautelare per un tempo indeterminato, ma questa norma è in contrasto con il Patto internazionale per i diritti civili e politici, ratificato anche dal Libano, secondo cui gli imputati devono avere un’udienza puntuale, altrimenti devono essere rilasciati entro un termine ragionevole. La nomina dell’investigatore giudiziario – Sawan in questo caso – avviene su proposta del Ministro della Giustizia e su approvazione necessaria del HJC (consiglio giudiziario superiore). Prima di Sawan erano stati proposti altri due giudici, rifiutati dal HJC senza spiegazioni. Ma le opacità giudiziarie non si fermano qui. Le indagini guidate da Sawan sono state sospese il 17 dicembre 2020, e successivamente il 18 febbraio 2021 il giudice è stato sollevato dal suo incarico dalla corte di cassazione. A dicembre, Sawan aveva accusato di negligenza criminale tre ex-ministri, due dei quali hanno poi richiesto alla corte la sua rimozione dall’incarico, e il Primo Ministro Diab, accusandoli di aver ignorato le passate avvertenze sulla pericolosità del carico esplosivo nel porto.
L’ingerenza politica nella giustizia è strutturale nel sistema libanese: i membri del HJC sono nominati per otto decimi dall’esecutivo e i fondi del consiglio provengono direttamente dal Ministero della Giustizia. In questo modo, la magistratura diventa un apparato di facciata al servizio dell’esecutivo, e non appena Sawan ha tentato di coinvolgere nelle indagini le figure che lo hanno di fatto nominato, è stato prontamente rimosso. Molti esponenti politici – prima della rimozione – hanno alzato la voce di fronte alle accuse del giudice, difendendo i colleghi e definendoli inattaccabili per via dell’immunità. Come spiegato dall’Associazione dei giudici libanesi, il reato di cui è responsabile l’élite politica, ossia uccisione o morte di cittadini «non è direttamente correlato all’esercizio delle funzioni in carica». Le resistenze politiche – evidenti ancora una volta dopo che Sawan aveva “oltrepassato i suoi limiti” – sono lo spettro della struttura distorta del sistema libanese, che da tempo è sotto osservazione della comunità internazionale che ne richiede una riforma. Questa tragedia ha sicuramente contribuito a distruggere definitivamente la reputazione della politica libanese, non solo agli occhi degli altri paesi ma del popolo stesso: «Conosco moltissime persone che prima sostenevano il governo e dopo l’esplosione si sono schierate contro – spiega Elie – i movimenti di protesta si sono molto rafforzati dopo quello che è successo».
Un’economia in ginocchio
Come detto, per anni il Paese è sembrato un’isola felice in una regione storicamente instabile. Il 2008, anno della Grande Recessione mondiale, ha segnato l’inizio di un periodo di forte crescita. Lo scoppio della Guerra in Siria nel 2011, però, ha incrinato la favola che si prospettava, portando oltre un milione di rifugiati in un Paese che conta sei milioni di abitanti e ha una superficie che è la metà di quella della Lombardia. In aggiunta, dal 2016, è iniziato il declino generalizzato del prezzo del petrolio che ha avuto un impatto negativo sull’economia locale – anche se il Libano non è un produttore – poiché ha ridotto il flusso in entrata di valuta forte. A tutto ciò si è aggiunta una classe politica che per anni ha pensato solamente a spartirsi il potere, come già spiegato in precedenza: come risultato, nel 2019, il Paese è finito sull’orlo della bancarotta, con il governo incapace di ripagare i debiti.
Il Libano è un Paese piccolo, con un mercato interno ridotto e inefficiente, e quindi importa molti prodotti necessari. Per evitare fluttuazioni, da più di vent’anni la lira libanese è ancorata al dollaro americano. Inoltre, per anni le banche libanesi, apparentemente floride, hanno prestato soldi al governo centrale, finanziando buona parte del pesante debito nazionale. Nell’ottobre del 2019, il Paese è entrato in crisi, il governo ha iniziato ad avere difficoltà a ripagare le banche entro le scadenze e queste ultime hanno, di conseguenza, incontrato seri problemi di liquidità. La banca centrale ha difeso ferocemente l’ancoraggio al dollaro per preservare il potere d’acquisto e mantenere basso il prezzo delle importazioni. Ma quando la liquidità in dollari delle banche ha iniziato a prosciugarsi a metà del 2019, l’ancoraggio è scivolato. Le banche sono state costrette a mettere limiti sempre più stringenti sui prelievi: «Stanno impedendo alle persone di prelevare i soldi dal proprio conto bancario, la disponibilità massima è di 100 dollari a settimana – dice Elie – non è stato il Governo ad averlo imposto o permesso, è che l’intero sistema bancario è crollato; e questo è accaduto perché le banche hanno prestato al governo un sacco di soldi che quest’ultimo non ha potuto restituire».
Per di più, l’arrivo della pandemia prima e dell’esplosione poi, ha spinto l’economia del Paese ancora più verso il baratro. A oltre sei mesi dall’esplosione di Beirut, metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e il settore sanitario si sta sgretolando
Come evidenziato da un recente report della Banca Mondiale, le autorità sono tutt’ora in disaccordo tra loro sulla valutazione, la diagnosi e le soluzioni per la crisi. Il risultato è stato una serie di misure politiche non coordinate, incomplete e insufficienti che hanno peggiorato le condizioni economiche e sociali. I cittadini sono sempre più esausti e arrabbiati, il servizio elettrico funziona ancora a fasi alterne durante la giornata: «Abbiamo ancora quattro ore di elettricità e quattro ore di assenza di elettricità in Libano! – denuncia Elie – Quindi se vivi in Libano e non puoi comprare elettricità, puoi avere quattro ore di elettricità dal governo e quattro ore di niente, solo nero totale».
