Per accessibilità si intende la capacità di fornire informazioni fruibili a tutti, inclusi coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie assistive o configurazioni particolari. Abbattere le barriere alla fruizione dei contenuti è il primo passo per permettere a più persone di partecipare e contribuire al cambiamento.
Per questo noi di Scomodo stiamo cercando di inserire strumenti che favoriscano la lettura e la navigazione del nostro sito a quanti più utenti possibile.
Cosa stiamo facendo? Stiamo cercando di migliorare sempre di più l’accessibilità delle informazioni e delle interazioni anche per chi ha necessità particolari: come ad esempio chi può navigare solo con la tastiera, oppure chi ha difetti della vista o disturbi del neurosviluppo che riguardano la capacità di leggere.
Un menu laterale, sempre visibile, ti permette di modificare la visualizzazione della pagina in modo da facilitare la navigazione a seconda delle tue esigenze:
Hai trovato difficoltà? Puoi scrivere a tancredi@leggiscomodo.com.
Il tuo aiuto ci fornirà ulteriori spunti per migliorare l’accessibilità del nostro sito.
Chiudi
La lotta transfemminista di Lucha y Siesta per la città di tuttɜ non si processa
«Questo processo è il frutto del fallimento delle istituzioni», sono le parole della Senatrice Ilaria Cucchi, tra i pochi interventi istituzionali di fronte al Tribunale di Roma la mattina del 10 gennaio scorso. È la stessa mattina in cui l3 attivist3 della Casa delle donne Lucha y Siesta hanno indetto una conferenza stampa a cui hanno partecipato, tra le altre, Donne in rete contro la violenza, Non Una di Meno, la Casa internazionale delle Donne e ActionAid Italia, unite dall’ideale che «l’antiviolenza non si processa». L’udienza vede imputata la presidente dell’associazione, rinviata a giudizio il 26 aprile, per occupazione abusiva della sede di Lucha y Siesta. È solo attraverso una resistenza transfemminista che ci si può preparare al peggio: a fine aprile Lucha, e tutta la città di Roma, potrebbero trovarsi senza una casa in cui continuare il lavoro portato avanti negli ultimi quindici anni dall’associazione.
Storia di uno spazio aperto
La Casa di Lucha, in via Lucio Sestio 10 nel quartiere Tuscolano, ha a disposizione 14 stanze che hanno accolto 142 donne (di cui 62 minori) che si sottraggono a situazioni di violenza, sostenendone dal 2008 oltre 1200. Senza questo spazio, che è «una metodologia e uno strumento di trasformazione», ci racconta Angela D’Alessandro, una delle fondatrici di Lucha, il Comune di Roma rimarrebbe con soli 11 posti letto, contro i 300 che dovrebbero essere garantiti secondo quanto stabilito dalla Convenzione di Istanbul. Lo stabile, ex Sottostazione Cecafumo di proprietà di Atac, abbandonata da anni e mai rivendicata, è stato occupato nel 2008 da un gruppo di donne e attivist3 politic3 provenienti da diversi movimenti sociali della scena nazionale. È resistito prima all’alienazione dei beni dell’agenzia del trasporto autoferroviario, che avrebbe trasferito a tutti gli effetti il diritto di proprietà e di azione sull’immobile ad Atac (voluta dal commissario straordinario Mario Morcone nel 2008), e poi alla messa all’asta durante la giunta Raggi. L’edificio era stato messo all’asta durante il concordato fallimentare della partecipata del trasporto pubblico. Il fine era quello di recuperare somme necessarie a pagare i debiti. Come ci ricorda Simona Ammerata, socia fondatrice di Lucha, la sindaca si rese protagonista di una campagna che l’ha vista paladina dei valori dell’antiviolenza in pubblico ma antagonista all’interno dell’amministrazione.
L’impasse della messa all’asta si risolse grazie all’acquisizione del bene da parte della Regione Lazio nel 2021. Dando voce alla proposta della consigliera regionale Marta Bonafoni, la Regione Lazio aveva infatti stanziato 2,4 milioni di euro per partecipare all’asta e avviare una co-progettazione dello spazio. «Con questa acquisizione la Regione riconosce una storia importante e apre, a tutta la comunità che l’ha scritta, un futuro possibile dopo anni di precarietà e incertezze», si legge su un comunicato di Lucha dell’agosto 2021. La volontà politica era quella di riconoscere la Casa di Lucha come un bene comune, per «garantire la fruizione collettiva e condividere la responsabilità della cura, della rigenerazione e della gestione in forma condivisa» dell’immobile. Una presa di posizione che ha fatto tirare a Lucha, e a tutte le donne che ogni giorno l’attraversano, un respiro di sollievo. Un sollievo interrotto in queste settimane dall’avviso di chiamata per un processo, il secondo per Lucha dopo quello del 2008, a pochi mesi della sua nascita.
