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Llaika: un viaggio post covid tra i luoghi della cultura indipendente – seconda tappa
Che Ci Fanno Tanto Divertire è il primo progetto del collettivo Llaika.
Katerina, ballerina classica di giorno, boxeuse di notte, in entrambi i casi si allena sulle note di Stravinsky. Barbara, dall’ossessione per i pokemon a domatrice di cagne randagie. Esther, la cuoca indiana low cost che non ci saremmo meritate. All’attivo, solo inesperienza punk e fanatismo astrologico. Questo è Llaika.
Per la sezione online di Scomodo, Llaika scriverà una serie di racconti a sei mani che riporteranno, oltre alle parole degli intervistati, le impressioni, gli stimoli e gli imprevisti di un viaggio improvvisato, nato dal desiderio di testimoniare le possibilità della cultura come pubblica risorsa fuori dal mercato dell’intrattenimento. Un’indagine territoriale sugli adeguamenti attuati dalle lavoratrici e dai lavoratori della cultura e dello spettacolo durante l’emergenza Covid19 che assume la forma di un viaggio in automobile a tappe iniziato da Venezia e terminato a Catania, alla ricerca di librerie, spazi espositivi, realtà musicali, performative e luoghi di produzione artistica.
Due erano le cose chiare: la durata massima del viaggio doveva essere di trenta giorni, il documentario e i racconti scaturiti dal viaggio avrebbero dovuto seguire un percorso non geografico ma tematico. E’ secondo questo principio che spazio per spazio abbiamo disegnato la nostra traiettoria.
Seconda tappa: Luoghi dello spettacolo
“Il teatro valorizza gli imprevisti” è il cavallo di battaglia che accoglie i visitatori all’ingresso di DOM la Cupola del Pilastro. Ma è stato in un certo senso anche il filo conduttore di questa seconda tappa, tra case con dodici gatti, influencer di periferia, ex manicomi, ghiaccioli al mojito e teatri catanesi infestati da strane presenze.
Il primo fra questa serie di incontri inaspettati è stata la compagnia teatrale Laminarie, che ha sede a DOM, spazio nel quartiere periferico del Pilastro a Bologna. La platea della Cupola accoglie assieme critici, studiosi, cittadini e ragazzi del quartiere senza nessuna differenza: questo è l’orgoglio di DOM. Il suo lavoro si concentra sui confini tra ricerca teatrale e attenzione alle periferie, dove flussi migratori e trasformazioni urbanistiche continue fanno evolvere l’imprevisto in energia dinamica. “Il centro storico è statico, non cambia. A me piace l’idea di un teatro che si inserisce in questa crepa” ci spiega Bruna Gambarelli, la direttrice artistica di DOM. Fumando una sigaretta ci racconta la storia del Pilastro, un quartiere popolare e difficile della periferia di Bologna, con un passato di scontri e un impegno irregolare da parte del comune. Vedere l’imprevisto come un vantaggio vuol dire essere deliberatamente imprudenti, “bisogna stare sul margine, sul dirupo”, perché il senso dell’opera artistica va lasciato in mano all’inatteso e all’imprevedibile. Nel 2009 Laminarie ha accolto la sfida, riuscendo con mille ostacoli a creare un rapporto di fiducia e partecipazione con i suoi abitanti.
Durante la quarantena la Cupola è rimasta chiusa, ma la priorità è stata offrire aiuto alle famiglie, donando pacchi alimentari e materiale scenografico per farsi delle mascherine, oltre che materiale didattico per i ragazzi costretti in casa. Nel frattempo, alcuni progetti annuali che coinvolgono i cittadini, come la lettura della costituzione, sono stati riadattati all’interno delle case, perché ‘senza i corpi il teatro non si fa’. Ci chiediamo quanto dovrà passare ancora prima che in Italia si capisca che sanità, scuola e cultura misurano il livello di civiltà di un Paese, e che per questo motivo non dovrebbero dipendere dall’economia. Per riaprire ci vogliono i soldi ma gli artisti sono ancora considerati dei saltimbanchi che devono divertire i principi. – Mi sto chiedendo se ha senso riaprire a queste condizioni.- ci dice Bruna.- Mi viene in mente una canzone di Jannacci..
Ho visto un re…
Dai dai, conta su…
ah bè, sì bè, ha bè, sì bè…
Dopo aver preso la nostra dose quotidiana di multe per ZTL, fotografato graffiti di transfemminismo militante e dato l’ultimo saluto alla Piana, la casa con nove coinquilini nel quartiere di San Donato che ci ha ospitato per tutta la nostra permanenza a Bologna, andiamo ad intervistare Andrea Mochi Sismondi e Fiorenza Menni iniziando con un grazioso siparietto in cui tentiamo di scassinare una porta d’ingresso, già aperta. E’ la porta dell’Atelier Sì, spazio bolognese di riferimento per quella fascia di pubblico giovane interessata al teatro contemporaneo e alla musica elettronica. Non contente, decidiamo di intervistare Andrea in uno spazio che sembra avere l’acustica di una portaerei. Le premesse sono quelle giuste, cominciamo.
