Analizzando la lingua della parità di genere

Tra schwa e linguaggio inclusivo il desiderio di una lingua paritaria inizia a essere sempre più presente

05/04/2023

L’Accademia della Crusca si è pronunciata in risposta al quesito del Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione riguardante la parità di genere nella scrittura degli atti giudiziari: le indicazioni riportate – tra cui l’uso dei femminili di professione, ad esempio –  alludono in maniera specifica all’art. 121 del codice di procedura civile (che sottolinea una particolare attenzione alla forma per la validità di un atto processuale): evitare il maschile singolare perché a torto considerato non marcato, evitare l’articolo determinativo prima dei cognomi femminili, perché genera un’asimmetria con quelli maschili e usare il genere femminile per i titoli professionali che sono riferiti a donne. Il quesito stesso posto dalla Cassazione dimostra senz’altro una maggiore sensibilità nei riguardi di un linguaggio più inclusivo, dietro la quale si cela, però, un dibattito ben ampio e dilatato nel tempo: fu Alma Sabatini ad avviare, per conto della Commissione per la parità tra uomo e donna della Presidenza del consiglio dei Ministri, un’indagine sul sessismo linguistico – in particolare su elementi linguistici inerenti alla lingua a livello grammaticale e strutturale dissimmetrici e discriminatori rispetto alle donne – a partire dal riconoscimento dell’importanza della lingua nella «costruzione sociale della realtà». Tuttavia, la richiesta attuale di un linguaggio inclusivo va ben oltre il semplice binarismo di genere: una delle proposte avanzate riguarda proprio l’abolizione del cosiddetto “maschile sovraesteso” o “non marcato”, utilizzato per esprimere concetti che riguardano un pubblico non omogeneo, non solo perché esclusivo rispetto a un pubblico femminile, ma anche rispetto a tutte le categorie gender non-conforming.

La soluzione dello schwa
Tra le alternative proposte per opacizzare il genere grammaticale, come l’asterisco, vige al momento l’adozione dello schwa, sul quale la Crusca conferma il proprio dissenso, definito dalla sociolinguista Vera Gheno “un esperimento”, una presa di posizione politica che prescinde qualunque tentativo di dirigismo linguistico. Ma sarebbe concretamente introducibile al di là di applicazioni sperimentali? Lo schwa (o scevà, ə) è un simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA) e indica una vocale dal suono intermedio, già presente nel dialetto calabrese, in quello campano e in quello piemontese. È un grafema come l’asterisco, ma a differenza di quest’ultimo ha il vantaggio di avere un suono. Esso, in quanto accorgimento ortografico (e non grammaticale) potrebbe appianare le evidenti asimmetrie di genere nel linguaggio e opacizzare del tutto il genere.

Tuttavia, sono stati evidenziati diversi limiti di tale riforma morfologica, e il primo consisterebbe nella riforma stessa. L’italiano è una lingua flessiva, il che vuol dire che per addizione e fusione al tema di suffissi, si danno indicazioni relative a numero e genere. Il problema riguarda proprio quest’ultimo: non vi è una diretta corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale perché non è la semplice desinenza a essere marca di genere, ma il “sistema di accordo”, cioè l’articolo, come nel caso dei i nomi terminanti in –e non suffissati, ambigenere.

Inoltre, se il lessico è lo strato più fragile della lingua, facile da cambiare, i fondamenti morfologici si sono ormai stabilizzati, così come l’apparato fonologico, ancora meno ricettivo. Va sottolineato che la lingua è regolata dal principio di economia del linguista André Martinet, vi sono prese di posizioni nella lingua da parte dei parlanti che tendono a minimizzare il sistema di linguaggio, facendo cadere in disuso pratiche ritenute poco funzionali a favore di altre più facili da sostenere.  Tuttavia, oltre a essere un processo di ottimizzazione graduale, non si può negare che l’uso che facciamo della lingua sia strettamente connesso ai mutamenti e alla presa di coscienza sociale: Michela Murgia ha deciso per prima, nel 2021, di utilizzare la schwa in un suo articolo di indirizzo politico per l’Espresso, scatenando un’ondata di plausi da una parte e di attacchi dall’altra, per poi introdurla anche all’interno del suo libro, scritto con Chiara Tagliaferri, “Morgana. L’uomo ricco sono io”. D’altra parte, puristi della lingua come Serianni si sono dichiarati contrari all’uso dello schwa, considerandolo una proposta fuorviante per lingua orale perché non rendibile a livello fonetico. In realtà, come evidenziato sopra, esso non è un fonema sconosciuto; piuttosto la sua infiltrazione nell’apparato fonetico italiano è un processo lungo e imprevedibile. Intanto, l’utilizzo dello schwa si sta man mano inserendo all’interno di contesti informali. Essendo un modo per eliminare varie disuguaglianze linguistiche, nei contesti giovanili (prettamente di sinistra e femministi) e LGBTQIA+ è di uso comune utilizzarla. Oltre a eliminare il maschile sovraesteso, l’efficacia di questo segno aiuta a includere le varie identità di genere. Essendo l’italiano una lingua basata da un sistema binario è molto difficile includere tutte le soggettività senza lo schwa, l’asterisco o altri segni.