Sono passati due anni da quando l’immobile è stato acquistato dalla Regione per essere ceduto alla Casa delle donne, eppure, quella di oggi sembra essere una pagina ancora più buia. Nonostante lo stabile sia, de facto, di Lucha y Siesta, Atac ha deciso di non ritirare la denuncia a carico del Centro antiviolenza (Cav) per l’occupazione illegale dal 2008 al 2021. Mandando a processo Lucha – che in caso di sconfitta sarebbe costretta a pagare una somma insostenibile e a chiudere di conseguenza la sua casa – si sta mandando a processo il diritto di esistere di un luogo fondamentale per la città. Ciò che è necessario mettere a tema è il profilo stesso della legalità, che non può e non deve fermarsi all’esercizio sterile del diritto alla proprietà privata. «Se la politica e l’amministrazione sono chiamate a veicolare una scelta di tutela effettiva delle donne (decurtate dalla violenza maschile), con sacrificio della proprietà dell’immobile occupato, per la magistratura è occasione preziosissima di riaffermazione del suo ruolo di tutela democratica e sostanziale dei diritti: è il compito di chi esercita la giurisdizione”, sono le parole dell’avvocata Francesca Barone di Esc Infomigrante. Garantire il diritto alla proprietà di Atac, senza farsi carico delle dinamiche sociali di tutela di persone in condizioni di difficoltà, non è altro che la manifestazione di una visione miope e utilitarista di un bene, che è prima di tutto della comunità che ne fa parte.
Lucha non è solo un’occupazione del Tuscolano in quanto casa rifugio, ma anche «polo culturale, luogo di confronto e crescita collettiva»; sono obiettivi fisici e di riflessione quelli che porta avanti attraverso una rete di luoghi aperti che è stata in grado di costruire sul territorio nel corso degli anni, ultimo dei quali il Cav all’interno dell’Università di Roma Tre, inaugurato poco più di un mese fa. Un luogo che è il «risultato di un percorso politico, e anche di pressione», continua a raccontarci Angela D’Alessandro. Il fatto che qualche anno fa non esistessero Cav all’interno delle università e che ora ce ne siano tre solo nella città di Roma (Sapienza, Roma Tre e Tor Vergata) è una svolta epocale, che segna un prima e un dopo nella costruzione di una città che metta al centro la lotta contro la violenza di genere. Essere riuscite a portare in un luogo di cultura e di scambio come quello universitario, non solo un servizio, ma un progetto teorico che si impegna ogni giorno nella costruzione di uno spazio senza violenza, è stato possibile grazie alla storia di Lucha, impegnata da sempre nella costruzione di un piano femminista e transfemminista contro la violenza maschile sulle donne, stilato dal movimento Nudm (Non una di meno). Lucha y Siesta è riuscita, con le proprie prassi e i saperi condivisi, a tenere insieme i pezzi dell’associazionismo della città e a mettere in dialogo anche il mondo autogestito e quello istituzionale, proponendosi essa stessa come un’istituzione transfemminista a tutti gli effetti.
Un’isituzione transfemminista
«Lucha noi l’abbiamo sempre vissuta e pensata – perché io, in circonferenze diverse, mi considero parte di Lucha – come un’istituzione transfemminista», ci dice Federica Giardini, docente di filosofia politica a Roma Tre, attivista e direttrice del Master di I livello «Studi e politiche di genere» nel medesimo ateneo. «Abbiamo un’idea femminista di che cosa sia un’istituzione», continua: «un modo di vivere e agire insieme in risposta a dei bisogni. In più, un’istituzione transfemminista ha che è autodeterminata, mentre non si può dire così di un’istituzione universitaria. Non solo, dunque, (Lucha) è un’istituzione ma è anche – e questo è un altro insegnamento del femminismo – un luogo di lotta».
Queste parole permettono di intravedere come, separando la lotta dal pensiero, verrebbero meno le fondamenta del pensiero stesso e delle pratiche che ne scaturiscono. Non si può credere, infatti, o continuare a credere, che le pratiche politiche e le pratiche di pensiero debbano necessariamente essere distinte e relegate ognuna nei luoghi in cui convenzionalmente si pensa che si producano. Risolvere questa distinzione, far dialogare le due parti – in questo caso le istituzioni transfemministe da un lato e quelle universitarie dall’altro – dirime e rimescola i confini; permette, quindi, di comprendere che la lotta, a prescindere da quale essa sia, si fa e si produce insieme in quello spazio chiamato tra. Nel piano femminista e transfemminista sopra citato, ad esempio, un punto di cruciale importanza è proprio quello che riguarda le scuole e le università: in entrambe, si scrive, occorrerebbe «un ripensamento strutturale del sistema educativo e formativo» tramite un’educazione femminista e un attento contrasto alle violenze di genere partendo dal linguaggio (tramite la costruzione di una lingua non sessista e universalizzante al maschile), dal superamento del binarismo di genere nell’interpretazione dell’identità e dalla decostruzione degli stereotipi interiorizzati da parte di docent3 ed educator3.