L’emergenza ha costretto molti spazi a vedere un periodo temporaneo di chiusura come l’unica soluzione a un’improvvisa crisi, ma per Andrea e Fiorenza così non è stato: il bisogno di spettacoli dal vivo, di comunità e di arte è troppo importante, “rinunciare sarebbe stato solo un doppio colpo a una situazione già compromessa dalla mancanza di fondi”. Il loro approccio compartecipativo, da anni, permette al pubblico di entrare in relazione con gli artisti ospitati attraverso laboratori e workshop, ma soprattutto ha creato una rete di relazioni con il territorio, offrendo a giovani collettivi di attori e performer un luogo dove provare. Favorendo così indirettamente la nascita nel centro di Bologna di spazi collaterali come il DAS, di cui parleremo nel prossimo articolo.
Il luogo dove risiede l’associazione fa parte di un complesso che una volta era un monastero, ciò di cui sono più fieri oggi è di aver partecipato alla creazione di Lo stato dei luoghi, una rete nazionale di gestori di spazi che si occupa della riattivazione di luoghi dismessi o abbandonati. Dal punto di vista pratico, per affrontare l’emergenza causata dalla quarantena, Andrea e Fiorenza hanno deciso di utilizzare tutti gli ammortizzatori sociali disponibili, attivando per i collaboratori la cassa integrazione e aggiungendo a spese loro i soldi mancanti, rimodulando i progetti e facendo in modo che i professionisti potessero continuare a lavorare senza alcuna riduzione di stipendio.
La produzione si è rallentata notevolmente ma ci sono stati momenti preziosi a livello di ricerca, – ci dice Andrea. – Il modo in cui abbiamo interpretato le parole di Conte è molto in relazione con l’origine della parola divertire, il divertere inteso come mettersi in direzione opposta, necessario per gli artisti che vogliono ragionare sul presente -.
Dalle tasche di Barb cade una pistola giocattolo. Andrea fa una battuta, noi ridiamo imbarazzate. Sono gli imprevisti che ci regala la Piana, – le parole di Bruna ci rimbombano ancora nella testa, – “Il teatro valorizza gli imprevisti” – gli diciamo.
…un re che piangeva seduto sulla sella
piangeva tante lacrime, ma tante che
bagnava anche il cavallo!
– Povero re! …
Dopo aver percorso una lunga distesa di chilometri lungo l’andatura dolce dei colli che portano da Bologna a Firenze, arriviamo un po’ esauste al Parco San Salvi, dove è presente l’omonimo ex-manicomio, casa della compagnia teatrale Chille de la Balanza dal 1998.
La compagnia nasce a Napoli nel 1973 in piena epidemia di colera, una malattia “di pancia” in un certo senso più napoletana, diversa dal coronavirus che “prendendo il respiro rientra più nella logica dell’innamoramento”. Le digressioni romantiche di Sissi Abbondanza e Claudio Ascoli non sono poche, ed è così che dai sospiri passiamo ad un discorso sugli sguardi. A teatro si incontrano sguardi, e sono sguardi intimissimi, un incontro fra sguardi, quasi fa l’amore. Non c’è alcun rischio, per cui perché non si fa questo? Il vero problema non è sanitario. Noi stiamo vivendo il passaggio di un sistema che tende a tenerci separati. Ci soffermiamo sulla scelta lessicale di quello che è stato chiamato “distanziamento sociale”, mentre sarebbe stato forse più adeguato definirlo “distanziamento fisico”. Il fatto di costruirsi delle alternative, cioè delle familiarità diverse, non viene compreso dal nostro sistema sociale che non tiene in considerazione il desiderio di costruzione di affettività diverse da quelle stipulate dalla legge. È chiaro che in questa situazione i teatranti siano dei “rompicoglioni”, ci dice Claudio, “perché facendo questo tipo di professione in cui si lavora col corpo, sulla relazione, sulla reciprocità, sulla fisicità, sugli odori, sui sapori, il creare problemi diventa quasi un compito istituzionale”. Non a caso, Chille della Balanza ha deciso di presentare il primo spettacolo 15 secondi dopo la mezzanotte del 15 giugno, giorno in cui i teatri hanno visto il termine del periodo di sospensione. “Una scelta delirante. Potevano essere presenti pochissime persone, ma non importa, perchè il vero nodo è che siamo abbastanza convinti che delle dinamiche interne al manicomio siano riprodotte nello stato attuale delle cose”.
– E povero anche il cavallo! ….
…ah bè, si bè ah bè, sì bè…
Il complesso abitativo di Porto Fluviale Occupato, nel quartiere omonimo di Roma, lo riconosciamo subito dai graffiti di Blu, lo street artist, che ricoprono tutta la facciata esterna. Entrando ci troviamo letteralmente davanti l’immagine di una piazza, fra cani e bambini che giocano e ci offrono ghiaccioli al Mojito. Ad accoglierci Donatella con tutta la famiglia allargata di circensi che dal 2012 si allena quotidianamente nella Circofficina, un ex magazzino riconvertito a sala prove e sempre aperto a chiunque voglia affacciarsi allo spettacolo di strada, anche grazie a iniziative e laboratori ad offerta libera. Immerse nel caos della Clownerie, fra cabaret improvvisati, cilindri che volano e risate condivise, ci sentiamo così bene che usciamo da lì dopo quasi quattro ore, stremate e felici.
