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LE NOSTRE VITTORIE
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Abbonati AccediCon diritto di informazione si fa riferimento a uno dei diritti garantiti e tutelati da ormai tutti i moderni ordinamenti giuridici. In Italia esso è strettamente legato alla libertà di manifestazione del pensiero, definita dall’articolo 21 della Costituzione italiana. Nei secoli passati la condivisione di informazioni avveniva soprattutto tramite la carta stampata, il cui uso rimase costante anche con l’avvento del telegrafo prima, della radio e della televisione poi. A cambiare le carte in tavola, in maniera irreversibile, è stato internet.
Secondo un report del 2019, la diffusione di giornali quotidiani cartacei in Italia si è attestato a poco più di 2 milioni di copie giornaliere. Nel 2007, questo stesso dato ammontava a 5,5 milioni. Anche il fatturato pubblicitario è calato: nell’era pre digitale il reddito delle notizie consisteva in abbonamenti, iscrizioni e, appunto, pubblicità. Con internet l’advertising ha prediletto l’online, poiché più conveniente sotto il punto di vista della visibilità. Sempre nel 2018, la spesa pubblica su internet è aumentata del 20%, e nel 2020 il fatturato pubblicitario del mezzo stampa è diminuito del 26.9%.
Inoltre, sono le tempistiche ad essere diverse: i giornali non possono più permettersi di aspettare fino al giorno dopo per le “breaking news”, poichè i siti possono essere aggiornati costantemente. Questa fretta nel condividere le informazioni porta un grosso svantaggio: il tempo dedicato al fact checking è molto ridotto, e ciò ha come conseguenza il proliferare di fake news, che fanno la loro comparsa anche su giornali la cui competenza viene generalmente data per scontata.
L’informazione viaggia sempre più sui social network: sempre secondo il report del 2019, “il 24,9% dei giovani di età dai 14 ai 34 anni si informa soltanto tramite i social network”. L’utilizzo esclusivo di questi come unico canale di informazione è raddoppiato nella fascia 34-54 (da 8,9% a 18,9%) e triplicato dai 54 in su (da 5,6% a 15,1%). Dal 2014 al 2019 è aumentato il ricorso esclusivo a Facebook & affiliati (19,8%), mentre quello della stampa on line è in netto calo: dal 41,1% al 33,1%. L’ubiquità delle notizie, poi, ha portato i lettori a essere meno inclini a pagare per un abbonamento, potendo facilmente reperire le informazioni che cercano gratuitamente su internet, se non su una testata, sicuramente sui social o su un’applicazione dedicata alle news.
I rapporti tra nuovi e vecchi mezzi di comunicazione sono, quindi, inevitabilmente destinati ad assestamenti turbolenti. Ne è un caso ciò che sta succedendo in Australia, dove il governo ha presentato un disegno di legge riguardante i rapporti tra stampa e piattaforme digitali che ha portato Google e Facebook ad avviare delle trattative con i media australiani, i quali da mesi chiedono con forza di ottenere una remunerazione per l’utilizzo dei propri contenuti da parte dei big del digitale. Ciò che ha portato ad instaurare una negoziazione tra queste due parti sono state le entrate pubblicitarie che le piattaforme digitali ottengono grazie alla diffusione di contenuti giornalistici che dovrebbero essere condivise con chi quei contenuti li ha prodotti. Ad oggi invece non è così, secondo quanto sostenuto dal governo australiano e dagli editori stessi, perché il mondo della pubblicità preferisce puntare sulle grandi piattaforme social piuttosto che sui giornali in calo di visibilità.
Ad aumentare esponenzialmente la rilevanza delle lamentele delle case editrici e ad incoraggiare la presa di posizione del governo, sono stati proprio i dati riguardanti le entrate pubblicitarie: secondo uno studio del Sole 24 Ore, il 40% dei clic di Google arriva dalle notizie, e solamente nel 2018 Big G ha guadagnato almeno 4,7 miliardi di dollari grazie alle notizie pubblicate su Google News. Questi dati segnano, in maniera inversamente proporzionale, un’impennata per i colossi della tecnologia e un collasso per i fautori della carta stampata. Paradossale, se si pensa che senza di essi, Google e Facebook sarebbero molto più poveri di contenuti e meno attrattivi per gli utenti. Tesi diversa quella sostenuta dal principale motore di ricerca che sostiene invece che i media e il governo abbiano travisato come funziona il mercato della pubblicità online: le piattaforme non guadagnano grazie ai contenuti, ma grazie agli annunci pubblicitari, e quelli inseriti nelle news non sono particolarmente lucrosi. Inoltre, togliere il giocattolo dalle mani dei social network non significherebbe necessariamente tutelare la pluralità dell’informazione: per restare sul caso australiano, ben il 75% delle testate giornalistiche del Paese è in mano alla News Corp. di Rupert Murdoch, che detiene inoltre circa il 23% delle quote del mercato editoriale locale. Una dinamica a cui si assiste anche in Italia e in altri paesi occidentali, in cui la piccola e media editoria, quella più interessata dai rapidi mutamenti del settore e più in difficoltà a reagire, finisce per essere assorbita in enormi gruppi editoriali, con conseguenze prevedibili sulla qualità dell’informazione.