Un esempio proficuo del dialogo tra l’istituzione accademica e quella militante, nonché la messa in pratica di un percorso di formazione e ricerca comune, è proprio quello del Master di Studi e politiche di genere. Come ci spiega Giardini, il Master – di cui Lucha y Siesta è parte ideante e integrante – può essere considerato come una delle cosiddette «zone temporaneamente autonome» (Taz). Le Taz, come le chiamò il suo teorizzatore anarchico Hakim Bey a cavallo dell’epoca post-punk, si configurano come nuovi luoghi riabitati e ridefiniti dalle lotte. Il Master è dunque questo, «ciò che ridefinisce il rapporto tra insegnare e apprendere, tra chi ascolta e chi parla». Se non prendiamo l’istituzione solo come ciò che è normativo ma anche come i nostri modi di fare-insieme, le alternative si possono praticare ovunque si trovino i luoghi per farle. Lucha non è fuori, ma è parte di tutto questo processo», conclude Federica Giardini.
Negli atenei, spesso, un altro modo di fare-mondo e ridefinire spazi a partire dal basso è quello proposto dai collettivi transfemministi dove, al bisogno dell3 studenti, altr3 studenti sono pront3 a prestare il proprio ascolto, in un contesto di anonimato e alleanza, nonché a assicurare informazione e confronto tra pari. Si tratta per lo più di collettivi, i cui luoghi sono spazi di rivendicazione, attenti alla difesa delle donne, delle soggettività queer e Lgbtq+ i cui diritti non vengono tutelati o garantiti adeguatamente, nemmeno dentro i sistemi accademici stessi. A tal proposito è da una mancanza, quella di una realtà apertamente transfemminista, che nel 2018 all’interno di Roma Tre è nato il collettivo Marielle, ispirato alla sociologa e attivista politica per i diritti delle donne e delle soggettività Lgbtq+ Marielle Franco.
«Il nostro collettivo ha una forte spinta all’intersezionalità delle lotte», ci racconta Irene Proietto, attivista di Marielle, «e negli anni esso ha lavorato – e sta continuando a lavorare – su diversi fronti: dalla messa a disposizione di un Cav all’interno dell’ateneo, alla creazione della carriera alias per l3 studenti trans, al regolamento antimolestie». Le Marielle (così si chiamano tra di loro), hanno inoltre una storia molto lunga con la realtà di Lucha y Siesta: dapprima fruitrici delle iniziative culturali e territoriali proposte dalla Casa, oggi sono accomunate dal progetto attivo del Cav all’interno di Roma Tre. «Sin dall’inizio noi ci siamo messe a disposizione come collettivo per realizzare all’interno del centro antiviolenza iniziative sul territorio, attività informative e di sensibilizzazione». Uno dei progetti che partirà a febbraio, infatti, è La Consultoria. «Ruoterà attorno a due filoni fondamentali», conclude Irene nella nostra chiacchierata: «uno riguardante la salute riproduttiva e l’altro le dinamiche all’interno delle relazioni tossiche». La Consultoria, così come le realtà che la gestiscono, dunque, è uno spazio di orientamento e ascolto co-gestito da Lucha e Marielle e pensato prevalentemente come luogo di autoformazione e (dis)educazione. Come ribadito dalle testimonianze di tutte le attiviste, viene naturale notare che la vera differenza all’interno dei centri antiviolenza la fanno gli approcci politici che ne sono alla base: questi esempi ne sono una dimostrazione.
Il diritto di costruire una città per tutt3
Forse è importante tornare al punto di partenza, chiedersi cosa significhi, in ultima istanza, difendere spazi come Lucha. Lucha y Siesta non è solamente un centro antiviolenza, come se – di per sé – questo fosse poco. Lucha è «uno spazio di liberazione e di autodeteminazione, uno spazio di alleanza (più che di tutela) per la realizzazione di desideri», dice Giardini. Lucha è lo spazio dove immaginare il possibile, sempre più difficile oggigiorno; è il luogo dal quale partire per iniziare a costruire insieme un ideale di città transfemminista.
Nel volume di Presente Nuove Periferie (2021), pubblicazione di Scomodo sulle nuove periferie urbane – ci si focalizzava su cosa significhi progettare una città secondo le prassi di un’urbanistica transfemminista. In sostanza significa «assumere una postura diversa nell’osservare le dinamiche urbane», una postura critica e decentrata rispetto al punto di vista dell’uomo bianco, abile, etero e cis per il quale le città sono di norma pensate e costruite. Significa dare spazio alle soggettività invisibilizzate e marginalizzate e, a partire da loro, creare delle pratiche politiche di riappropriazione degli spazi e delle città, che non sono sfondo del nostro quotidiano ma tessuto continuo dei nostri corpi. Questo ha cercato di costruire Lucha y Siesta negli ultimi quindici anni, donando alla città uno spazio fisico e di produzione di cultura politica di valore incalcolabile. Tutto questo è ciò che verrà messo a processo il prossimo 26 aprile. Un buco nell’acqua, si spera, perché se così non fosse bisognerebbe ricominciare a interrogarsi su cosa sia, oggi, la giustizia.
Articolo di Francesca Cinone e Cecilia Pellizzari