Promemoria: se vuoi veder arrossire un saltimbanco, chiedigli di sedersi a parlare di sé. Stretti sul divano sgangherato che sarà il teatrino della nostra intervista, Andrea, Daniela, Warner, Martina, Donatella e Andrea faticano a star quieti, l’emozione li rende quasi impacciati. Con loro c’è anche Rosa, abitante dell’occupazione con cui da subito hanno stretto un legame fraterno.
Cercavano uno spazio dove allenarsi quando hanno bussato al portone di Porto Fluviale, offrendo in cambio di ospitalità degli spettacoli settimanali per la comunità di cui ora fanno attivamente parte. Hanno scelto la strada perché la strada è di tutti: – tutti i tipi di società stanno assieme a guardar noi. A sorridere siamo tutti uguali no? -.
Infatti gli stessi artisti della Circofficina si definiscono “cittadini liberi di esprimersi”: – posso dire una parolaccia? Il pubblico non è coglione, però a volte le cose gliele devi spiegare perchè non gliele spiega nessuno -.
Difatti, il pubblico ha accolto con partecipazione ed entusiasmo il loro ritorno ad esibirsi in strada dopo il lockdown, a differenza delle istituzioni, che a tutt’oggi considerano l’arte di strada all’ultimo posto in quanto a tutele e sussidi. Per questo la Circofficina si è unita alle lotte per i diritti di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo, anche se per loro il riconoscimento più importante resta quello della gente comune.
Altro promemoria: a un saltimbanco non serve parlare se con una capriola capovolge il mondo.
…E sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re.
Fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam…
“Per il potere l’arte deve limitarsi a divertire, altrimenti diventa sovversiva. Ma il buffone di corte, il saltimbanco, cerca continuamente con le sue capriole di raccontare un’altra concezione del mondo, mascherando con una risata un atto politico.”
A parlare è Cesare Basile, militante del Teatro Coppola di Catania fin dal primo giorno di occupazione, che comincia l’intervista così: – Non c’è un cazzo da ridere -. In effetti l’ambiente intorno a noi non predispone molto alla risata: siamo ai primi di luglio e si sente ancora l’eco dei mesi di lockdown in cui il teatro è stato temporaneamente disabitato – perlomeno da presenze umane. Al telefono ci avevano avvisate che il Teatro Coppola non se la passa bene già da un po’: sta scontando un abbandono di forze dopo anni di gestione collettiva e di tenace opposizione alla mala gestione dei beni pubblici da parte delle amministrazioni locali, che li ha portati fin dall’inizio dell’occupazione a una presa di posizione radicale: – ‘possono parlare con noi solo attraverso gli sgomberi’ – ci dice Cesare.
Quando misero piede al Coppola dieci anni fa non avevano strategie politiche o obiettivi individuali, fu un atto spontaneo di un gruppo di artisti e lavoratori dello spettacolo ispirati dai movimenti Occupy che quell’anno interessarono la scena culturale indipendente a livello globale. L’unica volontà era di riscattare l’anima antica e originaria del teatro, fondato nel 1821 su richiesta del popolo stesso e caduto da anni in stato di abbandono dopo vari passaggi di mano e un bombardamento. Questo è il motivo per cui è stato ribattezzato ‘Teatro Coppola – teatro dei cittadini’; e se la rinuncia a un principio di autorità da una parte ne sta complicando la gestione, dall’altra è ciò che permette a luoghi come questo di rinnovarsi sempre senza paura dei rischi: – Io voglio un manipolo di ventenni che rada al suolo tutto e ci mandi a cagare -. Da quest’ottica rovesciata e non egemonica, non esistono fallimenti ma solo opportunità di cambiare, fare spazio ed essere visionari.
Nel nostro primo articolo sul sistema dell’editoria indipendente abbiamo parlato della lettura come atto di resistenza solitario. Per quanto riguarda le arti dello spettacolo, che per loro natura necessitano dell’incontro, i problemi sono più complessi e diverse sono state le risposte all’impossibilità di contatto fra corpi. Si tratta però ancora di soluzioni provvisorie, perché ad essere compromessa non è solo la fruibilità del teatro, ma il suo potere di riunire collettività, anche se estemporanee, in uno spazio di libertà a cui molti, nel loro quotidiano, non hanno accesso. Per questo lo spettacolo dal vivo va tutelato e il suo futuro non può essere lo streaming. Ma Bruna, Donatella, Andrea, Cesare ci dimostrano che bisogna essere determinati e testardi, e continuare a valorizzare gli imprevisti anche quando gli imprevisti non valorizzano il teatro.
Articolo di collettivo Laika