A prescindere però dalle opinioni personali, le due grandi aziende digitali non sono arrivate a una soluzione pacifica fin da subito. In un primo momento, infatti, i colossi tecnologici erano arrivati a minacciare di abbandonare l’Australia, e soprattutto Facebook dal 18 gennaio ha oscurato tutte le pagine delle principali testate australiane e disattivato i link che rimandavano agli articoli. Ciò aveva portato a un crollo del 13% delle visite dall’Australia dei siti di queste testate, e del 30% per quanto riguarda le visite al di fuori del Paese. Ad oggi, invece, pare i colloqui con il Ceo di Facebook Mark Zuckerberg e con quello di Google Sundar Pichai stiano prendendo la giusta piega, prevedendo che i contraenti negozino con ciascun media un compenso per la condivisione dei loro contenuti, e se le due parti non dovessero arrivare a un accordo, l’alternativa sarebbe una soluzione arbitrale. William Easton, il leader di Facebook in Australia, ha inoltre annunciato lo sblocco dei contenuti editoriali sul suo social network, in seguito a un accordo raggiunto tra le parti, del quale però non si conoscono ancora gli estremi.
Spostando l’attenzione invece nel nostro continente, l’Unione Europea prevede già una forma di tutela del diritto d’autore nel quadro delle tecnologie digitali, tramite la direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale (direttiva 2019/790), che però a onor del vero non è mai stata realmente applicata. La direttiva risponde perfettamente alle richieste e proteste presentate dal governo australiano, cioè mira ad aumentare le possibilità dei titolari dei diritti, editori, giornalisti, musicisti e altre personalità legittimate, di negoziare accordi aventi come tema centrale la remunerazione derivata dall’utilizzo delle loro opere presenti sulle piattaforme Internet. Inoltre, i Signori del digitale saranno considerati come i diretti responsabili dei contenuti caricati sui loro siti, riconoscendo agli editori di notizie il diritto di trovare una mediazione per conto dei giornalisti sulle informazioni utilizzate dagli aggregatori di notizie.
Come di facile intuizione, tuttavia, tale direttiva non è stata ben accolta da chi fino a quel momento aveva accentrato su di sé la totalità dei compensi. Poco tempo dopo l’emissione della direttiva infatti, la stampa francese ha puntato il dito contro Google, accusando l’azienda di aver infranto la direttiva decidendo unilateralmente di tagliare le indicizzazioni, e di conseguenza il traffico in rete, dei giornali che si sono rifiutati di fargli continuare a usare gratuitamente i loro contenuti nei suoi risultati di ricerca. Dopo il ricorso all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Google è stato costretto a negoziare secondo i principi di lealtà e buona fede con l’Alleanza della stampa francese (Apig), “una tappa importante che segna il riconoscimento effettivo del diritto connesso degli editori di giornali e l’inizio della loro remunerazione da parte delle piattaforme digitali per l’uso delle loro pubblicazioni on line”, ha commentato Pierre Louette, CEO del gruppo Les Echos – Le Parisien e presidente dell’Apig.
Le discussioni sul tema, come detto, riguardano anche la possibilità o meno di considerare i social network come editori responsabili dei contenuti che ospitano, o invece più semplicemente delle piattaforme libere che si limitano a “distribuire” i contenuti. Negli Stati Uniti, ad esempio, le piattaforme sono tutelate dalla Section 230 del Communications Decency Act, che garantisce l’immunità a chiunque favorisca la circolazione di contenuti di cui non è l’autore. Questa norma è stata alla base del successo del web nei suoi primi anni (“Le 26 parole che hanno creato internet”, secondo un libro di Jeff Kosseff), ma è stata rimessa in discussione dall’interventismo sempre più spinto dei moderatori dei social. Trump ne aveva chiesto più volte l’abrogazione, ma il suo ultimo tentativo, poco prima di lasciare la presidenza, è stato scavalcato da una netta maggioranza al Congresso.
Ottenerne la cancellazione sarà, con tutta probabilità, difficile per qualsiasi presidente, perché in ballo c’è anche un altro tipo di ruolo politico giocato dai social: Facebook, Twitter, la stessa Google sono aziende sì private, ma tutte con sede negli Stati Uniti e interessi spesso coincidenti con quelli americani. Il 23 febbraio, Twitter ha annunciato di aver rimosso 373 account che avevano legami con Russia, Armenia e Iran. Circa 100 account legati alla Russia sono stati rimossi per aver «amplificato narrazioni che minavano la fiducia nella Nato e prendevano di mira gli Usa e l’Unione europea». Inimicarsi a cuor leggero un tale potenziale alleato potrebbe non rivelarsi così conveniente. E sull’altare sacrificale potrebbe andare un pezzettino della nostra libertà di stampa.
Articolo di Brigitta Mariuzzo, Federica Carlino