Dalla crisi economica al malessere sociale
«In Libano la vita è diventata insopportabile su ogni fronte: economico, sociale, ambientale», racconta Hassane, che ha 58 anni, è andato via da Beirut a 19 e oggi vive a Tolosa, ma torna ogni anno nel suo Paese di origine, dove ha ancora molti parenti. Dagli inizi di marzo, la popolazione libanese continua a protestare contro il peggioramento delle condizioni di vita e l’incompetenza della classe politica. La forte mobilitazione sociale ha spinto anche le forze dell’esercito a intervenire, al fine di garantire la sicurezza e di riaprire le strade occupate dalle folle di manifestanti. Il blocco delle principali vie di comunicazione del Paese ha rischiato di ostacolare anche le ambulanze e il trasferimento di apparecchiature sanitarie, in un momento in cui il Libano continua a fronteggiare la seconda ondata pandemica di Covid-19. «La crisi economica ha colpito la maggior parte della popolazione libanese, portando a un impoverimento generale e alla scomparsa della classe media – aggiunge Hassane – questa crisi è molto più allarmante di quella che ha colpito il Paese durante gli anni della guerra civile».
Attualmente, il 55% delle famiglie libanesi vive in povertà. Tuttavia, secondo un report di UNHCR Libano, questa percentuale avrebbe raggiunto l’incredibile soglia dell’89%, a fine 2020, per le famiglie rifugiate provenienti dalla Siria. Inoltre, nella nazione, sono presenti decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici migranti e richiedenti asilo di origine irachena, etiope e palestinese. Il Libano non dispone di una rete pubblica di sostegno sociale e di assistenza per le fasce più vulnerabili; circa la metà della forza lavoro è impiegata nell’economia informale e molte famiglie sono prive di ogni tipo di assicurazione. A tal proposito, Rabih Torbay, Ceo dell’organizzazione umanitaria Project HOPE, ha anche lanciato un allarme sulla distribuzione vaccinale per le comunità sociali più fragili.
«E’ necessario un rinnovamento della classe politica e l’introduzione di un nuovo modello economico, sociale e politico non basato sul confessionalismo», afferma Hassane. Ad aggravare lo scenario è anche la crescente crisi della sicurezza alimentare, innescata ulteriormente dalla distruzione del porto. Infatti il Libano dipende in gran parte dalle importazioni di cibo e il maggiore silo di grano della nazione è stato decimato. L’inflazione alimentare, schizzata a novembre 2020 oltre il 400%, si è abbattuta in maniera sproporzionata sui gruppi più indigenti che hanno dovuto affrontare le spese, già notevolmente contenute, con un potere di acquisto deteriorato. Non a caso, nelle ultime settimane si sono registrati incidenti e tensioni nei negozi alimentari e nei supermercati a causa della ressa di clienti che tentavano di accaparrarsi i prodotti prima che i prezzi aumentassero esponenzialmente. Oltre a ciò, il recente rapporto Lebanon Education in Crisis: Raising the Alarm di Save the Children ha messo in luce come la crisi socio-economica stia producendo una vera e propria catastrofe educativa. Le stime segnalano che oltre 1,2 milioni di minori non avrebbero avuto accesso all’istruzione dall’inizio dell’emergenza sanitaria.
In tutto ciò, nella parte della città di Beirut colpita dall’esplosione, non sembrano essere stati fatti passi avanti significativi nell’avviamento dei cantieri per la ricostruzione. Le Nazioni Unite hanno stanziato un piano di sovvenzioni per garantire un’abitazione a coloro che non la possiedono più. Di fronte a questo scenario, il Ministro degli Esteri francese Le Drian ha chiesto durante una riunione di suoi omologhi dell’UE del 22 marzo di prendere in esame delle modalità per fornire aiuti internazionali al Libano. «Fin dagli anni ’70, il governo libanese ha ricevuto molti aiuti internazionali, ad esempio attraverso la terza convenzione internazionale dei donatori per il Libano convocata dalla Francia. Molte nazioni hanno donato o prestato milioni di dollari al Paese; ma il popolo libanese non ne ha beneficiato», spiega Elie.
Il desiderio di Elie
L’attuale situazione del Libano e del suo popolo è estremamente preoccupante, e sono tante, forse troppe, le cose che andrebbero cambiate per risollevare il Paese dalla crisi. Ma alla domanda «Cosa faresti, se potessi, per cambiare le sorti del Libano?» Elie ha le idee chiare: «Vuoi la mia più sincera opinione? Nessun governo straniero, nessun potere esterno deve manipolare e controllare il governo libanese; Ti dirò una verità: il Libano è diviso tra la comunità musulmana e quella cristiana, la prima è controllata dall’Iran mentre la seconda dalla Francia e dagli Stati Uniti. Tutti i conflitti che sono sorti dagli anni ‘70 ad oggi sono stati causati dall’influenza esercitata da questi tre paesi. Se le potenze estere smetteranno di controllare ogni cosa che accade in Libano, credimi, tutto andrà per il meglio». A prescindere che la visione di Elie sia condivisibile o meno, la realtà libanese una cosa ci suggerisce: il futuro di un Paese che pare tutt’altro che promettente, richiede necessariamente un intervento.
Articolo di Chiara Di Tommaso, Nicolò Benassi, Jacopo Caja e Giulia Falconetti