La lingua secondo Monique Wittig

Di certo, il voler rendere inclusivo il linguaggio è entrato da poco nel dibattito pubblico eppure il tema non è nuovo all’interno della politica e della letteratura femminista. In Francia, a partire dal 2018 scoppia un caso editoriale: si tratta dei libri della femminista ed esponente del lesbismo materialista francese Monique Wittig pubblicati tra gli anni ‘60 e ‘80. Il direttore de le Editions de Minuit Thomas Simonnet, editore francese di Wittig, in un’intervista per Télérama del 3 gennaio ha dichiarato: «Limitandosi ai primi due, sono aumentate di dieci volte: L’Opoponax è passato dalle 100-150 copie all’anno alle 1500-2000, quelle de Les Guérillères da 250-300 copie a 2500-3000». La riscoperta e il successo delle opere di Wittig in Francia è un fatto sorprendente, se confrontato all’aura di mistero e tabù che ha a lungo circondato l’autrice, imputabile al “fallimento” del suo progetto politico. Anticipando di molto il dibattito contemporaneo, Wittig affronta i nodi del femminismo per dare luce a una riflessione totale che passa attraverso il linguaggio, i corpi, la sessualità, a una lotta universale che sfida la cultura, le classificazioni ideologiche, gli schemi sociali.

In The Straight Mind afferma che «il genere, imponendo alle donne l’uso di una particolare categoria, rappresenta una misura di dominio e di controllo. […] Ma la forza ontologica che consiste nel tentare di scomporre l’essere nel linguaggio imponendogli una marca, la manovra concettuale che consiste nel sottrarre agli individui marcati ciò che gli appartiene di diritto, cioè il linguaggio, devono cessare. Bisogna dunque distruggere completamente il genere. Questa impresa ha tutti gli strumenti per compiersi attraverso l’esercizio stesso del linguaggio».

 

Dopo il successo editoriale francese, la casa editrice “VandA Edizioni” decide di pubblicare quest’anno, con una nuova traduzione a cura di Deborah Ardilli , Il Corpo lesbico di Monique Wittig, fuori catalogo da almeno una trentina di anni. All’interno del testo si trovano vari frammenti poetici in prosa in cui l’autrice sperimenta distruzione e creazione di forme nuove, in un corpo a corpo con il linguaggio che sfida la possibilità di operare con le normali classificazioni letterarie. La costante presenza di organi, tessuti, secrezioni ossa toglie al corpo femminile le marche valorizzanti che lo sguardo patriarcale normalmente appone. Il termine corpo ha infatti un tratto polisemico: indica “corpo sociale” completamente liberato dalla presenza maschile, ma anche il corpus letterario che nasce dalle ceneri del canone eterosessuale, dalle ceneri di una mitologia citata per essere annichilita e riplasmata. Come spiega Deborah Ardilli durante un incontro per la presentazione del libro presso la libreria Tuba, «per Wittig la questione è far nascere un soggetto capace di dire in prima persona gli universali». Wittig era convinta che il femminismo dovesse riappropriarsi dell’universale ed è una battaglia riconducibile a quelle dei collettivi transfemministi odierni. Nei suoi scritti parla del genere come argomento appartenente primariamente alla filosofia e critica quanto la lingua lasci campo libero al concetto ontologico della divisione degli esseri umani in maschi e femmine. Secondo l’autrice è necessario inserirsi nella storia delle forme grammaticali per modificarla. E, ancora oggi, nel dibattito pubblico questo appare come una grande necessità perché di fatto il genere si manifesta ovunque vi sia un locutore e dunque ovunque ci sia un “io”.

 

Articolo di Sara Innamorati, Maria Quagliariello e Arianna Costantini